giovedì 1 luglio 2021

TEMI - I RAGAZZI - ILIUSCIA E LA SASSAIOLA

 

LIBRO QUARTO - CAPITOLO 3




Ma Alëša non ebbe il tempo di pensare a lungo: per strada gli accadde un incidente all'apparenza non molto rilevante, ma che gli fece un profonda impressione. 

VIE DI CITTA' E CANALI

Aveva appena attraversato la piazza e svoltato nel vicolo che portava in via Michajlovskij, parallela alla Bol'šaja, ma separata da questa da un piccolo canale (la nostra città è interamente intersecata da canali), quando scorse giù, davanti al ponticello, un gruppo di scolaretti, tutti ragazzini dai nove ai dodici anni, non di più. 

Stavano tornando a casa da scuola, 

chi con la cartelletta in spalla, 

chi con la borsa di cuoio a tracolla, 

alcuni con il giubbetto, altri con il cappottino; 

alcuni calzavano persino quegli alti stivali con i risvolti sul gambale con cui amano tanto darsi arie i ragazzini viziati dai padri facoltosi. 

Tutto il gruppetto discuteva con animazione, tutto lasciava credere che si stessero consultando. 

Alëša non passava mai con indifferenza accanto ai bambini; anche a Mosca gli capitava questo, e sebbene egli prediligesse i bimbi sui tre anni, gli piacevano pure gli scolaretti sui dieci, undici anni e, per quanto in quel momento fosse preoccupato, tuttavia gli venne voglia di deviare verso di loro e attaccare discorso. 

Mentre si avvicinava, osservava i loro visetti rossi, animati e subito notò che tutti i ragazzini avevano in mano una pietra, alcuni anche due. 

Al di là del canale, all'incirca a una trentina di passi dal gruppetto, 

ILIUSCIA

c'era un altro ragazzino in piedi, accanto a uno steccato, anche lui uno scolaretto con la sua borsa dei libri a tracolla; a giudicare dalla statura poteva avere una decina d'anni, non di più, forse anche meno, palliduccio, piuttosto emaciato, con gli occhietti neri scintillanti. 

GLI ALTRI 6

Egli osservava con sguardo attento e indagatore il gruppo degli altri sei scolaretti, probabilmente suoi compagni, con i quali era appena uscito da scuola, ma evidentemente tra loro non correva buon sangue. Alëša si avvicinò e, rivolgendosi a 

un bambino ricciuto, biondo, colorito, che indossava un giubbetto nero, osservò: 

«Quando portavo la mia borsa dei libri, uguale alla vostra, la tenevo sul fianco sinistro per poterci arrivare subito con la mano destra, invece voi la portate sulla destra, così è più scomodo prendere quello che vi occorre». Alëša aveva intavolato la discussione con questa osservazione di ordine pratico, senza alcuna astuzia o premeditazione da parte sua; d'altronde, per un adulto, non c'è un modo migliore se vuole conquistare subito la fiducia di un bambino, tanto più di un gruppo intero di bambini. Si deve proprio cominciare con piglio serio e con argomenti pratici in modo da trovarsi subito su un piede di parità; Alëša questo lo intuiva istintivamente. 

 «Ma lui è mancino», gli rispose prontamente 

un altro ragazzino, un tipetto sveglio e in salute, sugli undici anni. 

Gli altri cinque fissarono tutti Alëša. «Anche le pietre le lancia con la sinistra», notò un terzo bambino. In quell'istante si vide piombare sul gruppo una pietra, che sfiorò leggermente il ragazzo mancino, e poi passò oltre, sebbene fosse stata lanciata con forza e abilità. Era stato il ragazzino appostato al di là del canale a lanciarla. «Colpiscilo, dagli addosso, Smurov!», si misero a gridare in coro. Ma Smurov, il mancino, non si fece tanto pregare e replicò immediatamente scagliando un sasso contro il ragazzino al di là del canale, ma mancò il bersaglio: la pietra rimbalzò per terra. Il ragazzino oltre il canale scagliò senza indugi un altro sasso, ma questa volta dritto addosso ad Alëša e lo colpì piuttosto forte sulla spalla. 

Quel ragazzaccio aveva tutta la tasca piena di sassi pronti all'uso. Si vedeva anche dalla distanza di trenta passi, dalle tasche rigonfie del suo cappottino. 

 «L'ha lanciata a voi, proprio a voi, ha mirato proprio a voi. Siete un Karamazov, un Karamazov, vero?», urlarono i ragazzi fra le risa. 

«Su, coraggio, tiriamo tutti insieme, fuoco!» E sei sassi volarono tutti insieme dal gruppo. Uno colpì il ragazzino sulla testa e lo fece cadere, ma dopo un attimo quello balzò in piedi e cominciò, infuriato, a bersagliare di sassi il gruppo. La sassaiola divenne più fitta da entrambe le parti; anche alcuni ragazzini del gruppetto avevano fatto provvista di sassi e ne avevano le tasche piene. 

 «Ma che fate? Non vi vergognate, signori? Sei contro uno, finirete per ammazzarlo!», gridò Alëša. Si era alzato e si parava dinanzi alle pietre volanti per proteggere con il suo corpo il ragazzino al di là del canale. Tre o quattro ragazzini smisero di gettare pietre per un attimo.

ACCENNO A KRASOTKIN

 «È stato lui a cominciare!», gridò un ragazzino in camiciotto rosso con una stizzosa vocina infantile. «È un mascalzone, tempo fa in classe ha ferito con un temperino Krasotkin, gli ha fatto uscire il sangue. Krasotkin non ha voluto fare la spia, ma dobbiamo dargli una lezione...» «Ma per quale motivo? Certo, sarete stati voi a provocarlo, vero?» 

 «Ecco, vi ha tirato un altro sasso nella schiena. Lui sa chi siete», gridarono i ragazzini. «Adesso ce l'ha con voi, non più con noi. Tutti addosso, ragazzi, ancora una volta, non lo mancare Smurov!» 

SASSAIOLA

 E riprese la sassaiola, questa volta con impeto più violento. Il ragazzino al di là del canale fu colpito in pieno petto da una pietra; lanciò un urlo, scoppiò a piangere e si mise a correre su per la salita in direzione di via Michajlovskij. 

Un urlo si levò dal gruppetto: «Ah, ha avuto paura, se la batte, straccio di stoppa!» 

 «Voi, Karamazov, non lo sapete che mascalzone è quello lì, ammazzarlo sarebbe poco», ripeté il ragazzo in giubbetto, con gli occhietti accesi; sembrava il più anziano del gruppo. «Ma che male ha fatto?», domandò Alëša. «Ha fatto la spia forse?» I ragazzini si scambiarono un'occhiata, ridacchiando. «Siete diretto anche voi da quella parte, verso via Michajlovskij?», soggiunse lo stesso ragazzino di prima. «Allora cercate di raggiungerlo... Vedete? Si è fermato di nuovo, vi sta aspettando, sta guardando voi». «Sì, proprio voi, sta guardando proprio voi!», esclamarono gli altri. «Allora domandategli se gli piacciono gli stracci di stoppa, quelli del bagno, tutti stropicciati. Avete sentito? Domandateglielo». 

 Scoppiò una risata generale. Alëša guardava i ragazzi e quelli guardavano lui. «Non ci andate, quello vi farà del male», gridò Smurov in tono di ammonimento. 

 «Signori, non gli domanderò nulla dello straccio di stoppa, state pur certi, perché voi sicuramente lo prendete in giro in qualche modo con quelle parole, ma scoprirò il motivo per cui lo odiate tanto...» «E allora scopritelo, scopritelo», e i ragazzi scoppiarono a ridere. 


 Alëša superò il ponticello e si diresse per la salita affiancando uno steccato, in direzione di quel ragazzo che si era attirato le antipatie di tutti. «State attento», gli gridarono dietro i ragazzi a mo' di avvertimento, «quello non avrà paura nemmeno di voi, è capace di colpirvi a tradimento, come ha fatto con Krasotkin». 

LENTE SU ILIUSCIA

 Il ragazzo era fermo lì ad attenderlo. Quando gli fu vicino, Alëša si vide davanti

  un ragazzino di nove anni, non di più, esile e denutrito, con un visetto lungo, pallido e magro, da cui spuntavano due occhioni scuri che lo scrutavano con ostilità. Indossava un vecchio cappottino liso, che gli andava grottescamente piccolo. Le braccia nude gli spuntavano dalle maniche. Sul ginocchio destro dei pantaloni c'era una grossa toppa e sulla punta dello stivaletto destro, all'altezza dell'alluce, si apriva un grosso buco, che evidentemente era stato mascherato con un'abbondante mano di inchiostro. Le tasche rigonfie del cappotto erano piene di sassi. Alëša si fermò a due passi di distanza da lui, guardandolo con aria interrogativa. 

Il ragazzo capì subito dallo sguardo di Alëša che questi non voleva picchiarlo, allora abbandonò la sua aria spavalda e gli rivolse per primo la parola. «Io sono solo e loro sono sei... Ma non importa, li batterò tutti da solo», disse a bruciapelo con gli occhi di fuoco. «Un sasso deve avervi colpito molto forte», osservò Alëša. «Ma anche io ho colpito Smurov alla testa!», replicò il ragazzo. 

 «Mi hanno detto che mi conoscete e che mi avete lanciato quel sasso di proposito, è vero?», domandò Alëša. Il ragazzo lo guardò con aria torva. «Io non vi conosco. Ma voi mi conoscete?», tornò a domandare Alëša. «Lasciatemi in pace!», strillò il bambino stizzito, restando immobile al suo posto, come se aspettasse; i suoi occhi erano nuovamente accesi di odio. «Va bene, me ne andrò», disse Alëša. «Io non vi conosco e non vi prendo in giro. Mi hanno detto che cosa vi dicono per prendervi in giro, ma io non voglio prendervi in giro, addio!» «Monaco in calzoni!», gli gridò dietro il ragazzo sempre con lo stesso sguardo provocatorio e carico d'odio, mettendosi subito in guardia, sicuro del fatto che Alëša a quel punto lo avrebbe aggredito. Invece Alëša si voltò, lo guardò appena e proseguì per la sua strada. Ma aveva fatto pochi passi, quando fu colpito alla schiena da un grosso sasso, il più grosso di quelli che il ragazzo teneva nella tasca. «Come, colpite alla schiena? Allora dicono il vero sul vostro conto, voi colpite a tradimento?», Alëša si voltò nuovamente, ma questa volta il ragazzo gli lanciò con accanimento un altro sasso dritto in faccia, Alëša riuscì a schivarlo e la pietra lo colpì soltanto al gomito. «Ma come, non vi vergognate? Che male vi ho fatto io?», gridò. 

IL DITO MORSICATO

 Il ragazzo taceva e aspettava con aria provocatoria soltanto che Alëša gli si scagliasse finalmente contro; vedendo che quello non lo aggrediva nemmeno questa volta, si arrabbiò come una piccola belva: balzò dal suo posto e si scagliò lui stesso contro Alëša, e quello non fece in tempo a muoversi, che il perfido ragazzino con il capo chino gli afferrò con entrambe le mani la mano sinistra e gli addentò dolorosamente il dito medio. Affondò i denti nella carne e per una decina di secondi non mollò la presa. 

Alëša lanciò un urlo di dolore, cercando con tutte le sue forze di liberare il dito. Il ragazzo allentò la presa e balzò indietro al suo posto. Il dito aveva una brutta ferita, vicino all'unghia, profonda sino all'osso; il sangue sgorgava abbondante. Alëša estrasse il fazzoletto e si fasciò stretta la mano ferita. Stette lì a fasciarsi la mano per un intero minuto. Nel frattempo il ragazzo rimaneva lì in piedi, in attesa. Finalmente Alëša sollevò su di lui il suo sguardo calmo: «Vedete», disse, «vedete che brutto morso mi avete dato? Adesso basta, vero? Ora ditemi: che cosa vi ho fatto?» Il ragazzo lo guardò con aria stupita. «Sebbene io non vi conosca affatto e questa sia la prima volta che vi vedo», continuò Alëša sempre con il suo tono pacato, «non è possibile che io non vi abbia fatto nulla, non mi avreste mai fatto male senza un motivo. E allora, che cosa vi ho fatto? Che colpa ho verso di voi? Parlate». 

 Invece di rispondere, il bambino scoppiò in un pianto dirotto e scappò via da Alëša singhiozzando. Alëša lo seguì con calma in via Michajlovskij e seguì a lungo con lo sguardo il ragazzo che correva lontano, senza rallentare il passo, né girarsi a guardare e, probabilmente, continuando a piangere a squarciagola. Si ripromise fermamente di riprendere le ricerche, non appena ne avesse avuto il tempo, per chiarire quell'enigma che lo aveva colpito in modo straordinario. Adesso, però, non aveva tempo.