domenica 31 ottobre 2021

ATTO FINALE

 ULLTIMO DISCORSO DI MITJA



A quel punto fu concessa la parola all'imputato stesso. Mitja si alzò, ma disse molto poco. Egli era sfinito, fisicamente e spiritualmente. L'aria energica e indipendente che aveva avuto quella mattina, entrando in aula, era quasi svanita del tutto. Sembrava che quel giorno avesse vissuto un'esperienza che gli aveva insegnato e rivelato qualcosa di molto importante che prima non conosceva. La voce si era indebolita, non gridava più come prima. Nella sua voce risuonava una nota nuova, rassegnata, di sconfitta e sottomissione. «Che cosa mi resta da dire, signori della giuria? È arrivata per me l'ora del giudizio, e sento la mano di Dio su di me! È arrivata la fine di un uomo dissoluto! Ma vi parlo come se mi confessassi a Dio: "Del sangue di mio padre, no, non sono colpevole". Lo ripeto per l'ultima volta: non sono stato io a ucciderlo! Sono stato un uomo dissoluto, ma ho amato il bene. In ogni istante della mia vita ho cercato di correggermi, ma ho vissuto al pari di una belva selvaggia. Ringrazio il procuratore, ha detto molte cose sul mio conto che io ignoravo, ma non è vero che ho ucciso mio padre, qui si è sbagliato! Ringrazio anche il mio difensore, ho pianto mentre l'ascoltavo, ma non è vero che ho ucciso mio padre, e non doveva nemmeno avanzare questa ipotesi. Quanto ai dottori, non credete loro, sono perfettamente in me, è solo che la mia anima è in pena. Se mi risparmierete, se mi lascerete andare, pregherò per voi. Sarò un uomo migliore, vi do la mia parola, Dio mi è testimone. Se mi condannerete, sarò io stesso a fracassare la mia spada sopra il mio capo e a baciarne i pezzi. Ma risparmiatemi, non privatemi del mio Dio, io mi conosco: mormorerei contro di lui. La mia anima è in pena, signori... risparmiatemi!» Per poco non cadde al suo posto, la voce gli si era rotta in gola, pronunciò a malapena l'ultima frase.


LA SENTENZA


 Ma squillò il campanello. I giurati avevano deliberato in un'ora esatta, non un minuto di più, né uno di meno. Un profondo silenzio regnò in aula non appena il pubblico fu di nuovo seduto. Ricordo il momento in cui i giurati entrarono in aula. Finalmente! Non starò a ripetere le domande nell'ordine, tanto più che me ne sono dimenticato. Ricordo soltanto la risposta alla prima e principale domanda del presidente: "Ha l'imputato commesso il delitto a scopo di rapina e con premeditazione?" (Non ricordo le parole esatte.) Seguì il silenzio assoluto. Il portavoce della giuria, l'impiegato più giovane, pronunciò con voce alta e chiara, in mezzo al silenzio di tomba dell'aula: «Sì, è colpevole!»

mercoledì 27 ottobre 2021

VII • Ippolit Kirilloviè Una panoramica storica

VII • Ippolit Kirilloviè: Una panoramica storica 




 «La perizia medica ha tentato di dimostrarci che l'imputato è fuori di sé ed è un maniaco. 

Io affermo che egli è perfettamente in sé, ma che è proprio questo il peggio: se non fosse in sé, probabilmente si sarebbe dimostrato molto più accorto. Quanto al fatto che sia un maniaco, potrei essere anche d'accordo, ma solo su un punto, esattamente il punto che ha messo in luce la perizia, e cioè l'idea che l'imputato si era fatto di quei tremila rubli: che suo padre glieli dovesse risarcire. 

Tuttavia, forse, si potrebbe trovare un punto di vista incomparabilmente più semplice della tendenza alla follia per spiegare la costante frenesia dell'imputato riguardo a quel denaro. Per quanto mi concerne, concordo perfettamente con l'opinione del giovane medico, il quale è convinto che l'imputato si trovasse, e si trovi tuttora, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, ma fosse soltanto irascibile ed esasperato. E questo è il punto: l'oggetto del costante e frenetico furore dell'imputato non era il denaro in se stesso: c'era una ragione speciale che suscitava la sua ira. La ragione era la seguente: la gelosia!» 

UNA FATALE PASSIONE

 A questo punto Ippolit Kirilloviè si prolungò diffusamente nel dipingere il quadro della fatale passione dell'imputato per Grušen'ka. Prese le mosse dal momento in cui l'imputato si recò da una certa "giovane persona" per "picchiarla" - stava usando le stesse parole dell'imputato, spiegò Ippolit Kirilloviè - ma invece di picchiarla, egli rimase prostrato ai suoi piedi. 


Così aveva avuto inizio l'amore. In quello stesso torno di tempo, anche il vecchio, il padre dell'imputato, mette gli occhi su quella stessa persona - coincidenza stupefacente e fatale, giacché entrambi i loro cuori si infiammarono di colpo, all'unisono, sebbene sia l'uno sia l'altro avessero già incontrato in precedenza quella persona - ed entrambi si infiammarono della passione più sfrenata e karamazoviana. 

GRUSHENKA

Qui noi abbiamo una sua stessa ammissione: "Io mi sono presa gioco sia dell'uno sia dell'altro". Sì, le era venuta voglia di prendersi gioco dell'uno e dell'altro, sulle prime non ne aveva avuta, ma poi le era venuta improvvisamente in mente quell'idea e li aveva conquistati tutti e due in un colpo solo. Il vecchio, che idolatrava il denaro, aveva messo immediatamente da parte tremila rubli come ricompensa di una sola visita da parte di lei, ma subito dopo si era ridotto in uno stato tale che sarebbe stato felice di mettere il proprio patrimonio e il proprio nome ai suoi piedi, se solo lei avesse acconsentito a diventare sua legittima consorte. Su questo abbiamo prove inconfutabili. Quanto all'imputato, la sua tragedia è evidente, essa è davanti a voi. Ma questo era lo "spasso" della giovane persona. 

All'infelice giovanotto la seduttrice non concedeva la minima speranza, poiché la speranza, la vera speranza gli fu concessa soltanto all'ultimo momento, quando egli, in ginocchio dinanzi alla sua tormentatrice, tendeva verso di lei le mani già macchiate del sangue di colui che era stato suo padre e rivale: si trovava per l'appunto in quella posizione quando venne arrestato. "Fatemi deportare insieme a lui, sono stata io a condurlo a questo, sono io colpevole più di tutti!", esclamava la donna, sinceramente pentita, al momento dell'arresto. 

TESTIMONIANZA DI RAKITIN SU GRUSHENKA

Un giovanotto di talento, che si è assunto il compito di descrivere il processo in corso - quello stesso signor Rakitin che abbiamo già menzionato - ha definito con poche frasi acute il carattere di questa eroina: 

"Una prematura delusione, un precoce inganno e la caduta, il tradimento del seduttore-fidanzato che l'abbandonò, poi la miseria, la maledizione della rispettabile famiglia e, infine, la protezione di un ricco vecchio che, infatti, ora ella stessa considera il suo benefattore. Nel suo giovane cuore, forse, si racchiudevano molte cose buone, ma esso era stato troppo precocemente inasprito dal rancore. Crebbe con un carattere calcolatore, avido di accumulare denaro. Crebbe sarcastica e piena di rancore contro la società". 

 Dopo questo abbozzo di carattere si può comprendere che ella si fosse presa gioco dell'uno e dell'altro unicamente per proprio diletto, per un maligno diletto. Ed ecco che dopo un mese di amore senza speranze e di degradazione morale, durante il quale egli aveva tradito la fidanzata, si era appropriato di denaro altrui affidato al suo onore, l'imputato era stato condotto all'esasperazione, quasi alla pazzia per gli incessanti tormenti della gelosia e verso chi, poi? Verso suo padre! E il peggio era che lo scervellato vecchio allettava e irretiva l'oggetto della sua passione con quegli stessi tremila rubli che suo figlio considerava di sua proprietà, l'eredità della madre sulla quale il vecchio lo stava truffando. Sì, sono d'accordo, era troppo da sopportare! A questo punto poteva insorgere persino una mania. Non era il denaro in sé, ma il fatto che quel denaro fosse usato per distruggere la sua felicità e con un cinismo così rivoltante!» 

IL PARRICIDIO

 Poi il procuratore passò a descrivere come fosse nato gradualmente nell'imputato il pensiero del parricidio e lo esaminò sulla base dei fatti. 

 «Sulle prime, andiamo sbraitando di trattoria in trattoria - sbraitiamo per un mese intero. Oh, ci piace stare in mezzo alla gente e spifferare immediatamente a tutti ogni cosa, persino le nostre idee più infernali e pericolose, amiamo condividere con la gente ogni pensiero ed esigiamo lì per lì, per chissà quale ragione, la loro immediata e totale simpatia, vorremmo che prendessero a cuore i nostri problemi e le nostre preoccupazioni, che parteggiassero per noi e non si opponessero a noi in nulla. Altrimenti ci infuriamo e mettiamo a soqquadro tutto il locale». 

(A questo punto seguì l'aneddoto sul capitano Snegirëv). 

«Coloro che videro e sentirono l'imputato durante quel mese ebbero la sensazione, infine, che potesse trattarsi di qualcosa di più che strepiti e minacce contro il padre, e che, con una tale frenesia, egli potesse tradurre in atto quelle minacce». 

(A questo punto il procuratore descrisse la riunione di famiglia nel monastero, le conversazioni con Alëša e la ignominiosa scena di violenza in casa del padre, quando l'imputato aveva fatto irruzione da lui dopo pranzo.) 

«Non posso asserire con certezza», proseguiva Ippolit Kirilloviè, «che prima di questa scena l'imputato avesse deciso premeditatamente e intenzionalmente di farla finita con il padre uccidendolo. Nondimeno questa idea gli si era affacciata più volte ed egli l'aveva presa in considerazione; a questo proposito abbiamo fatti comprovati, testimoni e la sua personale ammissione. Devo riconoscere, signori giurati», aggiunse Ippolit Kirilloviè, «che fino a oggi sono stato incerto se attribuire o meno all'imputato la piena e consapevole premeditazione del crimine di cui deve rispondere. Ero fermamente convinto che la sua anima, più di una volta, si fosse soffermata a immaginare il momento fatale, ma pensavo che lo avesse solo immaginato, solo contemplato come possibilità, senza aver definito il termine dell'esecuzione né le circostanze. Ma sono stato titubante soltanto fino ad oggi, fino a quando non ho visto quel fatale documento che ha presentato oggi alla corte la signorina Verchovceva. Voi stessi, signori, l'avete sentita esclamare: 

LA LETTERA

"Questo è un piano, un progetto omicida!": ecco come ella definiva quella disgraziata lettera da "ubriaco" del disgraziato imputato. E, infatti, alla luce di quella lettera, l'intera faccenda dell'omicidio assume l'aspetto di un piano, di una premeditazione. La lettera venne scritta due giorni prima dell'omicidio, e in questo modo adesso sappiamo di sicuro che, due giorni prima dell'esecuzione del suo terribile proposito, l'imputato aveva dichiarato, sotto giuramento, che se non avesse trovato i soldi entro il giorno successivo, avrebbe ucciso suo padre, allo scopo di prendergli il denaro da sotto il cuscino, denaro che si trovava "in un plico con un nastrino rosa, purché fosse partito Ivan". Capite? "Purché fosse partito Ivan": dunque era stato tutto premeditato, le varie circostanze erano state ponderate. E che cosa accadde? Più tardi tutto avvenne esattamente come aveva scritto! La premeditazione e la riflessione sono fuor di dubbio, l'omicidio doveva essere perpetrato a scopo di rapina, questo era stato dichiarato in anticipo, era stato scritto e sottoscritto. L'imputato non rinnega la propria firma. Mi si potrà obiettare che l'imputato era ubriaco quando ha scritto quella lettera. Ma questo non diminuisce il valore della lettera: da ubriaco ha scritto quello che da sobrio aveva pensato. Se non l'avesse pensato da sobrio, non l'avrebbe neanche scritto da ubriaco. Mi potranno chiedere: allora perché si è messo a strombazzare ai quattro venti le sue intenzioni in giro per le trattorie? Chi si prepara a un tale misfatto intenzionalmente, tace e se lo tiene per sé. È vero, ma quando strombazzava ai quattro venti, egli non aveva ancora premeditato nulla né formulato piani: in lui c'era soltanto il desiderio e stava maturando l'impulso. In seguito ne parlò molto meno. La sera in cui scrisse quella lettera, contrariamente al solito, egli era molto taciturno, non giocò a biliardo, se ne stette seduto da una parte, non parlava con nessuno, cacciò solo via dal suo posto un commesso di bottega, uno di qui, ma lo fece quasi inconsciamente, per una sorta di abitudine alle risse, delle quali, quando entrava in una trattoria, non riusciva a fare a meno. Vero è che dopo aver preso la decisione fatale, l'imputato dovette avvertire una certa apprensione per aver fatto in passato troppo clamore in città, perché questo avrebbe potuto portarlo ad essere indiziato e incolpato quando poi avrebbe eseguito il suo piano. Ma che fare, le parole erano state pronunciate ormai, non si potevano rimangiare, ma la fortuna che lo aveva accompagnato fino a quel momento poteva accompagnarlo anche in futuro. Facevamo affidamento sulla nostra buona stella, signori! 

TENTATIVI DI PROCURARSI IL DENARO

Comunque devo ammettere che egli fece molto per evitare quel passo fatale, ce la mise tutta per evitare il sanguinoso epilogo. "Domani tremila rubli chiederò a tutti", egli scrive con il suo particolare linguaggio, "e se quelli non me li daranno, allora del sangue sarà versato". Ancora una volta, egli aveva scritto in stato di ubriachezza e ancora una volta aveva poi eseguito per filo e per segno quello che aveva scritto!» 

 A questo punto Ippolit Kirilloviè passò alla descrizione di tutti i tentativi di Mitja di procurarsi il denaro al fine di evitare il delitto. 

Egli descrisse la sua visita a Samsonov, il viaggio per trovare Ljagavyj, il tutto comprovato da documenti. «Vessato, deriso, affamato, dopo aver venduto l'orologio per fare quel viaggio (pur avendo indosso millecinquecento rubli - una storia davvero incredibile!), tormentato dalla gelosia per aver abbandonato in città il bene amato, con il sospetto che ella in sua assenza corresse da Fëdor Pavloviè, egli fa ritorno finalmente in città. Dio sia ringraziato! Ella non si trova da Fëdor Pavloviè. Egli stesso l'accompagna dal protettore di lei, da Samsonov. (Strano, ma di Samsonov non siamo gelosi e questo è un tratto psicologico molto particolare in questo caso!) Poi corre al suo posto di guardia "sul retro" e là, là apprende che Smerdjakov è vittima di un attacco di epilessia, che l'altro servo è malato, che dunque la via è libera, e poi i "segnali" sono in mano sua, che tentazione! Ciò nonostante, egli ancora oppone una certa resistenza; si reca da una persona, che risiede temporaneamente qui in città e che gode della massima stima di noi tutti, la signora Chochlakova. 

La signora, che da tempo seguiva con simpatia il destino di lui, gli dà il più assennato dei consigli: abbandonare quella vita dissipata, quell'amore indecente, quel bighellonare per le trattorie, quello sterile spreco delle sue giovani energie, per recarsi in Siberia alle miniere d'oro: "Quello vi darà modo di sfogare le vostre turbolenti energie, il vostro carattere romantico, avido di avventure"». 

Dopo aver descritto l'epilogo della conversazione con la Chochlakova e poi il momento in cui l'imputato aveva appreso, all'improvviso, la notizia che Grušen'ka non era per niente stata da Samsonov e la subitanea frenesia di quell'infelice uomo, consumato dalla gelosia e dall'esaurimento nervoso, al pensiero che quella lo avesse ingannato e in quel momento si trovasse da lui, da Fëdor Pavloviè, Ippolit Kirilloviè concluse, puntando l'attenzione sull'influenza fatale del caso: «Se la serva avesse fatto in tempo a dire che la sua innamorata si trovava a Mokroe con il suo amore "di prima", quello "indiscutibile", non sarebbe accaduto nulla. Ma quella perse la testa per il terrore, iniziò a giurare e spergiurare, e se quello non l'ammazzò lì su due piedi, fu solo perché aveva fretta di correre dall'amante traditrice. 

IL PESTELLO

Ma notate questo particolare: sebbene fosse fuori di sé, egli tuttavia prese con sé il pestello di ottone. Perché proprio il pestello e non un'altra arma? Be', considerato che da un mese intero egli stava contemplando quel quadro e si stava preparando ad esso, qualunque cosa, che avesse le sembianze di un'arma, gli fosse capitata sotto mano, egli l'avrebbe presa appunto come arma. Egli aveva avuto agio per un mese intero di valutare che qualunque oggetto di quel genere avrebbe potuto servirgli da arma. Ecco perché egli riconobbe, all'istante e senza esitazioni, in quel pestello l'arma che faceva per lui! E quindi fu tutt'altro che inconsapevole, tutt'altro che involontario il suo gesto di afferrare quel fatale pestello. 

Eccolo più tardi nel giardino della casa paterna: via libera, nessun testimone, notte fonda, tenebre e gelosia. Il sospetto che ella sia lì con lui, con il suo rivale, fra le sue braccia e possa ridere di lui in quel momento, gli toglie il respiro. E non soltanto il sospetto, non si tratta più di sospetti, l'inganno è palese, manifesto: ella è lì, ecco: in quella stanza dalla quale proviene la luce, è lì, in camera di lui, dietro il paravento. A questo punto vorrebbero farci credere che il disgraziato si sia avvicinato quatto quatto alla finestra, abbia rispettosamente sbirciato dentro, si sia saggiamente calmato e prudentemente allontanato, vai a vedere perché? Per la paura che potesse accadere una disgrazia, qualche cosa di pericoloso e di immorale! Di questo vorrebbero convincere noi che conosciamo il carattere dell'imputato, comprendiamo in quali condizioni di spirito si trovasse (le comprendiamo alla luce dei fatti) e, soprattutto, sappiamo che egli era a conoscenza dei segnali che gli avrebbero consentito di entrare in casa senza difficoltà!»

I SEGNALI 

Qui, a proposito dei "segnali", Ippolit Kirilloviè accantonò per un attimo le sue argomentazioni e ritenne necessario dilungarsi su Smerdjakov al fine di demolire radicalmente i sospetti, avanzati da più parti, che questi fosse implicato nell'omicidio e farla finita una volta per tutte con questa teoria. Egli procedette molto circostanziatamente nel suo intento e tutti compresero che, per quanto professasse di disprezzare questa ipotesi, egli tuttavia attribuiva ad essa grande importanza.




IX • IPPOLIT KIRILLOVIE Psicologia a tutto vapore.

 IX • Psicologia a tutto vapore. 





La trojka galoppante. 


Il finale dell'arringa del procuratore Giunto a questo punto della sua arringa, Ippolit Kirilloviè, che evidentemente aveva scelto un metodo d'esposizione rigorosamente storico - quello a cui amano molto ricorrere tutti gli oratori nervosi che cercano a bella posta limiti rigorosamente fissati per contenere il loro irruente fervore - Ippolit Kirilloviè, dicevo, si dilungò particolarmente sul "primo" e "indiscutibile" amante, ed espresse alcune idee a loro modo interessanti sull'argomento. «Karamazov, che era geloso di chiunque fino alla follia, di colpo sembra cedere e scomparire dinanzi al "primo", all'"indiscutibile". Ed è tanto più strano, in quanto in passato non aveva prestato la minima attenzione a questo nuovo pericolo, che si avvicinava a lui in persona del rivale inatteso. Ma egli immaginava che fosse ancora lontano, mentre Karamazov vive sempre e soltanto il momento presente. Probabilmente lo considerava soltanto una finzione. Ma il suo cuore ferito intuì all'istante che la donna gli aveva tenuto nascosto quel nuovo rivale e lo aveva ingannato poco prima, proprio perché quel sopraggiunto rivale era tutt'altro che una fantasia, tutt'altro che una finzione per lei, perché egli era l'unica speranza della sua vita; egli intuì tutto questo in un attimo e si mise l'animo in pace. Signori della giuria, non posso passare sotto silenzio questo sorprendente tratto del carattere dell'imputato, il quale, a prima vista, sarebbe sembrato totalmente incapace di manifestare simili sentimenti: tutt'a un tratto, era sorto in lui un insopprimibile desiderio di giustizia, un profondo rispetto per la donna e il riconoscimento dei diritti del suo cuore; e quando avvenne tutto questo? Proprio nello stesso momento in cui, a causa di lei, egli si era imporporato le mani del sangue del proprio padre! È anche vero che il sangue versato in quel momento gridava già vendetta, giacché egli, dopo aver rovinato la propria anima e il proprio destino terreno, involontariamente doveva avvertire e domandarsi in quell'istante: "Che cosa significo io e che cosa posso significare adesso per lei, per quella creatura che amo più dell'anima mia, a confronto con quello il 'primo', con l''indiscutibile' che è tornato pentito dalla donna che un giorno ha rovinato, con rinnovato amore, con profferte oneste, con la promessa di una vita rigenerata e felice. Mentre io, disgraziato, che cosa potrei darle adesso, che cosa potrei offrirle?" Karamazov aveva compreso tutto questo, aveva compreso che il suo delitto gli aveva precluso tutte le strade, e che ormai egli era soltanto un criminale condannato alla pena capitale e non un uomo che ha tutta la vita dinanzi a sé! Questo pensiero lo aveva schiacciato, distrutto. E così, istantaneamente, si sofferma su un piano disperato che, a un carattere come il suo, doveva sembrare l'unica e fatale via d'uscita dalla terribile situazione in cui si trovava. La via d'uscita è il suicidio. Egli corre a riprendere le pistole che aveva pignorato presso l'impiegato Perchotin e nel contempo, durante il tragitto, mentre corre, tira fuori dalla tasca tutti i soldi che ha, quelli per i quali si è appena macchiato le mani del sangue di suo padre. Oh, il denaro gli serviva più di ogni altra cosa: Karamazov sarebbe morto, Karamazov si sarebbe sparato, e questo sarebbe stato un gesto per il quale lo avrebbero ricordato! Non per niente siamo dei poeti, non per niente abbiamo bruciato la nostra vita come una candela che si consuma da entrambi i lati. "Da lei, da lei - e lì, oh sì, lì, io darò un festino per tutti, uno di quei festini che non hanno mai visto affinché se ne ricordino e ne parlino a lungo. Tra le urla sfrenate, le folli canzoni e le danze zigane, noi innalzeremo il calice e berremo alla salute della donna adorata e alla sua rinnovata felicità e poi - lì stesso, ai suoi piedi, ci fracasseremo il cranio e ci puniremo! Un giorno si ricorderà di Mitja Karamazov, si accorgerà di quanto Mitja l'ha amata e avrà pietà di lui!" Vediamo qui una buona dose di pittoresco, di frenesia romantica, di selvaggia sfrenatezza karamazoviana e di sentimentalismo - ma c'è anche qualcos'altro, signori della giuria, qualcosa che grida nell'anima, che rimbomba incessantemente nel cervello e avvelena il suo cuore fino alla morte: quel qualcosa è la coscienza, signori della giuria, il giudizio della coscienza, i suoi terribili scrupoli! Ma la pistola sistemerà ogni cosa, la pistola è l'unica via d'uscita, non ce n'è un'altra, e nell'aldilà... io non so se Karamazov in quel momento pensasse a quello che "ci sarà nell'aldilà", non so se Karamazov in quel momento potesse domandarsi, come Amleto, che cosa ci sarà là? No, signori giurati, quelli hanno i loro Amleti ma noi, per ora, abbiamo i nostri Karamazov!» A questo punto Ippolit Kirilloviè dipinse un quadro minuziosissimo dei preparativi di Mitja, della scena da Perchotin, nella bottega e con i vetturini. Egli citò una massa di dichiarazioni, commenti, gesti, tutti confermati da testimoni, e il quadro che ne emerse produsse un effetto formidabile sugli ascoltatori. Fece impressione soprattutto la mole dei fatti riportati. La colpevolezza di quell'uomo tormentato fino alla disperazione, incapace ormai di cautelarsi, emergeva inconfutabile. «Non aveva più motivo di cautelarsi», diceva Ippolit Kirilloviè, «due o tre volte fu persino sul punto di confessarsi, fece delle mezze allusioni, mancò solo che parlasse francamente». A questo punto seguirono le dichiarazioni dei testimoni. «Persino al vetturino gridò: "Ma lo sai che stai trasportando un assassino?" Eppure gli fu impossibile parlare francamente: doveva prima giungere al villaggio di Mokroe e concludere là il suo poema. E invece che cosa aspettava là quel disgraziato? Il fatto è che quasi dai primissimi minuti che trascorre a Mokroe egli si accorge e, alla fine, comprende fino in fondo che il suo "indiscutibile" rivale forse non è affatto così indiscutibile, e che il brindisi alla loro nuova felicità e il suo calice innalzato in loro onore quelli non lo vogliono e non lo avrebbero accettato. Ma voi, signori della giuria, siete già al corrente dei fatti emersi dall'istruttoria. Il trionfo di Karamazov sul rivale era completo e a questo punto - oh, a questo punto ebbe inizio una fase completamente nuova nella sua anima, addirittura la fase più terribile che quest'anima avesse mai vissuto e dovrà ancora vivere! Si può asserire con sicurezza, signori della giuria», esclamò Ippolit Kirilloviè, «che una natura oltraggiata e un cuore criminale si vendicano contro se stessi in maniera molto più completa di qualsiasi tribunale terreno! E non solo: la giustizia e la punizione terrena alleviano la punizione della natura e sono, in realtà, essenziali all'anima del criminale in quei momenti, come via di salvezza dalla disperazione, giacché io non posso immaginare l'orrore e le sofferenze morali di Karamazov quando egli apprese che ella lo amava, che per amor suo ella respingeva il suo "primo" amore, l'"indiscutibile" e che invitava lui, lui, "Mitja", ad accompagnarla nella sua vita rinnovata, a lui prometteva felicità, e in quale momento avveniva tutto questo? Proprio quando tutto per lui era ormai finito e quando nulla era più possibile! A proposito, farò una rapida considerazione, estremamente importante per spiegare la vera essenza della situazione in cui allora si trovava l'imputato: quella donna, il suo amore, fino all'ultimissimo istante, quasi fino al momento dell'arresto, per lui era sempre stata un essere inaccessibile, appassionatamente desiderato, ma irraggiungibile. Ma perché, perché egli non si sparò in quel momento stesso, perché accantonò la decisione presa e addirittura dimenticò le sue pistole? Fu proprio quella appassionata brama di amore e la speranza di appagarla in quel momento stesso, in quel luogo stesso, che lo trattennero. Tra i fumi del festino, egli rimane incatenato alla sua innamorata che festeggia insieme a lui, incantevole e seducente più che mai - non si allontana da lei nemmeno di un passo, si perde nell'ammirazione di lei, si annulla davanti a lei. Quella brama appassionata, per un istante, poté persino soffocare non solo il timore dell'arresto, ma gli stessi rimorsi di coscienza! Per un istante, solo per un istante! Mi immagino lo stato d'animo del criminale in quel momento, assoggettato, servilmente e disperatamente, a tre forze che lo sopraffacevano del tutto: in primo luogo, l'ubriachezza, i fumi dell'alcool e il trambusto, il rimbombo delle danze, gli strepiti delle canzoni e lei, lei, arrossata dall'alcool, che cantava e danzava, ubriaca, che rideva guardandolo! In secondo luogo: l'incoraggiante e vago sogno che il fatale epilogo fosse ancora lontano o, per lo meno, non così vicino, che lo venissero a prendere soltanto l'indomani, soltanto la mattina dopo. Dunque una manciata di ore: era molto, moltissimo! In alcune ore si poteva pensare a un mucchio di cose! Posso immaginare che egli si sentisse un po' come quando il condannato viene condotto alla pena capitale, alla forca: gli rimane ancora da attraversare una strada lunga lunga e per di più a passo d'uomo, in mezzo a migliaia di persone, poi svolterà in un'altra strada e, soltanto alla fine di quella strada, c'è la terribile piazza! Immagino che all'inizio della processione il condannato, mentre monta sul carro dell'infamia, senta che davanti a sé c'è ancora una vita lunghissima. Ma ecco che le case passano, il carro continua a incedere - oh, non è nulla, manca ancora molto per svoltare nella seconda strada, ed ecco che egli guarda ancora fieramente a destra, a sinistra, quelle migliaia di persone animate da curiosità indifferente che fissano su di lui i loro sguardi, e gli sembra ancora di essere esattamente come loro, una persona. Ma ecco che si svolta nell'altra strada, oh! Non è niente, non è niente! C'è una strada intera da percorrere ancora, e per quanto le case continuino a scorrere via, egli continua a pensare: "Rimangono ancora molte altre case". E così fino alla fine, fino alla piazza stessa. Ecco, immagino che Karamazov provasse la stessa sensazione in quel momento. "Non hanno ancora fatto in tempo in città", pensava, "si può escogitare ancora qualcosa, oh, ci sarà ancora tempo per costruire qualche piano di difesa, inventare una forma di resistenza, ma adesso, adesso, adesso lei è così incantevole!" La sua anima traboccava di confusione e terrore, ma egli fa in tempo, tuttavia, a mettere da parte metà dei suoi soldi per nasconderli in qualche posto - altrimenti non riesco a spiegarmi che fine abbia fatto quella buona metà dei tremila rubli che egli aveva appena preso da sotto il cuscino del padre. Era già stato a Mokroe più di una volta, vi aveva già fatto baldoria per due giorni e due notti. Gli era ben nota quella grande casa di legno con tutti i suoi sgabuzzini e i suoi passaggi. Io suppongo che una parte di quel denaro sia stata nascosta proprio allora, in quella stessa casa, non molto tempo prima dell'arresto, in qualche buco, in qualche fessura, sotto qualche asse, in qualche angolo, sotto il tetto - ma a che scopo? Come, a che scopo? La catastrofe poteva sopraggiungere da un momento all'altro, naturalmente, e noi non abbiamo ancora escogitato il modo di affrontarla, non ne abbiamo il tempo, la testa ci rimbomba e il cuore è attirato soltanto verso di lei, e i soldi, quelli sono utili per ogni evenienza! Un uomo con i soldi rimane un uomo in qualsiasi luogo. Forse una tale avvedutezza in un momento simile vi sembrerà innaturale? Ma è lui stesso a dichiarare che un mese prima della catastrofe, in un momento critico e fatale, analogo a quello, egli aveva messo da parte la metà dei tremila rubli e li aveva cuciti dentro il suo amuleto; e anche se questo non corrisponde al vero, come proveremo subito, tuttavia dimostra che il pensiero era familiare a Karamazov, che lo aveva preso in considerazione. E non basta: quando egli assicurava in seguito agli inquirenti di aver messo da parte millecinquecento rubli nell'amuleto (amuleto che non è mai esistito), probabilmente quell'amuleto se l'era inventato lì per lì, proprio perché solo due ore prima aveva messo da parte la metà dei suoi soldi e l'aveva nascosta da qualche parte a Mokroe, per ogni evenienza, fino al mattino seguente, soltanto per evitare di tenerli addosso, spinto dall'ispirazione del momento. Due abissi, signori della giuria, ricordate che un Karamazov può contemplare due abissi ed entrambi nello stesso momento! Abbiamo perquisito quella casa, ma non abbiamo trovato nulla. Quei soldi potrebbero essere ancora là, oppure potrebbero essere scomparsi il giorno dopo e trovarsi adesso in possesso dell'imputato. In ogni caso, quando lo hanno arrestato, egli si trovava accanto a lei, in ginocchio davanti a lei, ella era sdraiata sul letto ed egli protendeva le braccia verso di lei: in quel momento aveva dimenticato tutto, tanto che non udì nemmeno l'approssimarsi di coloro che lo avrebbero arrestato. Non aveva avuto il tempo di preparare una linea di difesa nella sua mente. Lui e la sua mente furono colti alla sprovvista. Ed eccolo davanti ai giudici, davanti a coloro che decideranno del suo destino. Signori della giuria, ci sono momenti, nell'esecuzione del nostro dovere, nei quali ci fa paura affrontare un uomo, paura anche per lui! Sono i momenti in cui si osserva quell'orrore animalesco che invade il reo quando si accorge di essere perduto, ma lotta ancora e intende ancora lottare contro di noi. Sono i momenti in cui di colpo in lui insorgono tutti gli istinti di conservazione ed egli, nel tentativo di salvarsi, vi guarda con uno sguardo che trafigge, implora e soffre, egli vi coglie al volo, vi studia, studia il vostro viso, i vostri pensieri, aspetta per vedere da che parte lo colpirete e in un istante concepisce, nella sua mente sconvolta, mille piani, ma ha pur sempre paura di parlare, ha paura di tradirsi! Questi momenti umilianti per un'anima umana, questo pellegrinaggio per le tribolazioni, questa brama animalesca di salvezza sono terribili e a volte suscitano tremore e compassione per il criminale persino nei giudici! E noi fummo testimoni di tutto questo. All'inizio egli era sbigottito e nel terrore del momento gli sfuggirono alcune parole che lo compromisero gravemente: "Sangue! Me lo sono meritato!" Ma ben presto riacquistò il controllo di sé. Che dire, che cosa rispondere - questo non se l'era ancora preparato, si era preparato solo un'infondata negazione: "Non sono colpevole della morte di mio padre!" Quello era il nostro muro di difesa per il momento, e lì, dietro il muro di difesa, forse facciamo in tempo a costruire ancora qualche cosa, una specie di barricata. Egli si affrettò a spiegare le sue prime compromettenti esclamazioni (prevenendo le nostre domande), dichiarando di essere colpevole soltanto della morte del servo Grigorij. "Di quel sangue sono colpevole, ma chi ha ucciso mio padre, signori, chi lo ha ucciso? Chi altri poteva ucciderlo, se non io?" Capite: egli lo domandava a noi, proprio a noi che eravamo andati a domandarlo a lui! Avete sentito le paroline che gli erano sfuggite: "se non io", ne percepite l'astuzia animalesca, l'ingenuità e la smania tutta karamazoviana? Non l'ho ucciso io, e voi non potete pensare che sia stato io. "Volevo uccidere, signori, volevo uccidere", confessa egli in fretta (aveva fretta, una fretta tremenda!), "ma non sono colpevole, non sono stato io ad uccidere!" Egli ci concede di ammettere che voleva uccidere, come a dire: "Vedete come sono sincero, così mi crederete al più presto quando vi dirò che non l'ho ucciso io!" Oh, in questi casi, il criminale diventa, a volte, incredibilmente superficiale e credulone. A questo punto, come per caso, uno degli inquirenti gli pose la più semplice delle domande: "Sarà stato Smerdjakov l'assassino?" E allora successe quello che ci aspettavamo: egli si infuriò perché lo avevamo anticipato e colto alla sprovvista, quando non aveva ancora fatto in tempo a preparare, scegliere e cogliere il momento nel quale sarebbe stato più opportuno tirare fuori il nome di Smerdjakov. Egli, com'è nella sua natura, si lanciò subito all'estremo opposto e cominciò ad assicurare, con tutte le sue energie, che Smerdjakov non poteva aver ucciso, che non sarebbe stato capace di uccidere. Ma non credetegli, è solo uno dei suoi trucchetti: egli non abbandona affatto l'idea di Smerdjakov: al contrario, intende portarla avanti, perché chi altri potrebbe accusare? Solo che intende farlo in un secondo momento, per adesso gli hanno rovinato quella linea di difesa. Egli tornerà ad avanzare il nome di Smerdjakov soltanto domani, forse, o anche fra qualche giorno, cercando il momento giusto per gridare lui stesso: "Vedete, io stesso ho negato che potesse essere Smerdjakov con maggiore forza di voi - certamente lo ricordate anche voi - ma adesso anch'io mi sono convinto: è stato lui a uccidere, deve essere stato lui!" Ma, per il momento, egli precipita dinanzi a noi in una negazione cupa e irritabile, però l'impazienza e l'ira gli suggeriscono la più inetta e inverosimile spiegazione sul modo in cui guardò suo padre dalla finestra per poi allontanarsene rispettosamente. Il fatto è che egli non era ancora al corrente delle circostanze e della gravità della testimonianza resa da Grigorij, il quale nel frattempo aveva ripreso conoscenza. Procediamo alla perquisizione personale. La perquisizione lo fa andare su tutte le furie, ma allo stesso tempo lo incoraggia: non si riesce a trovare l'intera somma, ma solo millecinquecento rubli. E, senza dubbio, solo in quel momento di silenzio incollerito, in cui egli nega tutto, gli salta in mente, per la prima volta in vita sua, l'idea dell'amuleto. Senza dubbio lui stesso è consapevole della inverosimiglianza della trovata e si tormenta, si tormenta da morire per renderla più credibile, e si arrovella perché venga fuori un romanzo verosimile. In questi casi la prima cosa da fare, il primo compito che l'inquirente deve assolvere è quello di non dare il tempo di prepararsi, di attaccare inaspettatamente, affinché il criminale esprima le proprie idee segrete in tutta la loro palese semplicità, inverosimiglianza e contraddittorietà. Si può costringere il criminale a parlare soltanto con un'improvvisa e apparentemente casuale comunicazione di qualche fatto nuovo, di qualche circostanza del caso che sia di importanza colossale, ma tale che fino a quel momento egli non ne abbia idea, né possa in alcun modo averla prevista. Noi avevamo a disposizione un fatto del genere e già da un pezzo: era la testimonianza del servo Grigorij - che aveva ripreso conoscenza - sulla porta aperta dalla quale era fuggito l'imputato. Egli si era completamente dimenticato di quella porta e non immaginava nemmeno che Grigorij potesse averla vista. Ottenemmo un effetto colossale. Egli balzò in piedi e ci gridò: "È stato Smerdjakov a uccidere, Smerdjakov!", e così tradì il suo pensiero segreto, fondamentale, nella sua forma meno verosimile, giacché Smerdjakov avrebbe potuto uccidere soltanto dopo che lui aveva colpito Grigorij ed era fuggito. Quando invece gli abbiamo comunicato che Grigorij aveva visto la porta aperta prima di cadere sotto i suoi colpi, e che, mentre usciva dalla sua camera da letto, aveva sentito i gemiti di Smerdjakov dietro il tramezzo, Karamazov rimase davvero tramortito. Il mio collega, il nostro stimato e perspicace collega Nikolaj Parfenoviè, mi confidò in seguito che in quel momento egli provò una tale compassione per lui da avere le lacrime agli occhi. Ed ecco che in quel momento stesso, per aggiustare le cose, egli si affrettò a raccontarci la storia di quel famigerato amuleto, come a dire: sia pure così, sentite quello che vi racconto adesso! Signori della giuria, vi ho già esposto le mie idee e i motivi per cui considero la trovata del denaro cucito nell'amuleto un mese addietro non soltanto un'assurdità, ma l'invenzione più inverosimile che si potesse escogitare in simili circostanze. Se pure per scommessa si tentasse di raccontare e avanzare una storia più inverosimile, anche in quel caso non se ne troverebbe una peggiore di quella. Ma in questo caso è possibile mettere alle corde e ridurre in frantumi il romanziere trionfante per mezzo dei particolari, quei particolari dei quali la realtà è sempre così ricca e che puntualmente questi disgraziati e improvvisati autori trascurano, quali banalità inutili e prive di senso, che non si degnano nemmeno di prendere in considerazione. Oh, in quei momenti non hanno tempo per i particolari, la loro mente si concentra unicamente sulla grande invenzione nella sua totalità, essi ridono se si sottopongono loro tali piccolezze. Invece è proprio sui particolari che li si coglie in fallo! All'imputato viene posta la domanda: "E dove vi siete procurato il materiale per il vostro amuleto, chi ve lo ha cucito?" "Me lo sono cucito da me". "E dove, di grazia, avete preso la stoffa?" L'imputato già comincia a offendersi, la considera una banalità offensiva per lui e il suo sentimento è sincero, sincero! Ma sono tutti uguali. "L'ho strappata dalla mia camicia". "Benissimo, signore: dunque, fra la vostra biancheria domani stesso potremo trovare la camicia con la parte lacerata". E pensate, signori della giuria, che se solo avessimo trovato quella camicia lacerata (e come avremmo potuto non trovarla nella sua cassettiera o nel baule, se solo fosse esistita davvero?) quella sarebbe stata una prova, una prova materiale che avrebbe dimostrato che stava dicendo la verità! Ma egli era incapace di una simile riflessione. "Non ricordo, forse non l'ho strappato dalla camicia, ma l'ho cucito in una cuffietta della mia padrona di casa" "In una cuffietta di che tipo?" "L'ho presa da lei, l'aveva buttata da qualche parte, un vecchio straccio di percalle". "E questo ve lo ricordate con sicurezza?" "No, non ricordo con sicurezza..." E perde la pazienza, perde la pazienza, eppure, figurarsi: come faceva a non ricordarsene? Nei momenti più critici della vita di un uomo, per esempio, quando lo conducono al patibolo, si ricordano proprio questi dettagli. Il condannato dimentica tutto tranne un certo tetto verde che gli è balenato davanti agli occhi durante il percorso o una cornacchia grigia su una croce - ecco quello che rimane in mente. Egli, cucendo il suo amuleto, di nascosto dai padroni di casa, doveva pur ricordare l'umiliante paura che qualcuno entrasse e lo cogliesse con l'ago in mano, doveva pur ricordare come al minimo rumore balzasse in piedi e si nascondesse dietro al tramezzo (nel suo appartamento c'è un tramezzo)... Ma signori giurati, a che scopo vi dico tutto questo, mi perdo in questi dettagli, in queste piccolezze?», esclamò ad un tratto Ippolit Kirilloviè. «Proprio per il fatto che l'imputato continua a tutt'oggi a sostenere testardamente questa assurda versione! Nel corso di questi due mesi, a partire da quella notte per lui fatale, egli non ha fornito alcuna spiegazione, non ha aggiunto alcuna reale circostanza chiarificatrice alle sue fantastiche dichiarazioni iniziali, come a dire: sono tutte piccolezze, credete alla mia parola d'onore! Oh, noi saremmo contenti di crederci, noi desideriamo crederci, anche solo sulla base di una parola d'onore! Non siamo mica degli sciacalli avidi di sangue umano! Forniteci, mostrateci anche una sola prova a favore dell'imputato e noi ci rallegreremo, ma che sia una prova sostanziale, reale, non la conclusione che ha tratto suo fratello semplicemente dall'espressione del viso dell'imputato o la congettura che battendo il pugno sul petto egli volesse sicuramente indicare l'amuleto, e per di più con il buio che c'era. Noi ci rallegreremmo di una nuova prova, saremmo i primi a ritirare l'accusa, ci affretteremmo a ritirarla. Ma così come stanno le cose, la giustizia grida vendetta e noi rimaniamo sulle nostre posizioni, non possiamo ritirare un bel niente». Ippolit Kirilloviè passò alla conclusione. Sembrava che avesse la febbre, gridò vendetta per il sangue versato, il sangue di un padre ucciso dal figlio "mosso dall'abietto scopo di derubarlo". Mise in risalto la tragica e ignominiosa mole dei fatti. «E qualunque cosa possiate ascoltare dalle labbra del difensore, illustre per il suo talento», non riuscì a trattenersi Ippolit Kirilloviè, «per quanto eloquenti e commoventi possano risuonare gli appelli rivolti alla vostra sensibilità, ricordatevi sempre che in questo momento vi trovate in un tempio della nostra giustizia. Rammentatevi che siete i campioni della nostra giustizia, i campioni della nostra santa Russia, dei suoi principi, della sua famiglia e di tutto ciò che in essa vi è di sacro! Sì, in questo momento voi rappresentate la Russia e il vostro verdetto non avrà risonanza soltanto in quest'aula, ma nell'intera Russia e la Russia intera vi ascolterà come i propri campioni e giudici e sarà incoraggiata o afflitta dal vostro verdetto. Non deludete la Russia e le sue aspettative, la nostra fatale trojka galoppa a rotta di collo e, forse, verso la distruzione. E da molto tempo ormai in tutta la Russia si protendono braccia e si levano invocazioni per fermare questa corsa forsennata e spudorata. E se le altre nazioni si fanno da parte al passaggio della trojka che galoppa a rotta di collo, forse non è affatto per rispetto nei suoi confronti, come voleva il poeta, ma solo per l'orrore che provano: tenetelo a mente questo. Per orrore e forse per disgusto, ed è ancora un bene che si facciano da parte, ma forse un giorno smetteranno di farsi da parte e formeranno un muro compatto dinanzi all'irruente apparizione, ed essi stessi fermeranno la folle corsa della nostra sfrenatezza per il bene della loro salvezza, della loro cultura e della loro civiltà! Abbiamo già sentito voci di allarme provenire dall'Europa! Cominciano già a diffondersi. Non inducetele in tentazione, non aizzate il loro odio crescente con un verdetto che giustifichi l'assassinio di un padre da parte di un figlio!...» Insomma, Ippolit Kirilloviè, sebbene si fosse molto infervorato, concluse tuttavia la sua arringa con un tono davvero patetico e l'effetto che ottenne fu veramente straordinario. Egli, dopo aver concluso il suo discorso, uscì in fretta e, lo ripeto, per poco non cadde svenuto nell'altra stanza. L'aula non applaudì, ma le persone serie furono soddisfatte. Solo le signore non erano molto contente, ma anche a loro era piaciuta quella prova di eloquenza, tanto più che non ne temevano affatto le conseguenze e riponevano tutte le loro speranze in Fetjukoviè: "Finalmente parlerà lui e sicuramente batterà tutti!" Tutti guardavano Mitja; per tutta l'arringa del procuratore, egli era rimasto in silenzio, con le mani serrate, a denti stretti e capo chino. Solo di tanto in tanto aveva sollevato il capo e si era messo in ascolto. Soprattutto nel momento in cui aveva iniziato a parlare di Grušen'ka. Quando il procuratore aveva riferito l'opinione che Rakitin aveva di lei, sul suo volto era affiorato un sorriso sprezzante e perfido e aveva pronunciato in maniera abbastanza udibile: "Questi Bernard!" Quando, invece, Ippolit Kirilloviè aveva descritto il modo in cui lo aveva interrogato e tormentato a Mokroe, Mitja aveva sollevato il capo e

VIII •Ippolit Kirilloviè Dissertazione su Smerdjakov

 VIII • Dissertazione su Smerdjakov 



CHI ACCUSA SMERDIAKOV

 «Tanto per cominciare, qual è stata la fonte di un simile sospetto?», Ippolit Kirilloviè esordì con questa domanda. 

«Il primo a dichiarare a gran voce che fosse stato Smerdjakov a commettere l'omicidio fu l'imputato stesso al momento dell'arresto; eppure, a tutt'oggi, sin dal giorno di quell'accusa, egli non ha prodotto una prova a sostegno di essa e non solo una prova, ma neanche un qualcosa che potesse essere ragionevolmente considerato un accenno di prova. 

Più tardi, sono stati solo in tre a ribadire questa accusa: i due fratelli dell'imputato e la signorina Svetlova. 

Ma il fratello maggiore dell'imputato ha reso noto il suo sospetto soltanto oggi, da malato, in uno stato di indiscutibile alterazione mentale, in preda alla febbre cerebrale, mentre in passato, nel corso di questi due mesi, come sappiamo per certo, ha condiviso in pieno la convinzione della colpevolezza di suo fratello e non ha nemmeno cercato di opporsi a questa idea. Ma di questo ci occuperemo in particolare in seguito. 

Poi il fratello minore dell'imputato ci ha dichiarato, poco fa, di non avere la minima prova a sostegno della propria convinzione sulla colpevolezza di Smerdjakov, ma di giungere a questa conclusione solo in base alle parole dell'imputato stesso e "all'espressione del suo viso" - e questa colossale testimonianza è stata resa ben due volte oggi da suo fratello. 

La signorina Svetlova, invece, si è espressa in termini ancora più colossali: "Credete a quello che vi dice l'imputato, egli non è uomo capace di mentire". Ecco in che cosa consistono le schiaccianti testimonianze contro Smerdjakov rese da queste tre persone, sin troppo interessate al destino dell'imputato. 

E tuttavia la teoria della colpa di Smerdjakov è stata diffusa, è stata sostenuta e a tutt'oggi viene ancora sostenuta: ma è mai possibile credere a questo o anche solo immaginare una cosa del genere?» 

CARATTERE DI SMERDIAKOV

 A questo punto Ippolit Kirilloviè ritenne necessario descrivere brevemente il carattere del defunto Smerdjakov "che aveva posto fine alla propria vita in un attacco di morboso delirio e follia". 

Egli lo dipinse come un uomo mentalmente fragile, con un embrione di vaga istruzione, turbato da idee filosofiche che superavano le capacità del suo intelletto e atterrito da alcune idee moderne sul dovere e sugli obblighi, inculcategli ampiamente, nella pratica, dalla vita sfrenata del suo defunto padrone - e forse, anche padre - e, nella teoria, da alcune strane conversazioni filosofiche con il figlio maggiore del padrone, Ivan Fëdoroviè, che indulgeva volentieri in questo passatempo, probabilmente per noia o per il desiderio di divertirsi un po', in mancanza di meglio. 

«Egli stesso mi ha descritto quale fosse il suo stato d'animo negli ultimi giorni in cui visse in casa del padrone», spiegò Ippolit Kirilloviè, «ma esistono anche altre testimonianze in proposito: 

quella dell'imputato stesso, 

del fratello e persino 

del servo Grigorij, cioè di persone che dovevano conoscerlo molto da vicino. 

COME LO DESCRIVE DMITRI: CODARDO

Inoltre, afflitto dall'epilessia, Smerdjakov era "codardo come una gallina". "Egli si è inginocchiato e mi ha baciato i piedi", ci ha dichiarato l'imputato in persona quando ancora non si rendeva conto del danno che gli arrecava una tale dichiarazione; "è una gallina malata di mal caduco": così l'ha definito con il suo caratteristico modo di esprimersi. E l'imputato scelse proprio lui come fiduciario, e lo terrorizzò a tal punto che quello acconsentì a fargli da spia e delatore. In questa mansione di emissario domestico, egli tradisce il suo padrone e rivela all'imputato l'esistenza del plico con i soldi e i segnali, grazie ai quali si può accedere nelle stanze del padrone - e del resto, come avrebbe potuto evitare di farlo?! "Mi avrebbe ucciso, lo vedevo chiaramente che mi avrebbe ucciso", ha dichiarato durante l'istruttoria preliminare, tutto tremante persino dinanzi a noi, nonostante il suo aguzzino allora si trovasse già agli arresti e non potesse più punirlo. "Non faceva che sospettare di me, vossignoria, e io, terrorizzato e tremante, mi affrettavo a riferirgli ogni segreto pur di placare la sua ira, affinché si rendesse conto che non avevo colpa e mi lasciasse vivere, vossignoria". Ecco, sono proprio parole sue, me le sono scritte e le ho mandate a memoria. "Quando quello si metteva a urlare contro di me, io cadevo in ginocchio davanti a lui". 

ONESTA' DI SMERDIAKOV

Egli era molto onesto per sua natura e si era conquistato la fiducia del padrone, che aveva avuto una prova tangibile della sua onestà quando il servitore gli aveva restituito i soldi smarriti; quindi, c'è da supporre che il povero Smerdjakov soffrisse terribilmente per il rimorso di aver tradito il proprio padrone che amava come un benefattore. Le persone che soffrono di gravi forme di epilessia - così ci insegnano i migliori psichiatri - sono sempre inclini a continue e, naturalmente, morbose crisi di senso di colpa. Essi si tormentano per la propria "colpevolezza" riguardo a qualcosa e a qualcuno, si tormentano senza alcun fondamento, esagerano e si inventano persino ogni tipo di colpe e delitti. Ed ecco che un soggetto del genere si rende effettivamente colpevole di una malefatta, per paura e in seguito ad intimidazioni. Per di più, ha un forte presentimento che dalle circostanze che si stanno sviluppando davanti ai suoi occhi potrà risultare qualcosa di brutto. 

 Quando il figlio maggiore di Fëdor Pavloviè, Ivan Fëdoroviè, stava partendo per Mosca alla vigilia della catastrofe, Smerdjakov lo supplicò di restare, senza aver tuttavia l'ardire, per la sua pavidità abituale, di rivelargli tutti i suoi timori in maniera chiara e categorica. Egli si limitò alle allusioni, ma quelle allusioni non furono colte. 

Bisogna dire che in Ivan Fëdoroviè egli scorgeva il proprio difensore, una sorta di garanzia che fin quando ci fosse stato lui non sarebbe accaduta alcuna disgrazia. Ricordate la frase della lettera "da ubriaco" di Dmitrij Karamazov: "Ucciderò il vecchio, purché Ivan sia andato via?" Dunque la presenza di Ivan Fëdoroviè sembrava a tutti una garanzia di quiete e ordine in quella casa. Ed ecco che quello parte e Smerdjakov immediatamente, circa un'ora dopo la partenza del giovane padrone, ha un attacco epilettico. Ma questo è del tutto comprensibile. Qui occorre ricordare che, afflitto dai suoi timori e dalla sua particolare disperazione, Smerdjakov in quegli ultimi giorni avvertiva dentro di sé l'approssimarsi di una crisi epilettica, come gli era accaduto anche in passato in momenti di tensione e sconvolgimento morale. 

GLI ATTACCHI EPILLETTICI

Certo è impossibile indovinare il giorno e l'ora di quegli attacchi, ma qualunque epilettico può avvertire in anticipo la predisposizione a un attacco. Così dice la medicina. Ed ecco che Ivan Fëdoroviè è appena uscito dal cortile della casa, quando Smerdjakov, sotto l'influsso della sua, diciamo così, condizione di orfano privato di protezione, va in cantina per sbrigare alcune faccende domestiche, scende dalla scala e pensa: "Mi verrà o no un attacco, e se mi venisse adesso?" Ed ecco che proprio a causa di una tale condizione di spirito, di una tale titubanza e di tali interrogativi, viene colto dallo spasmo alla gola che sempre precede una crisi epilettica, e precipita a capofitto, privo di sensi, sul pavimento della cantina. Ed ecco che in questa coincidenza, del tutto naturale, ci si ingegna di scorgere un che di sospetto, una sorta di indicazione, una sorta di cenno al fatto che egli abbia finto di proposito di essere malato! Ma se lo ha fatto di proposito, allora sorge subito la domanda: a che scopo? In base a quale calcolo, con quale fine? Adesso non parlo più di medicina; la scienza, dicono, mente; la scienza sbaglia, i dottori non sono stati in grado di distinguere la verità dalla menzogna, ammettiamo pure che sia così, ma allora rispondete a questa domanda: a che scopo egli simulava? Forse allo scopo, una volta concepito l'omicidio, di attirare su di sé, in anticipo e nella maniera più rapida, l'attenzione della casa per mezzo di quell'attacco? Vedete, signori giurati, la notte del delitto, in casa di Fëdor Pavloviè si trovavano, fra abitanti e di passaggio, in tutto cinque persone: il primo era lo stesso Fëdor Pavloviè, ma non è stato certo lui ad uccidersi, questo è chiaro; secondo, il suo servo Grigorij, ma a momenti non ammazzavano pure lui; terza, la moglie di Grigorij, la serva Marfa Ignat'evna, ma sarebbe semplicemente vergognoso immaginare che sia stata lei ad uccidere il suo padrone. 

Dunque rimangono due persone: l'imputato e Smerdjakov. 

Ma dal momento che l'imputato assicura di non essere stato lui ad uccidere, allora deve essere stato Smerdjakov, non c'è altra alternativa che questa, non si riesce a trovare nessun altro assassino. 

Ecco dunque da dove è nata la "scaltra" e colossale accusa contro il disgraziato idiota che ieri si è suicidato! Dal solo e unico fatto che non c'era nessun altro da accusare! Se ci fosse stata un'ombra, il minimo sospetto su qualcun altro, su qualche sesta persona, allora sono convinto che persino l'imputato si sarebbe vergognato di accusare Smerdjakov e avrebbe accusato questa sesta persona, dal momento che accusare Smerdjakov di questo omicidio è un'assurdità bella e buona. Signori, accantoniamo la psicologia, accantoniamo la medicina, accantoniamo la logica stessa, atteniamoci unicamente ai fatti, ai fatti nudi e crudi, e guardiamo che cosa ci dicono i fatti. Smerdjakov ha ucciso, ma come? Solo o con la complicità dell'imputato? Esaminiamo il primo caso, quello in cui Smerdjakov abbia ucciso da solo. Ovviamente, se ha ucciso, deve averlo fatto per un qualche scopo, per questo o quell'altro tornaconto. 

IL MOVENTE

 Ma dal momento che non aveva neppure l'ombra dei motivi che invece aveva l'imputato, cioè l'odio, la gelosia e via dicendo, Smerdjakov, senza dubbio, poteva uccidere unicamente per i soldi, per impossessarsi proprio di quei tremila rubli che aveva visto con i propri occhi mentre il padrone li infilava nel plico. Ed ecco che, concepito il delitto, egli comunica in anticipo a un'altra persona - per di più a una persona interessata in massimo grado, all'imputato stesso - tutti i particolari riguardanti il denaro e i segnali: dove si trovava il plico, che cosa c'era scritto esattamente, con che cosa era avvolto e soprattutto, soprattutto gli riferisce quei "segnali" con i quali si può accedere alle stanze del padrone. Perché lo fa? Per tradirsi con le sue mani? Oppure per trovarsi un rivale che, guarda caso, è proprio il primo a voler entrare a prendersi il plico? Mi diranno che egli riferì ogni cosa per paura. Ma allora come me lo spiegate? Un uomo che è in grado di concepire e poi eseguire un piano così spietato e bestiale si metterebbe a divulgare informazioni di una tale importanza, che conosce lui solo in tutto il mondo e che se solo avesse tenuto nascoste, nessuno al mondo avrebbe mai immaginato? No, per quanto codardo potesse essere, se avesse davvero concepito un piano del genere, per nulla al mondo avrebbe parlato con qualcuno, per lo meno riguardo a quel plico e ai segnali, perché questo equivaleva a tradirsi. Avrebbe inventato qualcosa di proposito, avrebbe mentito, se avessero preteso informazioni da lui, ma su questo avrebbe tenuto la bocca chiusa! Al contrario, lo ripeto: se solo avesse taciuto a proposito di quei soldi e poi avesse ucciso e se ne fosse impossessato, nessuno al mondo avrebbe potuto accusarlo, se non altro, di omicidio a scopo di rapina, giacché nessuno, eccetto lui, aveva visto quei soldi e nessuno, eccetto lui, era a conoscenza che si trovassero in casa. E pure se lo avessero accusato, allora sarebbero senz'altro giunti alla conclusione che egli avesse ammazzato per qualche altro motivo. Ma dal momento che, in passato, nessuno ha notato in lui alcun motivo che potesse spingerlo a tanto; al contrario, tutti hanno visto che egli era amato dal padrone, onorato della sua fiducia, egli, certamente, sarebbe stato l'ultimo ad essere sospettato, mentre avrebbero sospettato, prima di tutto, colui che quei motivi li aveva, chi aveva gridato ai quattro venti di averli, colui che non ne aveva mai fatto mistero, ma piuttosto li aveva sbandierati, insomma avrebbero sospettato del figlio della vittima, di Dmitrij Fëdoroviè. Se Smerdjakov avesse ucciso e derubato e invece avessero incolpato il figlio, allora lo Smerdjakov assassino ne avrebbe tratto vantaggio, non è vero? Eppure, dopo aver concepito il delitto, è andato a raccontare proprio al figlio, proprio a Dmitrij Fëdoroviè, del denaro, del plico, dei segnali, è logico tutto questo? È ammissibile? 

IL GIORNO FATALE

 Arriva il giorno dell'omicidio progettato da Smerdjakov ed ecco che quello precipita giù per le scale, in un attacco simulato di epilessia: a che scopo? In primo luogo, certo, perché il servitore Grigorij, che aveva intenzione di prendere la sua medicina, vedendo che non rimaneva assolutamente nessuno a sorvegliare la casa, presumibilmente rimandasse l'assunzione della medicina stessa e si mettesse di guardia. In secondo luogo, sicuramente, affinché il padrone, vedendo che non c'era nessuno di guardia, con la paura che aveva che arrivasse suo figlio, - della qual cosa non faceva mistero - potesse raddoppiare la vigilanza e la cautela. Infine, e soprattutto, affinché egli stesso, Smerdjakov, prostrato dall'attacco, fosse immediatamente trasportato dalla cucina, dove dormiva sempre, separato dagli altri, e dove aveva possibilità di entrare e uscire liberamente, all'altro capo della dipendenza, nella camera di Grigorij, dietro il tramezzo che lo separava dai due servitori, a tre passi dal loro letto, come si faceva sempre, da tempi immemorabili, non appena gli veniva un attacco, secondo le disposizioni del padrone e della caritatevole Marfa Ignat'evna. Lì, coricato dietro il tramezzo, egli, molto probabilmente, per meglio simulare la malattia, avrebbe naturalmente cominciato a gemere, quindi a tenerli svegli la notte intera (come in effetti era avvenuto secondo la testimonianza di Grigorij e di sua moglie), e tutto questo, tutto questo allo scopo di potersi alzare più comodamente per andare a uccidere il padrone! Ma mi potranno dire che egli ha simulato proprio per stornare i sospetti da sé, in quanto malato, e ha informato l'imputato del denaro e dei segnali proprio perché quello ne fosse allettato e si recasse sul posto, uccidesse e, dopo aver ucciso, capite, se la filasse con i soldi e, nel fuggire via, facesse un sacco di rumori e trambusto e svegliasse testimoni, in maniera tale che lui, Smerdjakov, immaginate un po', si potesse alzare per andare, ma... ma per andare a far che? A uccidere una seconda volta il padrone per sottrargli una seconda volta il denaro già sottrattogli. 

Signori, voi ridete? Anch'io mi vergogno ad avanzare simili supposizioni, eppure, figuratevi che l'imputato afferma proprio questo, dice: "Dopo di me, cioè dopo che ho lasciato la casa, ho abbattuto Grigorij e ho sollevato un gran trambusto, lui si è alzato ed è andato a uccidere e derubare il padrone". E non voglio nemmeno parlare di come fosse possibile che Smerdjakov calcolasse tutto questo in anticipo e sapesse tutto per filo e per segno, e cioè che il figlio furioso ed esasperato sarebbe venuto soltanto allo scopo di dare una rispettosa occhiatina dalla finestra e, pur conoscendo i segnali, battesse la ritirata lasciando a lui, a Smerdjakov, tutto il bottino! Signori, vi pongo questa domanda in tutta serietà: in quale momento Smerdjakov avrebbe potuto commettere il suo delitto? Indicatemi il momento esatto, altrimenti, senza di esso, è impossibile fondare l'accusa. Oppure, forse, l'epilessia era vera. Il malato si riprese all'improvviso, udì le grida e uscì; e poi? Si guardò intorno e si disse: perché non andare ad ammazzare il padrone? E come faceva a sapere che cosa stava accadendo, visto che fino a quel momento era stato a letto privo di conoscenza? E poi, signori miei, c'è un limite anche ai voli di fantasia. "Proprio così", diranno i più furbi, "ma se i due fossero stati d'accordo? Se avessero ucciso di comune accordo per poi dividersi i soldini? Che ne dite allora?" Sì, è un sospetto che ha una certa consistenza, e, in primo luogo, esistono indizi colossali che lo confermano immediatamente: uno uccide e si prende tutto il fastidio, mentre il complice se ne sta sdraiato su un fianco e simula un attacco di epilessia, proprio allo scopo di suscitare anzitempo in tutti il sospetto, di allarmare il padrone e di allarmare Grigorij. Sarebbe curioso conoscere i motivi che hanno spinto i due complici a congegnare un piano così folle! O forse la complicità da parte di Smerdjakov era tutt'altro che attiva, ma si trattava, per così dire, di passiva acquiescenza? Forse Smerdjakov, terrorizzato, aveva acconsentito solo a non opporre resistenza all'omicidio e, prevedendo che lo avrebbero incolpato di aver lasciato uccidere il padrone senza dare l'allarme né opporsi, egli potrebbe aver ottenuto da Dmitrij Karamazov il permesso di giacere a letto, simulando un attacco di epilessia, come a dire "mentre tu lo uccidi come ti pare e piace, io me ne lavo le mani". Ma anche se fosse stato così, ancora una volta, quell'attacco di epilessia avrebbe messo in subbuglio la casa e, prevedendo questo, Dmitrij Karamazov non avrebbe mai acconsentito a un tale accordo. Comunque ammettiamo pure che abbia acconsentito, ma così risulterebbe ancora una volta che Dmitrij Karamazov è l'assassino, l'esecutore materiale e l'istigatore, mentre Smerdjakov solo un complice passivo, anzi nemmeno un complice, ma solo un connivente, costretto dalla paura e contro la sua volontà - la corte sarebbe senz'altro giunta a questa conclusione. E invece noi a cosa assistiamo? Non appena viene arrestato, l'imputato in un attimo scarica tutta la colpa solo su Smerdjakov, accusando lui solo. Non lo accusa di essere stato suo complice, ma di aver fatto tutto lui: dice che aveva fatto tutto da solo, aveva ucciso e derubato, era tutta opera sua! Strano tipo di complici quelli che cominciano ad accusarsi a vicenda dal primo momento, questo non capita mai. E pensate al rischio che corre Karamazov: egli è l'assassino principale, quell'altro non è l'assassino principale, quello è solo il connivente che se ne stava sdraiato dietro il tramezzo, ed ecco che lui scarica tutta la colpa sull'invalido. Ma questi, l'invalido, poteva prendersela a male e, mosso unicamente dall'istinto di conservazione, poteva confessare in quattro e quattr'otto la sacrosanta verità: "Abbiamo partecipato tutti e due", avrebbe detto, "solo che io non ho ucciso, ho solamente acconsentito e lasciato che uccidesse, per paura". Infatti, lui, Smerdjakov, era in grado di comprendere che la corte avrebbe subito individuato il suo grado di colpevolezza e dunque poteva contare sul fatto che se avessero punito anche lui, la sua punizione sarebbe stata incomparabilmente inferiore a quella dell'omicida principale, il quale, invece, aveva tentato di gettare tutta la colpa su di lui. Ma in questo caso, anche se controvoglia, avrebbe confessato. Eppure questo non è accaduto. Smerdjakov non ha nemmeno accennato a una loro complicità, malgrado l'assassino lo accusasse pesantemente e non facesse che indicare lui come l'unico omicida. 

E non basta: durante l'istruttoria preliminare Smerdjakov ha dichiarato spontaneamente di essere stato lui stesso a rivelare i segnali all'imputato, e che senza le sue informazioni quello non avrebbe saputo nulla. Se egli fosse stato davvero complice e colpevole, avrebbe rivelato una tale notizia con tanta leggerezza agli inquirenti, avrebbe detto di essere stato lui a passare tutte le informazioni all'imputato? Al contrario, avrebbe cercato di negare, di distorcere i fatti e di minimizzarli. Eppure lui non li ha distorti né minimizzati. In questo modo si comportano solo gli innocenti che non hanno paura di essere accusati di complicità. Ed ecco che in un attacco di melancolia, causato dalla sua malattia, e dallo scoppio di tutta questa catastrofe, ieri si è impiccato. 

IL BIGLIETTO DEL SUICIDIO

Prima di impiccarsi ha lasciato un biglietto, scritto con il suo peculiare modo di esprimersi: "Distruggo la mia vita per mio desiderio e volontà, per non accusare nessuno". 

Che cosa gli costava aggiungere: "l'assassino sono io, non Karamazov"? Ma lui non l'ha aggiunto: la coscienza gli è bastata per una cosa e non per l'altra? E ancora: poco fa in quest'aula è stato portato il denaro, quei tremila rubli, "gli stessi che si trovavano in quel plico lì sul tavolo delle prove materiali, li ho ricevuti ieri da Smerdjakov", è stato detto. Ma voi, signori giurati, ricordate da soli il triste spettacolo di poco fa. Non starò qui a rievocare i particolari, ma mi permetterò di fare due o tre commenti scegliendoli tra i meno evidenti, proprio perché sono meno evidenti e, quindi, non verranno in mente a tutti e saranno dimenticati. In primo luogo, e ancora una volta, diremo che Smerdjakov, ieri, ha restituito i soldi e si è impiccato in preda ai rimorsi di coscienza. (Infatti se non avesse avuto rimorsi di coscienza egli non avrebbe restituito i soldi). E, ovviamente, soltanto ieri sera, per la prima volta, ha confessato il suo crimine a Ivan Karamazov, come ha dichiarato Ivan Karamazov in persona: altrimenti, per quale motivo questi avrebbe taciuto fino ad ora? E così ha confessato; ma perché mai, mi domando un'altra volta, non ha dichiarato la verità a noi tutti nel bigliettino scritto in punto di morte, sapendo che l'indomani l'imputato innocente avrebbe dovuto affrontare questo terribile processo? Quel denaro non è una prova sufficiente. A me, per esempio, e a un paio di altre persone presenti in questa sala, è capitato del tutto casualmente di venire a sapere, solo una settimana fa, di un certo fatto, e cioè che Ivan Fëdoroviè Karamazov ha mandato a cambiare nella capitale del distretto due titoli al cinque per cento di cinquemila rubli ciascuno, per la somma totale di diecimila rubli. Voglio soltanto dire che chiunque può trovarsi in possesso di denaro a una certa scadenza e che portando tremila rubli in aula non è in alcun modo possibile dimostrare che si tratti degli stessi soldi che provengono da quello stesso cassetto o plico. Infine, Ivan Karamazov, dopo aver ricevuto ieri una notizia di una tale importanza dal vero assassino, è rimasto tranquillo, per conto suo. Perché non l'ha riferita subito? Perché ha rimandato tutto a stamane? 

LA VERSIONE DI IVAN

Credo di avere il diritto di fare delle congetture sui possibili motivi: è già una settimana che la sua salute è sconvolta: ha ammesso egli stesso al dottore, e alle persone che gli sono più vicine, che soffre di allucinazioni, che incontra persone già morte; alla vigilia dell'attacco di febbre cerebrale, che lo ha colto proprio oggi, egli, dopo aver appreso all'improvviso della fine di Smerdjakov, avrà fatto su due piedi questa considerazione: "Quello è morto, si può dire su di lui quello che si vuole, così salverò mio fratello. Il denaro ce l'ho: ne prendo un mazzetto e vado a dire che Smerdjakov me li ha dati in punto di morte". Voi direte che non è onesto; ma è forse disonesto mentire, sia pure su un morto, se così facendo si salva un fratello? Ma che ne direste se avesse mentito inconsciamente, se egli stesso avesse immaginato che fosse andata così, sconvolto definitivamente dalla notizia della morte improvvisa del lacchè? Avete visto la scena di poc'anzi, avete visto in quali condizioni si trovasse quell'uomo. Egli era là, in piedi e parlava, ma dov'era il suo cervello? 

KATIA

Dopo la sua febbricitante testimonianza, è venuto fuori quel documento, la lettera dell'imputato indirizzata alla signorina Verchovceva, scritta a due giorni dal delitto, e contenente il piano dettagliato dell'omicidio. Allora a che pro cercare altri piani e altri autori? È andata esattamente secondo quel programma e l'esecutore non è stato altri che l'autore stesso di quel piano. Sì, signori giurati, "è andato tutto secondo quanto era scritto"! Oh, no, non siamo fuggiti via rispettosi e impauriti dalla finestrella di nostro padre, sebbene fossimo fermamente convinti che presso di lui si trovasse la nostra innamorata. No, questo sarebbe assurdo e inverosimile. Egli entrò e... portò a termine la missione. Con ogni probabilità egli uccise in uno stato d'ira, bruciando di risentimento, subito dopo aver dato un'occhiata al suo odiato rivale, ma dopo averlo ucciso - il che presumibilmente gli riuscì di botto, con un solo colpo della mano armata dal pestello di ottone - ed essersi accertato, dopo un'accurata perquisizione, che ella non fosse lì, egli non mancò di infilare la mano sotto il cuscino e di prendere la busta con i soldi che ora, lacerata, giace sul tavolo, insieme alle altre prove materiali. Dico questo affinché voi ricordiate una circostanza, a mio parere, oltremodo caratteristica. Se egli fosse stato un assassino professionista e avesse commesso il crimine a solo scopo di rapina, credete che avrebbe lasciato la busta sul pavimento così com'è stata ritrovata, accanto al cadavere? Ecco: per esempio, se fosse stato Smerdjakov a uccidere a scopo di rapina, egli si sarebbe semplicemente portato via il plico, senza indugiare a dissigillarlo presso il cadavere della sua vittima, dal momento che egli sapeva per certo che nel plico c'era il denaro - il padrone lo aveva infilato e sigillato davanti a lui; e se avesse portato via il plico così com'era, certo non si sarebbe mai saputo che quel furto fosse stato commesso. Io vi domando, signori giurati, Smerdjakov avrebbe agito in quel modo? 

LA BUSTA SUL PAVIMENTO

Avrebbe lasciato la busta sul pavimento? No, così avrebbe potuto agire solo un assassino furioso, che non era più in grado di ragionare a dovere, un assassino che non è un ladro e che non ha mai rubato in vita sua fino a quel momento, e che pure adesso ha strappato da sotto il letto quei soldi agendo non come un ladro, ma come uno che si stia riprendendo il suo denaro da colui che glielo ha rubato; queste infatti erano le idee di Dmitrij Karamazov sui quei tremila rubli, che erano diventati una mania per lui. Ed ecco che, afferrato quel plico che non aveva mai visto in vita sua, egli ne lacera l'involucro per accertarsi che ci siano i soldi, poi scappa con i soldi in tasca, senza pensare che stava lasciando sul pavimento la prova più colossale della propria colpevolezza sotto forma di una busta lacerata. E tutto questo perché era Karamazov, non Smerdjakov: ecco perché non ci aveva pensato, non aveva immaginato, e del resto, come avrebbe potuto? Egli fugge, sente le grida del servo che lo rincorre, il servo lo afferra, lo blocca e cade colpito dal pestello di ottone. L'imputato salta giù, verso di lui, mosso da compassione. Pensate: egli, di punto in bianco, ci viene a dire che allora saltò per pietà, per compassione, per vedere se poteva essergli d'aiuto. Ma era forse il momento adatto per dare prova di una simile compassione? Certo che no: egli saltò giù proprio per accertarsi se fosse vivo l'unico testimone del suo misfatto. Qualunque altro sentimento, qualunque altro motivo sarebbe stato innaturale! Notate: egli si dà da fare presso Grigorij, gli asciuga la testa con il fazzoletto e, una volta assicuratosi che è morto, come un pazzo e tutto insanguinato, arriva di corsa un'altra volta là, a casa dell'innamorata - come ha fatto a non pensare che era tutto sporco di sangue e che lo avrebbero sicuramente notato? Ma l'imputato ci assicura che egli non prestò nemmeno attenzione al fatto di essere tutto insanguinato. Questo è ammissibile, è molto probabile, avviene sempre agli assassini in casi simili. Per alcune cose sono diabolicamente calcolatori; ad altre, invece, non arrivano a pensare. Ma in quel momento egli pensava soltanto a dove fosse lei. Gli occorreva sapere al più presto dove fosse lei ed ecco che egli giunge di corsa all'appartamento della donna e apprende una notizia sorprendente, colossale per lui: è partita per Mokroe con il suo amato "di prima", l'"inconfutabile"!»

martedì 19 ottobre 2021

REPORTAGE 1969 KATIA E IVAN DALLA CHOCHLAKOVA

 













TRATTORIE: "LA CAPITALE", IN PIAZZA

 "LA CAPITALE"


LIBRO QUINTO - CAPITOLI 2,3 - PRANZO FRA IVAN E ALEKSEI (SECONDO GIORNO)





LIBRO DODICESIMO - SECONDA TESTIMONIANZA DI KATIA - LA LETTERA DI MITJA




IL PRIMO GIORNO

La carta che aveva consegnato era la lettera che Mitja le aveva spedito dalla trattoria "La capitale" e che Ivan Fëdoroviè chiamava documento di valore "matematico". 

Ahimè! Anche gli altri, come lui, ne riconobbero il valore matematico e se non fosse stato per quella lettera, forse Mitja non sarebbe stato rovinato o, per lo meno, non sarebbe stato rovinato in maniera così terribile! Lo ripeto: era difficile prendere nota di ogni dettaglio. Ancora adesso mi sembra tutto così confuso. Credo che il presidente passò quel nuovo documento alla corte, al procuratore, al difensore e ai giurati. Ricordo soltanto che iniziarono ad interrogare la teste. 

Alla domanda se si fosse calmata, che le rivolse dolcemente il presidente, Katerina Ivanovna esclamò impetuosamente: 

 «Sono pronta, sono pronta! Sono perfettamente in grado di rispondere», soggiunse, temendo, evidentemente più di ogni altra cosa, che per qualche ragione non le prestassero ascolto. 

Le chiesero di spiegarsi con maggiori dettagli: che cos'era quella lettera e in quali circostanze l'aveva ricevuta? 

 «La ricevetti alla vigilia del delitto, ma lui l'aveva scritta il giorno prima in trattoria, dunque due giorni prima di compiere il delitto: guardate, è scritta sul foglio di un conto!», gridò lei con il fiato corto.

 .... due giorni prima di uccidere suo padre, mi scrisse quella lettera, la scrisse da ubriaco, quando la vidi capii subito che l'aveva scritta per rabbia e convinto, convintissimo che non l'avrei mostrata a nessuno neanche se egli avesse ucciso. Altrimenti non l'avrebbe mai scritta! Sapeva che non avrei desiderato vendicarmi e che non lo avrei rovinato! Ma leggete, leggete con attenzione, per favore, leggete con maggiore attenzione e vedrete che nella lettera ha descritto tutto in anticipo: come avrebbe ammazzato il padre e dove quello teneva i soldi. Guardate, per favore, non lasciatevi sfuggire nulla, c'è una frase: 

Ucciderò purché Ivan se ne sia andato".