mercoledì 21 luglio 2021

IL FIDANZATO POLACCO DI GRUSHENKA







RAKITIN

 «È un polacco, quel suo ufficiale», riprese a parlare, controllandosi, «e non è affatto un ufficiale adesso, prestava servizio alla dogana in Siberia, da qualche parte sul confine cinese, dunque sarà uno di quei polaccucci di mezza tacca. 

Dicono che abbia perso il posto. Adesso ha sentito che Grušen'ka ha raggruzzolato un capitale ed è tornato, ecco in cosa consiste tutto il miracolo».


LIBRO VIII

Sul divano era seduto lui, e al lato del divano, su una sedia presso la parete sedeva un altro sconosciuto. Quello sul divano stava rilassato, fumava la pipa, e Mitja ebbe l'impressione che fosse un omino grassoccio e dalla faccia larga, probabilmente non molto alto, e che fosse irritato per qualcosa. Invece il suo compagno, l'altro sconosciuto, a Mitja sembrò eccezionalmente alto, ma non riuscì a vederlo bene. 




 Piano piano aveva preso a sbirciare anche i due pan, anche se non si rendeva ancora pienamente conto di loro. Il pan sul divano lo aveva colpito per il suo portamento dignitoso, per il suo accento polacco e, soprattutto, per la pipa. "E allora? È una buona cosa che fumi la pipa", osservò Mitja. Il viso leggermente inflaccidito di quel pan alle soglie della quarantina, con il naso minuto sotto il quale spuntavano due sottilissimi baffetti a punta, tinti e impudici, per il momento non aveva suscitato alcuna perplessità in Mitja. Mitja non fu nemmeno particolarmente colpito dal malandato parrucchino del pan, un prodotto siberiano, con tanto di ricciolini stupidissimamente pettinati in avanti sulle tempie: "Vorrà dire che le parrucche vanno così", continuava ad osservare con benevolenza. L'altro pan invece, quello seduto presso la parete, più giovane di quello sul divano, che guardava tutta la compagnia con aria insolente e provocatoria e ascoltava la conversazione generale con sprezzo silenzioso - anche quello colpì Mitja solo per la sua altezza esagerata, incredibilmente sproporzionata rispetto a quella del pan sul divano. "Se si alza in piedi sarà alto due metri", venne in mente a Mitja. Gli venne pure in mente che quel pan alto, con ogni probabilità, doveva essere l'amico e lo scagnozzo di quello sul divano, una specie di "guardia del corpo" e che il pan basso, quello sul divano, sicuramente comandava quello alto. 




Il pan con la pipa parlava il russo piuttosto bene o, almeno, molto meglio di quanto volesse far credere. Le parole russe, quando le usava, le storpiava sempre in una forma polacca. «Ma se io stesso sono stato sposato a una donna polacca, signore», ribatté Maksimov ridacchiando. «Avete forse servito nella cavalleria? Voi stavate parlando di cavalleria. E allora, siete forse un cavalleggero?», s'intromise immediatamente Kalganov. «Sì, certo, era forse anche lui un cavalleggero? Ah, ah!», gridò Mitja, che ascoltava la conversazione con avidità e spostava il suo sguardo interrogativo da uno all'altro degli interlocutori, come se si aspettasse di sentire Dio solo sa cosa da ciascuno di loro. «No, signore, vedete, signore», si rivolse a lui Maksimov, «quello che voglio dire, signore, è che quelle piccole pani... molto carine, signore... quando ballano la mazurca con un nostro ulano... dopo che una di quelle ha ballato la mazurca con un ulano, quella gli salta subito sulle ginocchia come una gattina signore... una gattina bianca... e il pan-padre e la panimadre vedono tutto e lasciano fare.... e lasciano fare, signore... e l'ulano il giorno dopo va a chiedere la mano... ecco, signore... va a chiedere la mano, eh, eh!», ridacchiò Maksimov a conclusione del suo discorso. «Il pan è un lajdak!», borbottò all'improvviso il pan alto sulla sedia e accavallò una gamba sull'altra. Mitja fu colpito soltanto dall'enorme stivale coperto di grasso e dalla spessa suola infangata. E in generale tutti e due i pan avevano un aspetto piuttosto sudicio. «Siamo arrivati anche a lajdak! Come vi permettete di insultare?», disse ad un tratto Grušen'ka irritata. «Pani Agrippina, il pan ha visto in paese polacco solo serve e non pani di buona nascita», osservò il pan con la pipa rivolto a Grušen'ka. «Ci potete scommettere!», tagliò corto sprezzantemente il pan alto sulla sedia. «Ancora? Ma fatelo parlare! Se ha voglia di parlare perché impedirglielo? Almeno ci divertiamo un po'», disse Grušen'ka seccata. «Ma io non glielo impedisco, pani», ribatté con aria di importanza il pan con il parrucchino, soffermandosi con lo sguardo su Grušen'ka, poi, richiusosi in un dignitoso silenzio, ricomincia a succhiare la sua pipa. [...]


BRINDISI ALLA POLONIA 

Mitja iniziava a preoccuparsi perché aveva notato che il pan sul divano lo guardava con un'espressione irritata. «Pan», gridò Mitja, «beviamo, panie! E pure con l'altro pan: beviamo, panowie!». In un batter d'occhio Mitja mise insieme tre bicchieri e li riempì di champagne. «Alla Polonia, panowie, bevo alla vostra Polonia, alla terra polacca!», esclamò Mitja. «Bardzo mi to mi³o, panie, vypiemy (mi fa molto piacere, signore, beviamo)», disse il pan sul divano con aria grave e benevola e prese il proprio bicchiere. «E l'altro pan, - come si chiama? - ehi, illustrissimo, prendi il bicchiere!», insisteva Mitja. «Pan Vrublevskij», suggerì il pan sul divano. Pan Vrublevskij si avvicinò al tavolo con la sua camminata dondolante e prese il suo bicchiere restando in piedi.

...E ALLA RUSSIA

 «Per la Polonia, panowie, urrà!», gridò Mitja sollevando il bicchiere. Bevvero tutti e tre. Mitja afferrò la bottiglia e riempì immediatamente i tre bicchieri. «Adesso alla Russia, panowie, fraternizziamo!» «Versa anche a noi», disse Grušen'ka, «alla Russia voglio bere anch'io».

«E anch'io», disse Kalganov. «Vorrei anch'io, vossignoria... per la dolce Russia, la nostra vecchia nonnetta», ridacchiò Maksimov. «Tutti, tutti!», esclamava Mitja. «Locandiere, altre bottiglie!» Portarono tutte e tre le bottiglie avanzate nella cassa che Mitja aveva portato con sé. Mitja versò lo champagne per tutti. «Alla Russia, urrà!», annunciò un'altra volta. 

Bevvero tutti tranne i pan, e Grušen'ka scolò il suo bicchiere tutto d'un fiato. Mentre i panowie non toccarono nemmeno i loro bicchieri. 

 «Come mai, panowie?», esclamò Mitja. «Perché non bevete?» 

 Pan Vrublevskij prese il bicchiere, lo sollevò e con voce stentorea disse: «Per la Russia nei confini precedenti al 1772!» «Oto bardzo piêkne! (Così sì che va bene!)», gridò l'altro pan e tutti e due si scolarono i bicchieri. 

 «Ma che imbecilli che siete, panowie!», sfuggì a Mitja. 

 «Pa-nie!», gridarono all'unisono i due pan in tono di minaccia, attaccando Mitja come una coppia di galletti. Soprattutto pan Vrublevskij era inferocito. 

 «Ale nie mona nie miec s³aboœci do svojego kraju? (Si può forse fare a meno di amare il proprio paese?)», proclamò quello. 

 «Tacete! Non litigate! Soprattutto, niente liti!», gridò perentoriamente Grušen'ka e batté con un piede per terra. Il viso le si era infuocato, gli occhi le scintillavano. Il bicchiere che aveva appena bevuto cominciava a fare sentire il suo effetto. Mitja si spaventò a morte. 

 «Panowie, perdonatemi! È stata colpa mia, non lo farò più. Vrublevskij, pan Vrublevskij, non lo farò più!..» 

 «Ma sta zitto pure tu, siediti, ma che stupido che sei!», Grušen'ka lo rimproverò con stizza rabbiosa. Se ne stavano tutti seduti, in silenzio, si scambiavano occhiate a vicenda. 

 «Signori, sono stato io la causa di tutto!», riattaccò Mitja incapace di comprendere le parole di Grušen'ka. «Ma che stiamo a fare qui seduti? Be', che cosa potremmo fare... per divertirci un po', per divertirci ancora?» 

 «Ah, infatti non è affatto divertente tutto questo», biascicò pigramente Kalganov.



LA PARTITA A CARTE

«E se giocassimo ancora a faraone, signori miei, come prima...», ridacchiò all'improvviso Maksimov. «A faraone? Magnifico!», colse la palla al balzo Mitja. «Se soltanto i panowie...» 

 «È póŸno, panie!», replicò controvoglia il pan sul divano. «È vero», assentì anche pan Vrublevskij. «PóŸno? Che cosa vuol dire póŸno?», domandò Grušen'ka. «Significa tardi, pani, tardi, è ora tarda», le spiegò il pan sul divano. «È sempre tardi per lui, per lui non si può mai far niente!», la voce di Grušen'ka quasi stridette per la stizza. «Se ne stanno seduto annoiati e vogliono che anche gli altri si annoino. Prima che tu venissi, Mitja, se ne stavano zitti e si davano un sacco di arie con me...» 

 «Mia dea!», gridò il pan sul divano.«Come tu dici, così sarà. Widzê nie³askeê i jestem smutny (vedo che non sei ben disposta e allora mi rattristo). Jestem gotów, panie (sono pronto)», concluse rivolgendosi a Mitja. 

 «Comincia pure, panie!», lo incalzò Mitja tirando fuori dalla tasca le sue banconote e mettendone sul tavolo due da cento rubli. «Voglio perdere molto con te, pan. Prendi le carte, tieni il banco!» 

 «Chiederemo le carte al locandiere, panie», proferì il pan piccoletto con aria grave e enfatica. «To najlepszy sposób (è il metodo migliore)», assentì pan Vrublevskij. 

 «Dal locandiere? Certo, capisco, prendiamole dal locandiere, avete detto bene, panowie! Carte!», ordinò Mitja al locandiere. Questi portò un pacco di carte ancora sigillato e annunciò a Mitja che le ragazze si stavano preparando, che gli ebrei con i cembali sarebbero arrivati di lì a poco, mentre il carro con le provviste non s'era ancora visto. 


I pan si erano già seduti e avevano dissigillato il mazzo di carte. Sembravano molto più affabili, quasi cordiali. Il pan sul divano si era rimesso a fumare la sua pipa e teneva il banco. Una certa aria di solennità gli era affiorata sul viso. «Ai vostri posti, panowie!», annunciò pan Vrublevskij. «No, non giocherò più», disse Kalganov da parte sua.«Prima ho perso cinquanta rubli». «Il pan è stato nieszczêœliwy, ma il pan può essere ancora szczêœliwy», osservò il pan sul divano dal canto suo. «Quant'è il banco? Sino a che cifra risponde?», domandò Mitja infervorandosi. «Ai vostri ordini, panie, può essere cento, può duecento, quanto volete puntare». «Un milione!», ridacchiò Mitja. 

 «Il pan capitano avrà forse sentito parlare di pan Podvysockij?» «Quale Podvysockij?» «A Varsavia, c'è un banco e chiunque può andare e puntare quello che vuole. Arriva Podvysockij, vede un migliaio di z³oty e punta: banco. L'uomo al banco dice: "Panie Podvysockij, puntate l'oro o sull'honor?" "Sull'honor, panie" risponde Podvysockij. "Così molto meglio, panie." Il banco fa carte, Podvysockij prende mille z³oty. "Aspetta, panie", dice l'uomo al banco, apre il cassetto e dà il milione: "prendi, panie, oto jest twój rachunek (ecco il tuo conto)!" Il banco era di un milione. "Io non lo sapevo", dice Podvysockij. "Panie Podvysockij", dice il banco, "tu hai puntato sull'honor e anche noi paghiamo sull'honor". Podvysockij prese il suo milione. «Non è vero», disse Kalganov. «Panie Kalganov, wszlachetnej kompanij tak mówiæ nie przistoi (in una compagnia di gentiluomini non si parla così)». «Come se un baro polacco darebbe mai un milione!», gridò Mitja, ma si controllò immediatamente. «Scusami, panie, è colpa mia, è di nuovo colpa mia, lo darebbe, lo darebbe un milione, sull'honor, sull'onore polacco! Hai visto che parlo anche in polacco, ah,ah! Ecco, punto dieci rubli, ma sì, sul fante!» 

 «E io un rubletto sulla reginetta, la reginetta di cuori, su una bella panenoèka, hi,hi!», ridacchiò Maksimov, tirando fuori la sua regina e, come a volerla nascondere dalla vista altrui, si sporse direttamente sul tavolo e si fece in fretta e furia il segno della croce sotto il tavolo. Vinse Mitja. Vinse anche il rubletto. «Angolo!», gridò Mitja. «Mentre io punto ancora un rubletto, una puntata singola, una semplice puntatina singola», mormorò beato Maksimov, estasiato per aver vinto il suo rubletto. «Perduto!», gridò Mitja. «Punto sul sette al raddoppio!» Lo vinsero anche sul raddoppio. «Smettetela», disse ad un tratto Kalganov. «Raddoppio, raddoppio!», raddoppiava le puntate Mitja e ogni volta che puntava al raddoppio, perdeva. 

Mentre le puntate da un rublo continuavano a vincere. «Raddoppio!», ruggì Mitja adirato. «Avete perso duecento, panie. Volete puntarne ancora duecento?», si informò il pan sul divano. «Come, ne ho persi già duecento? Allora altri duecento! Tutti e duecento al raddoppio!». 

KALGANOV

E, tirati fuori i soldi dalla tasca, Mitja fece per puntare duecento rubli sulla regina, quando di colpo Kalganov gliela coprì con la mano. «Basta!», gridò con la sua voce squillante. 

 «Ma che fate?», e Mitja lo fissò dritto negli occhi. «Basta, non voglio! Non giocherete più». 

 «E perché?» «Perché sì. Piantatela e venite via, ecco. Non vi farò più giocare!» Mitja lo guardava attonito. «Lascia stare, Mitja, forse ha ragione lui; hai già perso un mucchio di soldi», ribadì Grušen'ka con uno strano tono di voce. Entrambi i pan si erano alzati all'improvviso dai loro posti con un'aria terribilmente offesa. «artujesz (Stai scherzando), panie?», disse il pan piccoletto guardando severamente Kalganov. «Jak sie warzysz to robiæ, panie! (Come osate fare questo!)», ruggì anche pan Vrublevskij rivolto a Kalganov. «Non vi permettete, non vi permettete di urlare!», gridò Grušen'ka. «Ma senti questi tacchini!» 

 Mitja guardava ora l'uno ora l'altro; ma qualcosa nel viso di Grušen'ka lo colpì all'improvviso e in quello stesso istante qualcosa di completamente nuovo gli balenò nella mente - un nuovo strano pensiero! «Pani Agrippina!», fece per esordire il pan piccoletto, tutto rosso dalla rabbia, ma ad un tratto Mitja, avvicinatosi a lui, gli dette un colpetto sulla spalla. «Illustrissimo, potrei dirvi due parole?» 

 «Czego chcesz, panie? (Che vuoi?)» «In quella stanza, in quel pokój, ti dirò due buone paroline, le migliori che ci siano, rimarrai soddisfatto». 

 Il pan piccoletto si meravigliò e guardò timorosamente Mitja. Comunque accondiscese immediatamente, ma a patto che anche pan Vrublevskij andasse con lui. «È la guardia del corpo, vero? E che ci sia anche lui, anche lui mi serve! Anzi, è quasi indispensabile che ci sia!», esclamò Mitja. «Marsc, panowie!»

MITJA SI SBARAZZA DEI POLACCHI

 Egli condusse i pan nella stanza a destra, non in quella grande, dove si stava preparando il coro delle ragazze e si stava imbandendo la tavola, ma in una camera da letto nella quale si trovavano bauli, valigie, e due grossi letti con una montagna di cuscini di indiana su ciascuno di essi. In un angolo c'era anche una candela che ardeva su un tavolino di legno. Il pan e Mitja si sedettero proprio a quel tavolino, uno di fronte all'altro, mentre l'enorme pan Vrublevskij stava di fianco a loro con le mani dietro alla schiena. I pan avevano lo sguardo severo, ma erano palesemente incuriositi. «In che modo posso esservi utile?», balbettò il pan piccoletto. 

 «Ecco in che cosa, non starò qui a parlare molto: eccoti i soldi», e tirò fuori le sue banconote; «se vuoi tremila rubli, prendili e va' dove sai». Il pan lo fissava con aria scrutatrice, con tanto d'occhi, come se volesse penetrare con lo sguardo nel viso di Mitja. «Trzy tysi¹nce, panie?», e scambiò un'occhiata con Vrublevskij. 

 «Trzy, panowie, trzy! Ascolta, panie, vedo che sei un uomo giudizioso. Prendi tremila rubli e vattene al diavolo, e portati pure Vrublevskij, mi senti? Ma subito, in questo stesso istante, e per sempre, capisci, pane, per sempre, ed esci direttamente da quella porta. Che cosa hai di là: il cappotto, la pelliccia? Ti porto tutto io. Facciamo attaccare i cavalli immediatamente e do widzenia panie! Ah, che ne dici?» Mitja aspettava una risposta sicuro di sé. Non aveva il minimo dubbio. Un'espressione estremamente risoluta si leggeva sulla faccia del pan. 

 «E i rubli, panie?» «Per i rubli faremo così: cinquecento rubli adesso per il viaggio e come caparra, e duemilacinquecento domani in città, vi giuro sul mio onore che li avrete, dovessi andarli a prendere sotto terra!», gridò Mitja. I polacchi si scambiarono nuovamente un'occhiata. 

Il viso del piccoletto sembrava cambiare in peggio. «Settecento, settecento, e non cinquecento, adesso, in questo momento, sull'unghia!», aggiunse Mitja che non prevedeva niente di buono. 

«Che hai, pan? Non mi credi? Non vorrai che ti dia tutti e tremila i rubli immediatamente! Se te li do, tu torni da lei domani stesso... E poi adesso, in questo momento, non ho con me l'intera somma, ce l'ho a casa», balbettava Mitja impaurito e perdendo coraggio di parola in parola, «quanto è vero Iddio, ce li ho nascosti...» 


 Per un istante uno straordinario senso di dignità raggiò nel viso del pan piccoletto.

 «E non vuole nient'altro?», domandò ironicamente. «Pfe! A pfe! (Che vergogna!)», e sputò. Sputò anche pan Vrublevskij. 

 «Sputi così, panie», disse Mitja disperato, capendo che ormai tutto era perduto, «perché pensi che potrai spillare di più da Grušen'ka. Siete un bel paio di capponi, ecco che cosa siete!» «Jestem do ¿iwego dotkniêty! (Sono offeso a morte!)». 

Il pan piccoletto era rosso come un gambero e bruscamente, terribilmente indignato, uscì dalla camera con l'intenzione di non sentire più una parola. Lo seguì anche Vrublevskij dondolando, e dietro i due anche Mitja, confuso e sbigottito. Egli temeva la reazione di Grušen'ka, prevedendo che il pan avrebbe immediatamente suscitato un vespaio. E infatti fu così. 

Il pan entrò nella stanza e si parò davanti a Grušen'ka in maniera teatrale. «Pani Agrippina, jestem do ¿iwego dotkniêty!», fece per esclamare, ma all'improvviso 

Grušen'ka sembrò aver perso completamente la pazienza, come se fosse stata punta sul vivo. «In russo, parla in russo, che non ci sia nemmeno una parola di polacco!», gli gridò. 

«Eppure prima parlavi il russo: ché, in cinque anni te ne sei dimenticato?!» Era tutta rossa per la rabbia. «Pani Agrippina...» 

 «Sono Agrafena, sono Grušen'ka, parla in russo altrimenti non voglio ascoltarti!» 

Il pan sbuffò ferito nel suo honor e, pronunciando malamente il russo, disse rapidamente e pomposamente la seguente frase: 

 «Pani Agrafena, sono venuto per dimenticare il passato e perdonarlo, dimenticare che cosa è avvenuto sino ad oggi...» 

 «Come perdonare? Tu sei venuto a perdonare me?», lo interruppe Grušen'ka trasalendo. 

 «Tak jest, pani (proprio così), non sono pusillanime, sono magnanimo. Ma by³em zdziwiony (mi sono meravigliato), quando ho visto i tuoi amanti. Pan Mitja in quella stanza voleva darmi trzy tysi¹ce per farmi andare via. Io gli ho sputato in faccia». 

 «Come? Ti ha offerto dei soldi per me?», gridò istericamente Grušen'ka. «È vero, Mitja? Ma come hai osato? Sono forse in vendita?» 

 «Panie, panie!», sibilò Mitja. «Ella è pura e luminosa e io non sono mai stato il suo amante! È una menzogna...» 

 «Come osi difendere me davanti a lui?», strillò Grušen'ka. «Non sono rimasta pura per virtù e neanche perché avevo paura di Kuz'ma, ma per essere fiera davanti a lui e per avere il diritto di dirgli che è un mascalzone quando l'avessi incontrato. E tu hai davvero rifiutato il denaro?» 

 «Ma lui l'ha accettato, l'ha accettato!», gridò Mitja. «Solo che voleva tremila rubli tutti di colpo, mentre io gli offrivo solamente una caparra di settecento». 

 «Capisco: ha saputo che ho del denaro, ecco perché è venuto a sposarmi!» 

 «Pani Agrippina», si mise a urlare il pan, «io sono un cavaliere, io sono un gentiluomo, e non un lajdak. Sono venuto per prenderti in moglie, ma vedo una pani diversa, non quella di prima, ma upartu i bez wstydu (capricciosa e senza pudore)». 

 «Allora tornatene da dove sei venuto! Ordinerò di cacciarti via immediatamente e ti cacceranno!», gridò Grušen'ka furiosa. 

«Che sciocca, che sciocca sono stata a tormentarmi per cinque anni! E non è stato affatto per lui che mi sono tormentata, ma per il mio rancore! E lui non è affatto quello che pensavo! Era forse così prima? Potrebbe essere il padre di quello che era una volta! Dove l'avrà pescata una parrucca come quella? Quello era un falco e questo un anatroccolo! Quello rideva e mi cantava canzoni... E io, e io che per cinque anni ho pianto tutte le mie lacrime, che maledetta sciocca, vile e svergognata!


BARO

Ella ricadde sulla sua poltrona e si coprì il volto con le mani. 

In quel momento dall'altra stanza, a sinistra, si udì il coro delle ragazze di Mokroe che si era finalmente riunito e stava cantando una vorticosa canzone da ballo. 

 «To jest sodom!», ruggì pan Vrublevskij improvvisamente. «Locandiere, caccia quelle svergognate!» 

 Il locandiere, che stava spiando già da un pezzo, incuriosito, attraverso la porta, sentendo quell'urlo e fiutando che gli ospiti avevano litigato, comparve subito nella stanza. 

 «Tu che urli a fare, vuoi squarciarti la gola?», disse rivolgendosi a Vrublevskij con una scortesia addirittura incomprensibile. 

 «Animale!», sbraitò pan Vrublevskij. 

 «Animale? E tu con quali carte giocavi poco fa? Io te ne ho dato un mazzo e tu le hai nascoste! Hai giocato con carte truccate! Posso mandarti in Siberia per aver giocato con carte truccate, lo sai questo? Perché è come spacciare denaro falso...» 

E, avvicinatosi al divano, egli infilò le dita fra lo schienale e il cuscino del divano e tirò fuori da lì un pacco di carte ancora sigillato. «Ecco il mio mazzo, ancora sigillato!» Lo sollevò e lo mostrò a tutti. «Dal punto in cui mi trovavo ho potuto vedere come ha infilato il mio mazzo nella fessura e l'ha sostituito con il suo, sei un baro e non un pan!» 

 «E io ho visto quel pan che barava due volte!», gridò Kalganov. 

 «Ah, che vergogna, che vergogna!», esclamò Grušen'ka, battendo le mani e arrossendo davvero per la vergogna. «Dio mio, che uomo è diventato, che uomo è diventato!» 

 «Ci avevo pensato anch'io», gridò Mitja. 

Ma non fece in tempo a finire che il pan Vrublevskij, confuso e infuriato, si rivolse a Grušen'ka e le gridò minacciandola con il pugno: 

 «Donna pubblica!» 

Ma non fece in tempo a finire che Mitja si scagliò su di lui, lo strinse con entrambe le braccia e lo sollevò in alto, e in un batter d'occhio lo portò fuori, nella stanza di destra, in quella stessa dove aveva condotto entrambi poco prima. 

 «L'ho poggiato sul pavimento di là!», annunciò tornando immediatamente, trafelato dall'agitazione. «Si contorce, il malandrino! Ma non tornerà, non temete!..»

Egli chiuse un'anta della porta e tenendo l'altra spalancata gridò al pan piccoletto: «Illustrissimo, non vorreste accomodarvi di là anche voi? Przepraszam! (FAVORITE» 

 «Batjuška, Mitrij Fëdoroviè», esclamò Trifon Borisyè, «fatti dare indietro i soldi che hai perso con loro! È come se te li avessero rubati». 

 «Io non voglio indietro i miei cinquanta rubli», dichiarò ad un tratto Kalganov. «E neanche io voglio i miei duecento rubli!», esclamò Mitja. «Non li prenderò per nulla al mondo, che restino a lui a mo' di consolazione». 

 «Bravo, Mitja! Sei in gamba, Mitja!», gridò Grušen'ka e una nota di perfidia incontenibile risuonò nella sua voce. 

Il pan piccoletto, paonazzo dalla rabbia, senza però aver perso un granello della propria aria dignitosa, fece per avviarsi alla porta, ma si fermò e disse all'improvviso, rivolgendosi a Grušen'ka: 

 «Pani, je¿eli chcesz iœæ za mn¹, idŸmy, jeœli nie bywaj zdrówa! (Signora, se volete puoi venire con me, andiamo, altrimenti addio!)» E con aria grave, sbuffando per l'indignazione e la vanagloria, si diresse verso la porta. Era un uomo di polso: aveva una tale opinione di se stesso che, dopo tutto quello che era successo, non perdeva la speranza che la pani l'avrebbe seguito. 

Mitja sbatté la porta dietro di lui. «Chiudete a chiave», disse Kalganov, ma si udì lo scatto della chiave dalla loro parte: si erano chiusi da soli. «Ben fatto!», gridò nuovamente Grušen'ka stizzosa e spietata. «Ben fatto! Così imparano!»