martedì 6 luglio 2021

SECONDA GIORNATA

 LA SECONDA GIORNATA DI ALEKSIEJ





Seconda giornata - 

LUOGHI E TEMPI

Il narratore segue Aleksei nei suoi spostamenti


Mattinata  

“TORTURE” - libro IV


*all’alba al monastero riceve l'ultimo toccante saluto di Zosima morente;

Svegliarono Alëša la mattina presto, prima ancora dell'alba. Lo starec si era destato e si sentiva estremamente debole, anche se aveva voluto passare dal letto alla poltrona. Era pienamente cosciente: il suo viso, sebbene molto affaticato, era luminoso, quasi gioioso, e il suo sguardo allegro, affabile e invitante. «Forse non vivrò fino alla fine di questa giornata che ora incomincia», disse ad Alëša; poi volle confessarsi e prendere la comunione senza indugi.

*all’ora di colazione passa a casa del padre dolorante e di cattivo umore, un presagio che sia anche questo un ultimo saluto

«Va' via anche tu, non c'è niente che tu possa fare qui oggi», tagliò corto bruscamente. Alëša si avvicinò per salutarlo e lo baciò su una spalla. «Perché hai fatto questo?», il vecchio era un po' sorpreso. «Ci vedremo ancora. Oppure pensi che non ci vedremo?» «Nient'affatto, l'ho fatto così, per caso». «E anche io, l'ho detto solo così...», il vecchio lo guardò.

*per strada è investito dalla sassaiola fra scolari e morso al dito da Iliusha,

Aveva appena attraversato la piazza e svoltato nel vicolo che portava in via Michajlovskij, parallela alla Bol'šaja, ma separata da questa da un piccolo canale (la nostra città è interamente intersecata da canali), quando scorse giù, davanti al ponticello, un gruppo di scolaretti

Il ragazzino al di là del canale fu colpito in pieno petto da una pietra; lanciò un urlo, scoppiò a piangere e si mise a correre su per la salita in direzione di via Michajlovskij.

Invece di rispondere, il bambino scoppiò in un pianto dirotto e scappò via da Alëša singhiozzando. Alëša lo seguì con calma in via Michajlovskij e seguì a lungo con lo sguardo il ragazzo che correva lontano, senza rallentare il passo, né girarsi a guardare e, probabilmente, continuando a piangere a squarciagola. 

Ben presto arrivò a casa della signora Chochlakova, una bella costruzione in muratura, a due piani, una delle migliori case della nostra cittadina. Sebbene la signora Chochlakova vivesse per la maggior parte dell'anno in un altro governatorato, dove aveva la sua proprietà terriera, oppure a Mosca, dove possedeva una casa, anche nella nostra cittadina aveva una casa tutta sua che aveva ereditato dai suoi genitori e dai nonni. Anzi, la tenuta che ella possedeva nel nostro distretto era la più grande dei suoi tre possedimenti, e tuttavia la signora, fino ad allora, si era fatta vedere molto di rado nel nostro governatorato. 

*casa Choclakov: pene d’amore, le proprie con Liza e quelle di Ivan e Katia

L'incarico di Katerina Ivanovna lo condusse in via Ozërnaja, e l'abitazione del fratello Dmitrij si trovava lì vicino, proprio in una traversa di via Ozërnaja. Alëša decise di fare un salto da lui, in ogni caso, prima di recarsi dal capitano, sebbene avesse il presentimento che non avrebbe trovato il fratello in casa. Sospettava che quello, con ogni probabilità, si stesse tenendo di proposito alla larga da lui, ma comunque doveva trovarlo ad ogni costo.[---]

Dmitrij non era in casa. I padroni di casa - un vecchio falegname, suo figlio e una vecchietta, sua moglie - lo guardarono persino con sospetto. «Sono tre giorni che non passa la notte in casa, forse è partito», rispose il vecchietto alle insistenti domande di Alëša. Alëša intuì che quello rispondeva secondo le istruzioni ricevute. Alla sua domanda: «Si nasconde per caso da Grušen'ka o ancora da Foma?», (Alëša si lasciò andare di proposito a queste confidenze), tutti e tre i padroni di casa lo guardarono persino con un certo allarme. "Gli vogliono bene e quindi gli reggono il gioco", pensò, "e questo è un bene". Finalmente scovò la casa della borghese Kalmykova in via Ozërnaja, 

*sull'ora del mezzogiorno nell'izba di Sneghirev gli umiliati e offesi

* presso il macigno  la scenata del capitano


Mezzogiorno 

“I PRO E CONTRO” del libro V.


*casa Choclakov: trova Katia prostrata da una crisi isterica; si fidanza con Liza e le da’ il suo primo bacio,

 L'idea era questa: quale stratagemma adottare per acciuffare al più presto il fratello Dmitrij che si stava palesemente tenendo alla larga da lui? Era già tardi: le tre del pomeriggio. Alëša anelava con tutta l'anima a tornare al monastero dal suo "sublime" starec in punto di morte, ma l'esigenza di vedere il fratello Dmitrij prevaleva su tutto: nella mente di Alëša si andava rafforzando, di ora in ora, la convinzione che un'inevitabile spaventosa catastrofe fosse sul punto di compiersi. Quale fosse quella catastrofe e che cosa avrebbe detto al fratello in quel momento, egli forse non era in grado di definirlo. 

Secondo il suo piano avrebbe dovuto prendere il fratello Dmitrij alla sprovvista, nel seguente modo: scavalcare, come il giorno prima, lo steccato, entrare nel giardino e appostarsi in quello stesso chioschetto. "Se non sarà lì", pensava Alëša, "senza dire niente né a Foma, né alle padrone di casa, devo nascondermi e aspettare nel chiosco fino a sera. Se sta facendo la guardia per vedere se arriva Grušen'ka, è molto probabile che passi dal chiosco..." Alëša non si soffermò a lungo sui dettagli del suo piano, ma decise di eseguirlo, anche se questo significava non tornare al monastero per quel giorno... Tutto filò liscio: scavalcò lo steccato, quasi esattamente nello stesso punto del giorno prima, e raggiunse di nascosto il chioschetto. Non voleva che si accorgessero della sua presenza: sia la padrona sia Foma (se questi era in casa in quel momento) avrebbero potuto essere dalla parte del fratello e attenersi alle sue istruzioni, quindi avrebbero potuto impedire ad Alëša di entrare in giardino, oppure avvisare il fratello per tempo che qualcuno lo stava cercando e stava chiedendo di lui. Nel chiosco non c'era anima viva. Alëša si sedette al posto del giorno prima e cominciò ad aspettare. Si guardò intorno e, per qualche ragione, il chiosco gli sembrò ancora più decrepito del giorno prima: questa volta gli sembrò decisamente squallido. Eppure la giornata era limpida come quella di ieri. Sul tavolo verde c'era un'impronta circolare lasciata dal bicchierino di cognac del giorno prima, che doveva aver traboccato. Pensieri vuoti e del tutto fuori luogo gli venivano alla mente, come sempre accade durante le attese noiose. Si domandava, per esempio, perché entrando lì si era seduto esattamente nello stesso posto del giorno prima e non in un altro? Infine divenne triste, molto triste per l'inquietudine dell'ignoto. Ma non era passato un quarto d'ora, quando all'improvviso udì da qualche parte nelle vicinanze un accordo di chitarra

*zona CHIOSCO, fra la casa del padre e la casa di Foma : corre a cercare Dmitri e si imbatte in Smerdiakov che fa la serenata a Marfa.

«Questa è l'unica cosa che posso dirvi», disse Smerdjakov come se ci avesse ripensato meglio. «Io sono qui in veste di amico e vicino, e sarebbe strano se io non venissi. D'altro canto, Ivan Fëdoroviè, per prima cosa, questa mattina all'alba mi ha mandato 

all'appartamento in via Ozërnaja, senza missive, per invitare Dmitrij Fëdoroviè a pranzo nella trattoria qui in città, quella in piazza. 

Io ci sono andato, vossignoria, ma non ho trovato Dmitrij Fëdoroviè in casa sebbene fossero solo le otto. 

"C'era", mi hanno detto, "ma poi è uscito": mi hanno detto proprio così i suoi padroni di casa. Ma avevano un modo strano di parlare, come se si fossero messi d'accordo, signore. 

Forse, in questo momento è a pranzo in quella trattoria con il fratello Ivan Fëdoroviè, dal momento che Ivan Fëdoroviè non è tornato a casa per il pranzo, Fëdor Pavloviè ha pranzato un'ora fa da solo e adesso è andato a fare il suo sonnellino. Ma vi supplico caldamente di non fare parola di me e di quello che vi ho detto, non ditelo a nessuno, signore, giacché quello mi ucciderebbe come niente, signore». 

 «Ivan ha invitato a pranzo Dmitrij oggi?», chiese conferma rapidamente Alëša. «Proprio così, signore». «Alla trattoria "La capitale", quella in piazza?» «Proprio quella, signore».



*trattoria La Capitale pranza con Ivan. IVAN apre al fratello cuore e mente, dibatte dei grandi temi universali cari ai giovani russi, racconta il suo poema inedito (III-IV-V capitolo)



Crepuscolo:

*commiato fra Ivan e Aleksei (fine capitolo V)

Ivan si voltò di scatto e si avviò per la sua strada senza più girarsi. In modo simile il fratello Dmitrij, il giorno prima, si era allontanato da Alëša, anche se le circostanze erano molto diverse. Questa strana osservazione attraversò come un fulmine la mente addolorata di Alëša, addolorata e triste in quel momento. Egli si trattenne per un po' seguendo il fratello con lo sguardo. 

Notò all'improvviso, chissà come, che il fratello Ivan oscillava leggermente nel camminare, e che la spalla destra, guardandola da dietro, sembrava più bassa della sinistra. Non lo aveva mai notato prima. Poi si voltò anche lui, di scatto, e s'avviò quasi di corsa alla volta del monastero. Era quasi buio e avvertiva un senso di paura; una sensazione nuova stava crescendo dentro di lui, una sensazione della quale non riusciva a rendersi pienamente conto. 

S'era alzato il vento, come la sera prima, il vento e i pini secolari stormivano cupamente intorno a lui, quando entrò nel boschetto dell'eremo. Stava quasi correndo. 

"Pater Seraphicus - l'avrà tratta da qualche parte questa definizione - ma da dove?", balenò in mente ad Alëša. "Ivan, povero Ivan, quando ti rivedrò ancora? Ecco l'eremo, o Signore! Sì, sì, è lui, è il Pater Seraphicus, egli mi salverà... da lui e per sempre!"

 In seguito gli capitò parecchie volte nella vita di provare grande stupore ricordando che, dopo aver salutato Ivan, egli aveva completamente dimenticato il fratello Dmitrij, sebbene quella mattina, solo alcune ore prima, si fosse proposto di trovarlo assolutamente e di non andare via fino a quando non lo avesse trovato, anche a costo di non tornare al monastero per quella notte.

*rientro al monastero

Quando Alëša entrò nella cella dello starec, con il cuore gonfio di ansia e dolore, egli rimase incantato dallo stupore: invece del malato in punto di morte, forse anche privo di conoscenza, che temeva di trovare, egli lo vide ad un tratto che se ne stava seduto sulla sua sedia con il viso arzillo e allegro, sebbene sfinito per la debolezza, circondato da ospiti e impegnato con loro in una tranquilla e serena conversazione. Invero, si era alzato dal letto solo un quarto d'ora prima che arrivasse Alësa; gli ospiti si erano raccolti già da prima nella sua cella, ed erano rimasti in attesa che egli si svegliasse, confidando nella ferma dichiarazione di padre Paisij che "il maestro si sarebbe senza dubbio alzato per parlare ancora una volta a coloro che erano vicini al suo cuore, come egli stesso aveva annunciato e promesso quella mattina".

 «Alzati, caro», proseguì lo starec rivolto ad Alëša, «fatti guardare. Sei stato dai tuoi e hai visto tuo fratello? » Ad Alëša sembrò strano che gli avesse chiesto con tanta sicurezza e precisione di uno soltanto dei fratelli, ma di quale stava parlando? Voleva forse dire che, sia ieri sia oggi, lo aveva mandato in città proprio per via di quel fratello? «Ho visto uno dei fratelli», rispose Alëša. «Parlo del maggiore, quello davanti al quale ieri mi sono inchinato fino a terra». «Quello l'ho visto soltanto ieri, oggi non sono riuscito in alcun modo a trovarlo», disse Alëša. «Affrettati a trovarlo, tornaci ancora domani e affrettati, lascia tutto e affrettati. Forse farai ancora in tempo a impedire che accada qualcosa di orribile. Ieri mi sono inchinato davanti alla grande sofferenza che gli riserva il futuro». Poi tacque di colpo e rimase come assorto. Erano parole strane. Padre Iosif, che il giorno prima era stato testimone dell'inchino fino a terra dello starec, scambiò un'occhiata con padre Paisij. Alëša non riuscì a trattenersi. «Padre e maestro», egli gridò in preda a una forte agitazione, «le vostre parole sono troppo oscure... Quale sofferenza gli riserva il futuro?» «Non essere curioso. Mi è sembrato di vedere qualcosa di terribile ieri... come se il suo sguardo di ieri esprimesse tutto il suo destino. Per un momento i suoi occhi hanno avuto un'espressione tale... che, per un attimo, ho provato orrore nel mio cuore per ciò che quell'uomo sta preparando a se stesso. Una volta o due nella vita mi è capitato di vedere una simile espressione... che sembrava raffigurare il destino intero di quegli uomini, e il loro destino, ahimè, si è compiuto. Ti ho mandato da lui, Aleksej, giacché ho pensato che il tuo viso fraterno lo avrebbe aiutato. Ma tutto, tutti i destini nostri dipendono da Dio.

MORTE STAREC


La morte dello starec fu davvero inaspettata. Giacché, sebbene coloro che si erano riuniti intorno a lui quell'ultima sera avessero compreso che la sua morte era vicina, non avrebbero mai immaginato che sarebbe avvenuta così presto; al contrario, i suoi amici, come ho già detto in precedenza, vedendolo così apparentemente allegro e loquace, si erano persino convinti che il suo stato di salute avesse avuto un netto miglioramento, anche se solo provvisorio. Persino cinque minuti prima della sua morte, come riferirono in seguito con stupore, non avrebbero previsto nulla di simile. Egli avvertì all'improvviso un fortissimo dolore al petto, impallidì e serrò forte la mano al cuore. Si alzarono tutti dai loro posti e accorsero verso di lui; anche se soffriva, egli li guardava con il sorriso sulle labbra, scivolando dolcemente dalla sedia e cadendo in ginocchio; poi abbassò il capo sino a terra, allargò le braccia e, come in un'estasi radiosa, baciando la terra e in preghiera (come aveva insegnato lui stesso), rendette serenamente e gioiosamente l'anima a Dio. 

*ritorno di Ivan alla casa del padre

Dal canto suo, Ivan Fëdoroviè, dopo aver salutato Alëša, tornò a casa, a casa di Fëdor Pavloviè. Ma, cosa strana, all'improvviso lo aveva sopraffatto un'insopportabile angoscia che, cosa ancora più notevole, ad ogni passo, man mano che si avvicinava alla casa, cresceva sempre più. Non era l'angoscia in sé ad essere strana, ma era strano che Ivan Fëdoroviè non sapesse in alcun modo definire in che cosa consistesse quell'angoscia. Gli era capitato spesso, anche in passato, di sentirsi angosciato e non c'era da meravigliarsi che l'angoscia lo assalisse proprio alla vigilia del giorno in cui, rotti bruscamente i ponti con tutto ciò che lo aveva attirato lì, si apprestava a dare una netta svolta alla sua vita per imboccare una strada nuova, completamente ignota, ritrovandosi ancora una volta completamente solo, come prima, pieno di speranza pur non sapendo in che cosa sperare, aspettandosi molto, molto dalla vita, ma incapace di definire alcunché sia riguardo alle sue aspettative, sia riguardo alle sue speranze. Eppure, sebbene l'angoscia della novità e dell'ignoto fosse presente nella sua anima, era ben altro a tormentarlo adesso. "E se fosse ripugnanza per la casa paterna?" si domandava. "È probabile che sia così, provo una tale avversione verso quella casa che, sebbene oggi sia l'ultima volta che oltrepasso quella odiosa soglia, tuttavia ne provo ribrezzo..." Ma no, non era nemmeno quello. Era forse l'addio con Alëša e la conversazione avuta con lui? "Per tanti anni ho taciuto con il mondo intero e non mi sono mai degnato di dire una parola e adesso, così di punto in bianco, ti vado a snocciolare quel po' po' di tiritera." E difatti poteva ben trattarsi di stizza giovanile, originata da inesperienza giovanile e giovanile amor proprio, la stizza di non essere riuscito ad esprimersi adeguatamente, e per di più con una persona come Alëša, sulla quale il suo cuore indubbiamente contava molto. Certo, si trattava anche di questo, della sua stizza cioè, ma ancora una volta non era esattamente quello. "Questa angoscia mi dà la nausea, ma non sono in grado di definire quello che voglio. Meglio non pensarci..." Ivan Fëdoroviè provò a "non pensare", ma fu inutile. Ciò che lo infastidiva, che lo irritava di quella angoscia era il fatto che essa avesse un certo aspetto casuale, decisamente esteriore; questo lo sentiva. C'era lì impalato, spuntava da qualche parte un essere o un oggetto, come quando ti spunta qualcosa davanti agli occhi, ma non te ne accorgi per un pezzo, preso come sei da qualche faccenda o da un'animata conversazione, e intanto provi irritazione, quasi tormento, fino a quando non capisci finalmente di che si tratta e rimuovi l'oggetto fuori posto, spesso si tratta di oggetti molto insignificanti e stupidi: un fazzoletto caduto sul pavimento o un libro non rimesso nello scaffale e così via. Finalmente Ivan Fëdoroviè, ormai di umore nero e irritabile, giunse alla casa paterna e all'improvviso, a una quindicina di passi circa dalla porticina, gettando un'occhiata al portone, comprese di colpo che cosa lo tormentava e lo inquietava in quel modo. Sulla panchina accanto al portone se ne stava piazzato a prendere l'aria fresca della sera il lacchè Smerdjakov, e Ivan Fëdoroviè, sin dal primo sguardo, capì che il lacchè Smerdjakov se ne stava piazzato anche nella sua anima, era quell'uomo che la sua anima non riusciva a tollerare.

*dialogo di Ivan con Smerdiakov

Con un senso di avversione e irritazione, egli cercò di passare oltre, in silenzio, e senza guardare Smerdjakov, ma questi si alzò dalla panchina e bastò quel gesto perché Ivan Fëdoroviè intuisse di colpo che l'altro gli voleva parlare di qualcosa di importante. Ivan Fëdoroviè lo guardò e si fermò e il fatto di essersi fermato invece di passare oltre, come aveva deciso un istante prima, lo irritò a tal punto da farlo fremere. 

Guardava con rabbia e repulsione la fisionomia estenuata, da evirato, di Smerdjakov con i riccetti delle tempie all'insù e il ciuffetto ben lisciato. L'occhio sinistro leggermente socchiuso ammiccava e rideva come per dire: "Dove credi di andare? Non vorrai passare così; non vedi che noi due, persone intelligenti, dobbiamo fare un certo discorsetto?" 

Ivan Fëdoroviè sussultò: "Togliti di mezzo, carogna, non ho niente a che spartire con te, imbecille!", erano queste le parole che aveva sulla punta della lingua e invece, con sua somma meraviglia, gli sfuggì di bocca tutt'altro: «Mio padre dorme ancora o si è svegliato?», domandò con una voce calma e pacata che neanche lui si aspettava e poi, di punto in bianco, sempre inaspettatamente, si sedette sulla panchina

*Ivan trascorre una notte insonne

Era già molto tardi, ma Ivan Fëdoroviè non stava dormendo, pensava. Andò a letto molto tardi quella notte, verso le due. Ma noi non tenteremo di riferire l'intero corso dei suoi pensieri, non è questo il momento di penetrare nella sua anima: verrà il turno anche per essa. E anche se tentassimo di riferire qualcosa, sarebbe molto complicato farlo, perché non si trattava di pensieri, ma di qualcosa di molto confuso e, soprattutto, troppo agitato. Si rendeva conto da solo di aver perso il controllo. Lo tormentavano desideri strani, quasi sconcertanti, per esempio: dopo la mezzanotte fu assalito da un desiderio insistente e insopprimibile di scendere, aprire la porta, andare nella dipendenza e picchiare Smerdjakov, ma se gli avessero chiesto i motivi, egli decisamente non ne avrebbe saputo citare nemmeno uno con esattezza, tranne forse che quel lacchè gli era venuto in odio come il peggiore oltraggiatore che si potesse trovare al mondo. D'altro canto, quella notte fu assalito più di una volta da una soggezione inesplicabile e umiliante che gli procurava addirittura - egli se ne rendeva conto - l'esaurimento delle energie fisiche. La testa gli doleva e gli girava. Un sentimento di odio gli attanagliava l'anima come se fosse sul punto di vendicarsi di qualcuno. Odiava persino Alëša ricordando la conversazione avuta con lui, a momenti odiava se stesso. A Katerina Ivanovna non ci pensò nemmeno, e questo lo meravigliò molto in seguito, soprattutto perché ricordava perfettamente che quando si era vantato così smaccatamente, soltanto la mattina prima in presenza di Katerina Ivanovna, dicendo che l'indomani sarebbe partito per Mosca, dentro di sé si sussurrava: "Che assurdità! Non partirai, il distacco non ti sarà facile come ti vai vantando". Tornando con la mente a quella notte, in seguito, Ivan ricordava con particolare repulsione i momenti in cui si alzava bruscamente dal divano e furtivamente, con una strana paura addosso, come se fosse spiato, apriva la porta, usciva per le scale e si metteva in ascolto per sentire Fëdor Pavloviè che si agitava e camminava al piano di sotto, rimaneva ad ascoltare per un pezzo, anche cinque minuti buoni, con una strana curiosità, con il fiato sospeso e con il cuore in tumulto, ma il motivo per cui stava facendo tutto ciò, il motivo per cui stava in ascolto, ovviamente lo ignorava anche lui. Per tutta la vita definì quel "gesto" "infame" e dentro di sé, nel profondo della sua anima egli la considerò sempre l'azione più vile della sua vita. In quel momento non provava alcun odio per Fëdor Pavloviè in sé, sentiva soltanto, e chissà per quale ragione, un'invincibile curiosità: cercava di immaginare come stesse camminando al piano di sotto, che cosa stesse facendo nella sua stanza in quel momento, si domandava come stesse sbirciando attraverso le finestre scure e si fermasse al centro della stanza e aspettasse, aspettasse per sentire se bussava qualcuno. Ivan Fëdoroviè uscì apposta un paio di volte sulla scala. Quando, finalmente, tutto si acquietò e Fëdor Pavloviè si fu coricato, intorno alle due di notte, si coricò pure Ivan Fëdoroviè con il vivo desiderio di addormentarsi immediatamente, tanto si sentiva sfinito. E fu così: si addormentò di sasso e non fece sogni

LA SECONDA GIORNATA DI DMITRI

IL MATTINO RACCONTATO DA SMERDIAKOV

«Questa è l'unica cosa che posso dirvi», disse Smerdjakov come se ci avesse ripensato meglio. «Io sono qui in veste di amico e vicino, e sarebbe strano se io non venissi. D'altro canto, Ivan Fëdoroviè, per prima cosa, questa mattina all'alba mi ha mandato 

all'appartamento in via Ozërnaja, senza missive, per invitare Dmitrij Fëdoroviè a pranzo nella trattoria qui in città, quella in piazza. 

Io ci sono andato, vossignoria, ma non ho trovato Dmitrij Fëdoroviè in casa sebbene fossero solo le otto. 

"C'era", mi hanno detto, "ma poi è uscito": mi hanno detto proprio così i suoi padroni di casa. Ma avevano un modo strano di parlare, come se si fossero messi d'accordo, signore. 

Forse, in questo momento è a pranzo in quella trattoria con il fratello Ivan Fëdoroviè, dal momento che Ivan Fëdoroviè non è tornato a casa per il pranzo, Fëdor Pavloviè ha pranzato un'ora fa da solo e adesso è andato a fare il suo sonnellino. Ma vi supplico caldamente di non fare parola di me e di quello che vi ho detto, non ditelo a nessuno, signore, giacché quello mi ucciderebbe come niente, signore». 

 «Ivan ha invitato a pranzo Dmitrij oggi?», chiese conferma rapidamente Alëša. «Proprio così, signore». «Alla trattoria "La capitale", quella in piazza?» «Proprio quella, signore».


In quegli ultimi due giorni aveva vissuto in una tale inimmaginabile condizione di spirito che avrebbe potuto facilmente ammalarsi di febbre cerebrale, come ebbe a dire egli stesso in seguito. Alëša non era stato capace di scovarlo la mattina precedente, mentre il fratello Ivan non era riuscito a combinare l'incontro con lui al ristorante.

 I padroni dell'appartamento in cui viveva avevano nascosto le sue tracce, secondo le disposizioni da lui ricevute. Quanto a lui, aveva trascorso quegli ultimi due giorni correndo letteralmente da una parte all'altra, "in lotta con il proprio destino nel tentativo di salvare se stesso", come ebbe egli stesso a esprimersi in seguito; aveva persino fatto un salto di qualche ora fuori città per affari urgenti, per quanto fosse terribile per lui perdere di vista Grušen'ka anche per un solo minuto. T

Egli decise di recarsi, su due piedi, dal mercante Samsonov, il protettore di Grušen'ka e di proporgli un "piano" grazie al quale avrebbe ottenuto da lui, in un sol colpo, l'intera somma necessaria;


Ma se volete, qui c'è una persona alla quale potreste rivolgervi...» «Dio mio, e chi è?... Voi mi resuscitate, Kuz'ma Kuz'miè», balbettò Mitja. 

 «Non è di qui, ma in questo momento si trova da queste parti. È di origine contadina e commercia in legna, si chiama Ljagavyj di soprannome. 

È in trattative da un anno intero con Fëdor Pavloviè per quel vostro boschetto a Èermašnja, si dice che non si mettano d'accordo sul prezzo, forse l'avrete sentito. 

Adesso è ritornato e sta presso il curato di Il'inskoe, a una dozzina di verste dalla stazione di Volov'ja, cioè nel villaggio di Il'inskoe. 

Ha scritto anche a me a proposito dello stesso affare per chiedermi consiglio in merito al boschetto. Fëdor Pavloviè stesso ha intenzione di andarci a parlare. Quindi, se voi anticipaste Fëdor Pavloviè e proponeste a Ljagavyj quello che avete proposto a me, forse sarebbe possibile...» 

 «Idea geniale!», lo interruppe entusiasta Mitja. « È l'uomo che fa per me, andrò dritto da lui! È in trattative, gli chiederanno una cifra alta, e invece avrà in mano il documento che gli intesterà la proprietà stessa, ah, ah, ah!», e Mitja scoppiò a ridere della sua secca risatina legnosa, del tutto inattesa, tanto che Samsonov stesso sussultò con il capo. 

 «Come posso ringraziarvi, Kuz'ma Kuz'miè?», gridò Mitja con calore. «Ma vi pare, signore», rispose Samsonov abbassando il capo. «Ma voi non sapete, voi mi avete salvato. Oh, è stato un presentimento a portarmi sino a voi... E così, adesso andrò da quel pope!» 

RUBLI RACIMOLATI PER IL VIAGGIO

E così bisognava "galoppare di gran carriera", ma non aveva neanche una copeca per i cavalli; cioè, aveva solo venti copeche, era tutto quello che gli rimaneva dopo tanti anni di prosperità! 

Ma a casa aveva un vecchio orologio d'argento che aveva smesso di funzionare da un pezzo. 

Lo afferrò e lo portò da un orologiaio ebreo, che si era piazzato con la sua bancarella nella piazza del mercato. Quello gli diede sei rubli. «Non mi aspettavo tanto!», gridò Mitja in visibilio (si trovava ancora in quello stato di visibilio), prese i suoi sei rubli e corse a casa. A casa rimpinguò la somma, prendendo in prestito tre rubli dai padroni di casa, che glieli dettero con piacere, nonostante fossero gli ultimi soldi a loro disposizione, tanto era il bene che gli volevano. Mitja, nello stato di eccitazione in cui si trovava, rivelò loro, lì per lì, che si stava decidendo il suo destino, e raccontò, con una fretta precipitosa, s'intende, quasi tutto il suo "piano" come lo aveva appena esposto a Samsonov, poi riferì anche la decisione di Samsonov e le proprie speranze per il futuro, e così via. 

Anche in precedenza i padroni di casa erano stati messi a parte di molti suoi segreti, e per questo non lo consideravano affatto un signore superbo, ma uno di loro. Racimolati in questo modo nove rubli, Mitja mandò a prendere i cavalli di posta che lo avrebbero condotto sino alla stazione di Volov'ja. 

E fu così che venne ricordato e segnalato il fatto che "alla vigilia di un certo evento, a mezzogiorno, Mitja non aveva nemmeno una copeca tanto che per procurarsi del denaro, aveva venduto l'orologio e preso tre rubli in prestito dai padroni di casa, e tutto questo in presenza di testimoni". Sto sottolineando questo fatto in anticipo, il motivo sarà chiaro in seguito. 

 Mentre si recava a gran galoppo alla stazione di Volov'ja, sebbene fosse raggiante per il felice presentimento che finalmente avrebbe concluso e dipanato "tutte quelle faccende", nondimeno tremava dalla paura: che cosa avrebbe combinato Grušen'ka in sua assenza? 

In primo luogo, egli perse molto tempo dopo aver imboccato la strada vicinale dalla stazione di Volov'ja. Quella strada risultò lunga non dodici, ma diciotto verste. 

In secondo luogo, non trovò il curato di Il'inskoe in casa, giacché questi si trovava in un villaggio vicino. Partì per quel villaggio con gli stessi cavalli esausti e, mentre lo cercava, si fece quasi notte. 

Il curato, un ometto dall'aspetto timido e cortese, gli spiegò subito che quel Ljagavyj, sebbene si fosse davvero fermato da lui inizialmente, in quel momento si trovava a Suchoj Posëlok, dove avrebbe pernottato nell'izba del guardaboschi, dal momento che anche lì commerciava in legna. 

Alle pressanti richieste di Mitja di accompagnarlo immediatamente da Ljagavyj - "in questo modo l'avrebbe salvato" - il curato, dopo i tentennamenti iniziali, alla fine accettò di condurlo a Suchoj Posëlok, evidentemente incuriosito; ma sfortunatamente consigliò che si andasse a piedi, dal momento che si trattava di una versta "o poco più". Mitja, naturalmente, fu d'accordo e si avviò con il suo lungo passo, tanto che il povero curato fu quasi costretto a corrergli dietro. Era un uomo non ancora vecchio e molto prudente. 

Anche con lui Mitja si mise a parlare dei suoi progetti, con ardore, chiedendogli nervosamente consigli riguardo a Ljagavyj; parlò per tutto il tragitto. 

Il curato ascoltava con attenzione, ma dette ben pochi consigli. Alle domande di Mitja rispondeva evasivamente: «Non so, oh, non so, come faccio a saperlo?», e così via. Quando Mitja si mise a parlare dei propri contrasti con il padre riguardo all'eredità, allora il curato si spaventò persino, dal momento che con Fëdor Pavloviè egli si trovava in un rapporto quasi di dipendenza. 

Poi si informò sulla ragione per la quale egli chiamasse Ljagavyj quel contadino commerciante che in realtà si chiamava Gorstkin e fu costretto a spiegare a Mitja che Ljagavyj era e non era il vero nome di quell'uomo, nessuno lo chiamava mai così perché si sarebbe seriamente offeso e quindi doveva assolutamente chiamarlo Gorstkin, altrimenti non avrebbe combinato un bel nulla con lui; quello non gli avrebbe nemmeno dato retta, concluse il curato. 


 Egli procedeva a passo sostenuto e soltanto quando arrivò a Suchoj Posëlok, si rese conto che avevano camminato non per una versta e nemmeno per una versta e mezza, ma per ben tre verste, a occhio e croce, e questo lo irritò, ma mantenne il controllo. Entrarono nell'izba. Il guardaboschi, un conoscente del curato, viveva in una metà dell'izba mentre nell'altra metà, quella migliore, dall'altra parte dell'andito, alloggiava Gorstkin.

Il guardaboschi tornò nella sua parte di izba, grattandosi e senza dire una parola, mentre Mitja si sedette sulla panca per cogliere "il momento buono", come aveva detto lui stesso. Una profonda angoscia avvolse, come una densa nebbia, la sua anima. Una profonda, terribile angoscia! Egli stava seduto a pensare, ma non riusciva a venire a capo di nulla. La candela ardeva, un grillo si mise a frinire, la stanza surriscaldata stava diventando insopportabilmente soffocante.