lunedì 23 agosto 2021

GLI ESTERNI


 I FRATELLI KARAMAZOV è per lo più raccontato in interni: gente che dialoga in salotti, trattorie, celle di monasteri, stanze di case private. 

I dialoghi, le descrizioni psicologiche e le analisi dei sentimenti, le discussioni sulle idee, prevalgono nettamente sulle descrizioni di paesaggi.

Poi ci sono gli spostamenti dei personaggi per le strade della città per raggiungere una casa o l'altra.D. è preciso ed attento a riferircele che in base ad essi quasi possiamo disegnare la mappa della città.

Osservare il paesaggio o il cielo capita raramente ai personaggi e quando avviene sono parentesi di riflessione,  momenti di meditazione, un sottrarsi per un attimo agli accadimenti e attingere alle emozioni più profonde.


Nei primi tre giorni il lettore si immedesima di volta in volta con i protagonisti che a turno sono in scena:

LIBRO SECONDO

PRIMO GIORNO

*Era una magnifica giornata, mite e luminosa. Si era alla fine di agosto.

«Guardate in che valle di rose vivono costoro!» E difatti, anche se non c'erano rose in quel momento, vi fiorivano una miriade di rari e stupendi fiori autunnali dappertutto, dovunque vi fosse un po' di spazio per piantarli. Evidentemente li curava una mano esperta. C'erano aiuole intorno alle chiese e tra le tombe. Anche la casetta di legno, ad un piano, con un portico davanti all'ingresso, nella quale si trovava la cella dello starec, era circondata da fiori.

TEMPO E SPAZIO





http://cosimocampagna.it/2015/06/12/il-naufragio-del-se-terza-e-ultima-parte/ 


In Dostoevskij il paesaggio è quasi immerso nel buio o comunque nella luce crepuscolare e lo scrittore sembra evocarlo solo quando questo prelude ad una svolta inquietante nella storia dei suoi personaggi.


La percezione del paesaggio in Dostoevskij prescinde decisamente da ogni meccanismo fisico, è a tratti allucinatoria ovvero il prodotto di un processo esclusivamente psichico.  Il paesaggio non ha consistenza al di fuori delle vicende dei personaggi, non prescinde mai dall’umore di essi.


http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/3813/810995-1165627.pdf?sequence=2

Anche lo spazio e il tempo vengono “spiritualizzati”. 

Per quanto riguarda lo spazio nei romanzi dostoevskiani manca la natura: 

 I suoi paesaggi non sono la distesa verde dei prati, la messe biondeggiante dei campi, la misteriosa oscurità dei boschi, l’ampia e lenta corrente dei fiumi, ma sono luoghi riferiti all’uomo, spazi interiori e spirituali, intimità dense di presenze umane, casse di risonanza di drammi interiori e di segrete tragedie. Dostoevskij non è insensibile alla terra russa, al punto da raffigurarla baciata da Raskol’nikov in procinto di redimersi, e da Alëša quando inizia il suo itinerario nel mondo: ma la terra russa non è per lui né un luogo 

 225 Ibidem. 226 Ivi, cit., pp. 13-14. 227 Ivi, cit., p. 14. 228 Ibidem. 65 

geografico né un paesaggio naturale, ma un suolo carico di memorie umane e una sostanza mistica densa di spiritualità229 . Il paesaggio di Dostoevskij è un paesaggio spirituale: “il suo cosmo non è il mondo ma solo l’uomo”230. 

Anche Stefan Zweig sottolinea come nei romanzi dostoevskiani manca il “riposo” offerto dalla natura: “manca quel prezioso granello di panteismo che rende tanto benefiche, tanto liberatrici le opere tedesche e quelle elleniche”231 .  Le opere di Dostoevskij si svolgono tutte in stanze mal arieggiate, in strade grigie di fumo, in bettole torbide, c’è sempre una greve aria umana, troppo umana che non viene agitata e purificata dal vento dei cieli e dall’imperversare delle stagioni. […] Manca loro il riposo dall’umanità, quella benefica rilassatezza dei nervi, la migliore per l’uomo quando distoglie lo sguardo da se stesso e dalle proprie pene per posarlo sull’insensibile e impassibile universo. […] La sua sfera è il mondo dell’anima, non la natura, il suo mondo è solo l’umanità232 . 229 Ibidem. 230 S. ZWEIG, Dostoevskij, cit., p. 70. 231 Ibidiem. 

Zweig sottolinea come nessun termine di confronto è troppo grande per l’opera di Dostoevskij, che può essere confrontata “con ciò che vi è di eterno e di eccelso nella letteratura mondiale”. Secondo Zweig 

“la tragedia dei Karamazov non è inferiore alle vicende di Oreste, all’epica di Omero, alla linea sublime dell’opera di Goethe. Anzi, queste opere sono tutte più semplici, più piane, meno ricche di conoscenze, meno gravide di avvenire di quelle di Dostoevskij. Sono però in qualche modo più blande e più gentili per l’anima, danno un senso di liberazione del sentimento, mentre Dostoevskij non dà che la conoscenza. Io credo che quella liberazione, quel senso di riposo, lo debbano al fatto di non essere tanto umane, tanto esclusivamente umane. Hanno attorno a sé una cornice sacra di cielo radioso, di mondo, un alito di prati e campi, un lembo di firmamento dove il sentimento spaurito si rifugia e si riposa. In Omero, in mezzo alle battaglie, alla più sanguinosa mischia degli uomini, c’è qualche rigo di descrizione e si respira la salsedine del mare; l’argentina luce della Grecia brilla sopra la carneficina; il sentimento nostro lieto riconosce che la tonante battaglia degli uomini non è che una piccola meschina illusione di fronte all’eternità delle cose. E si respira, ci si sente liberati dalla torbida umanità. Anche Faust ha la sua domenica di Pasqua, getta via il proprio tormento nella natura selvaggia, lancia il suo giubilo nella primavera del mondo. In tutte queste opere la natura ci libera dal mondo degli uomini. 

A Dostoevskij invece manca il paesaggio, manca il riposo” (Ivi, cit., pp. 69-70). 232 Ivi, cit., pp. 70-71. 66 

Il paesaggio in Dostoevskij non è inesistente, semplicemente non viene mai descritto di per se stesso, ma è indicato e sottolineato nella misura in cui può spiegare l’azione: “il paesaggio è schizzato quale è sentito dal personaggio del romanzo”233 . 

 Ciò vale anche per la città, memorabile è la sua descrizione di Pietroburgo “città irreale ed incerta, con i suoi palazzi avvolti dalla nebbia d’autunno, con le sue allucinanti notti bianche”234, ma la città è solamente “l’atmosfera dell’uomo”, “un momento del suo tragico destino”: “la città è impregnata dall’uomo, ma non ha un’esistenza autonoma, è solo lo sfondo”235 . 


 Come dimenticare l’inizio di Delitto e castigo, romanzo che si apre evocando 

 “una giornata straordinariamente calda del principio di luglio”236, in un quartiere popolare della capitale: Nella strada faceva un caldo tremendo, afoso, per di più c’era ressa, calcina, legname, mattoni, polvere da tutte le parti, e quello speciale lezzo estivo, noto ad ogni pietroburghese che non abbia la possibilità d’andare in villeggiatura: quest’insieme di cose scosse in modo sgradevole i nervi del giovane, che erano già abbastanza sconcertati. L’insopportabile puzzo delle bettole, che in quella parte della città erano straordinariamente numerose, gli ubriachi che gli capitavano continuamente fra i piedi, benché fosse giorno di lavoro, davano una tinta ancora più ripugnante e malinconica a quel quadro. Un senso di profondo disgusto balenò per un attimo nel volto delicato del giovane237 .

 Dostoevskij sembra tuttavia preferire “gli spazi angusti e affollati”: camerette, studioli, soffitte, cantine, in cui questi personaggi vivono, si muovono e conversano tra loro “mescolando i loro destini e congiungendo i loro drammi”238. Per restare a Delitto e castigo basti pensare alla “stanzetta” presa in subaffitto, nella quale viveva 233 P. PASCAL, Dostoevskij: l’uomo e l’opera, cit., p. 314. 234 L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., 14. 235 N. BERDJAEV, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 28. 236 F. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, cit., p. 19. 237 Ivi, cit., p. 20. 238 L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., pp. 14-15. 

Pareyson nota come nei romanzi dostoevskiani non manchino “le dimore residenziali, i palazzi signorili, le stanze lussuose”, smentendo in questo modo “l’interpretazione populista e socialisteggiante che fa di lui un sostenitore delle capanne e della povera gente”. Eppure, il lettore sembra non prestarvi attenzione, poiché anche lì l’azione si svolge in una stanza, dove i diversi personaggi confluiscono, ciascuno portando “il suo destino e il suo dramma” (Ibidem). 67 Raskol’nikov, la quale “rassomigliava piuttosto a un armadio che a un’abitazione”239 . Si trattava di un vero e proprio “bugigattolo”240. Per non parlare dello “studio buio e freddo” di Rogožin, con la copia del Cristo morto di Holbein alla parete, “l’oscuro e opprimente albergo” in cui Myškin incontra gli occhi ardenti di Rogožin, “la tragica camera”, nella quale Kirillov s’impicca dietro la porta, “la soffitta, ultima dopo una fuga di scale” in cui si uccide Stavrogin, 

“il sudicio e affollatissimo ambiente”, nel quale vive l’intera famiglia di Iljuša241 . 

 Gli spazi dostoevskiani sono “intimi, spirituali, umani, e simbolo di ciò è la loro angustia, che li rende sempre stipati ed affollati”242. 

Per Dostoevskij “il mondo esteriore e fisico è veramente reale, e perciò visibile, solo quando un’anima umana ne fa il luogo della sua sofferenza e della sua disperazione”243 . 

 Se lo spazio nei romanzi dostoevskiani “è sempre affollato”, 

il tempo “è sempre affrettato”244: 

 In Dostoevskij tutto si svolge con un ritmo espressamente e intenzionalmente accelerato, in modo assai più rapido del tempo normale dei nostri orologi. […] tutto si muove con una cadenza veloce e vorticosa, con un ritmo inesorabile e implacabile, in una successione foltissima di avvenimenti esteriori e interiori. Gli eventi precipitano, le conseguenze incalzano, le conclusioni incombono. 

In nessun altro romanziere le ore e i giorni sono così pieni come in Dostoevskij: ogni giorno è un’epoca intera, ogni ora è un groppo di eventi, ogni minuto è gravido di destino245 . 239 F. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, cit., p. 19. 240 Ibidem. 

Potremmo ricordare anche la vecchia casa grigia dal tetto rosso, piena di “insospettati ripostigli, bugigattoli svariati e insospettate scale” dei Fratelli Karamazov (I. SIBALDI, Introduzione, in I fratelli Karamazov, cit., p. V). 241 L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 15. 242 Ibidem. 243 Ibidem. 244 Ibidem. 245 Ivi, cit., pp. 15-16. 

Pareyson sottolinea come a parte alcuni intervalli di tempo, che sono del resto “insignificanti e non valutabili nella loro durata oggettiva”, le vicende dell’Idiota si svolgono in soli nove giorni, 

mentre nei Fratelli Karamazov le complicatissime vicende ricche di eventi decisivi per il destino di numerose persone, “non richiedono che sette giorni”. (Ibidem). 68 

Di conseguenza, nelle opere dostoevskiane lo spazio ed il tempo sono ben diversi da quelli reali e fisici, sono “spazi e tempi spirituali: luoghi di dolore e di tragedia, minuti decisivi per un intero destino”246 . 

 Abbiamo già sottolineato con Bachtin, quanto sia l’autocoscienza del personaggio, nonché l’interazione con gli altri personaggi, l’elemento decisivo nelle opere dostoevskiane, perciò l’intera realtà diventa elemento di questa autocoscienza247. Questi personaggi dostoevskiani, per quanto “fisicamente vestiti, socialmente collocati, ambientati in uno spazio e in un tempo”, tuttavia “vivono in una nudità spirituale e in una realtà superiore”248 . A questo punto non possiamo che chiederci: “Che cosa ‘fanno’ questi uomini che non ‘fanno’ mai niente, ma ‘vivono’ intensamente e non fanno che ‘parlare’ dell’esperienza che hanno vissuto?”249 . La risposta, secondo Pareyson, viene da Berdjaev: i personaggi dostoevskiani “fanno dell’antropologia cristiana, meditano sulla tragedia dell’uomo, sciolgono l’enigma del mondo”250: 

 Dostoevskij ha avuto solo un pensiero dominante, solo un problema a cui ha dedicato tutti i suoi sforzi creativi. Questo problema è l’uomo e il suo destino. Non si può condannare l’eccezionale antropologismo e antropocentrismo di Dostoevskij. 

Nella sua ossessione per l’uomo vi è qualcosa di furioso ed eccezionale. L’uomo per lui non è un fenomeno del mondo naturale, non è un fenomeno fra gli altri, sia pure il supremo. L’uomo è un microcosmo, il centro dell’essere, un sole intorno a cui tutto gira. Ogni cosa è nell’uomo e per l’uomo, in lui è il mistero della vita universale. Risolvere il problema dell’uomo significa risolvere il problema di Dio. Tutta l’opera di Dostoevskij è una difesa dell’uomo e del suo destino, spinta sino all’empietà, ma che si risolve col confidare il destino dell’uomo al Dio-uomo, Cristo. […]. L’antropologismo di Dostoevskij è profondamente cristiano, e tale atteggiamento verso l’uomo fa di lui uno scrittore cristiano251 . 246 Ibidem. [c.n.] 247 Vedi p. 28. 248 L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 16. 249 Ibidem. Pareyson rileva come i personaggi dostoevskiani “non fanno mai niente nel senso proprio del termine”: “non hanno occupazioni, non hanno impegni, non hanno un lavoro, ma vanno e vengono, s’incontrano e s’incrociano, non cessano mai di parlare, e soprattutto vivono esperienze importanti e decisive” (Ibidem). 250 Ibidem. 251 N. BERDJAEV, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 27.


sabato 21 agosto 2021

LA MATTINA DEL QUARTO GIORNO






 «Posso dare un'occhiata fuori dalla finestra?», domandò a bruciapelo rivolto a Nikolaj Parfenoviè. «Fate pure», replicò quello. Mitja si alzò e si accostò alla finestra. La pioggia sferzava i piccoli vetri verdognoli delle finestre. Di sotto si intravedeva la strada fangosa e più in là, attraverso la foschia della pioggia, le file di misere, cadenti izbe annerite, che nella pioggia sembravano ancora più misere e annerite. Mitja si ricordò di "Febo dai riccioli d'oro" e di come aveva progettato di spararsi al suo primo raggio. "Forse con una mattinata così sarebbe stato anche meglio", ridacchiò all'improvviso



PORTANO VIA MITJA


La pioggia era cessata, ma il cielo grigio era ancora coperto di nuvole, un vento tagliente soffiava dritto in faccia. "Che saranno questi brividi che mi prendono?", si domandò Mitja stringendo le spalle. 

CACCIA AL LUPO


 


«Non è questione di sogni adesso! È la vita reale questa, signori, la vita reale! Io sono il lupo e voi i cacciatori, allora abbattete questo lupo».

i testimoni

 VIII • Le deposizioni dei testimoni. La "creatura" 


 L'interrogatorio dei testimoni ebbe inizio. Ma non porteremo avanti il nostro racconto nella maniera dettagliata in cui l'abbiamo condotto sino a questo momento. Quindi non ci soffermeremo a descrivere il modo in cui Nikolaj Parfenoviè ammoniva ciascun testimone convocato a rendere la propria deposizione secondo verità e coscienza, avvertendo che avrebbe dovuto ripetere quella stessa deposizione in seguito sotto giuramento. Ad ogni testimone, alla fine, si richiedeva di firmare il verbale della propria deposizione, e così via. Noteremo soltanto che il punto principale, sul quale si concentrava tutta l'attenzione degli inquirenti, era proprio la questione dei tremila rubli e, più esattamente: erano tremila o millecinquecento la prima volta, cioè durante la prima baldoria di Dmitrij Fëdoroviè lì a Mokroe, un mese addietro? Erano tremila o millecinquecento il giorno prima, cioè al secondo festino di Dmitrij Fëdoroviè? Ahimè, tutte le testimonianze, tutte, nessuna esclusa, risultarono contro Mitja, neanche una a suo favore, mentre alcuni testimoni introdussero persino nuovi elementi, addirittura schiaccianti, che contraddicevano la deposizione di lui


 Trifon Borisyè

Il primo ad essere interrogato fu Trifon Borisyè. Egli si presentò davanti ai giudici senza il minimo timore: al contrario, con un'aria di rigida e severa indignazione contro l'imputato, che gli conferì indubbiamente un'aria di estrema affidabilità e dignità. Parlava poco, con riserbo, aspettava che gli venissero poste le domande, rispondeva con precisione e ponderatezza. Dichiarò con fermezza, e senza la minima esitazione, che un mese addietro la somma spesa non poteva essere stata inferiore ai tremila rubli, che tutti i contadini del luogo avrebbero confermato di aver sentito parlare di tremila rubli dallo stesso "Mitrij Fëdoryè": «Solo con le zigane gettò via un mucchio di soldi. Oserei dire che ne buttò via un migliaio solo per loro». «Ma se non erano neppure cinquecento rubli», osservò a questo proposito Mitja con aria cupa, «solo che allora non li contai, ero ubriaco, peccato...» Questa volta Mitja era seduto di lato, con la schiena alla tenda, ascoltava incupito, aveva un'aria afflitta e stanca come se volesse dire: "Oh, dite quello che volete, a questo punto fa lo stesso!" «Se ne andarono più di mille rubli solo per loro, Mitrij Fëdoroviè», lo contraddisse duramente Trifon Borisyè, «li buttavate a caso e loro li pigliavano al volo. Quella gente è una massa di ladri e truffatori, ladri di cavalli sono, li hanno cacciati di qui, se no pure loro forse testimoniavano quanti soldi vi hanno spillato. Con questi miei occhi vi vidi in mano allora quella somma - contarla, non la contai, certo non me lo permetteste, questo è vero - ma ad occhio e croce ricordo che erano molti di più di millecinquecento rubli. Altro che millecinquecento! Ne ho visti di soldi in vita mia, saprò pur giudicare...» Riguardo alla somma del giorno prima, Trifon Borisyè dichiarò immediatamente che Dmitrij Fëdoroviè in persona, appena sceso dal carro, aveva annunciato di aver portato tremila rubli. «Suvvia, Trifon Borisyè», fece per protestare Mitja, «ti ho forse detto proprio di aver portato tremila rubli?» «Lo avete detto, Mitrij Fëdoroviè. Alla presenza di Andrej lo avete detto. Ecco, Andrej sta lì, non se n'è ancora andato, fatelo chiamare. E poi nel salone, quando facevate gli onori di casa con il coro, avete urlato che era il sesto migliaio di rubli che lasciavate qui - sommando i tremila dell'altra volta, intendevate dire. Hanno sentito Stepan e Semën e pure Pëtr Fomiè Kalganov era presente, forse se lo ricorda anche lui...» La testimonianza sul sesto migliaio di rubli produsse un effetto straordinario sugli inquirenti. Piacque loro questa nuova versione: tre più tre fa sei, dunque tremila l'altra volta e tremila questa fanno seimila, era chiaro.

 Interrogarono tutti i contadini nominati da Trifon Borisoviè: Stepan e Semën, il vetturino Andrej e anche Pëtr Fomiè Kalganov. I contadini e il vetturino confermarono la versione di Trifon Borisyè senza esitazioni. Inoltre verbalizzarono con particolare attenzione quello che Andrej disse a proposito della conversazione avuta con Dmitrij Fëdoroviè durante il tragitto: "Dove andrò a finire io, Dmitrij Fëdoroviè: in paradiso o all'inferno; mi perdoneranno in quell'altro mondo oppure no?". Lo "psicologo" Ippolit Kirilloviè ascoltò tutto ciò con un sorriso sottile e raccomandò infine che anche quella testimonianza sulla fine che avrebbe fatto Dmitrij Fëdoroviè fosse "messa agli atti". 

KALGANOV




 Convocarono Kalganov e questi entrò riluttante, accigliato e di cattivo umore, e si mise a parlare con il procuratore e con Nikolaj Parfenoviè come se li vedesse per la prima volta in vita sua, quando invece era un conoscente di vecchia data e un loro assiduo frequentatore. Esordì col dire che "non sapeva niente e non voleva sapere niente". Ma pareva che del sesto migliaio di rubli avesse davvero sentito parlare e ammise che in quel momento si trovava proprio accanto a Mitja. Per quello che aveva visto, i soldi che Mitja aveva in mano erano "non so quanti". Confermò decisamente che i polacchi avevano barato alle carte. Alle reiterate domande degli inquirenti, egli spiegò pure che dopo l'estromissione dei polacchi, i rapporti di Mitja e Agrafena Aleksandrovna erano decisamente migliorati e che ella stessa aveva dichiarato di amarlo. Di Agrafena Aleksandrovna parlava con discrezione e rispetto, come se si trattasse di una signora della migliore società; non si permise neanche una volta di chiamarla Grušen'ka. Nonostante l'evidente riluttanza del giovanotto a rilasciare quella deposizione, Ippolit Kirilloviè lo interrogò a lungo e soltanto da lui poté apprendere tutti i particolari che costituivano, per così dire, il "romanzo" di Mitja di quella notte. Mitja non interruppe neppure una volta Kalganov. Alla fine lo lasciarono andare e quello lasciò la stanza senza nascondere la propria indignazione. 

I POLACCHI

 Interrogarono anche i polacchi. Chiusi nella loro cameretta, anche se si erano coricati, non erano riusciti a chiudere occhio e, all'arrivo delle autorità, si erano vestiti e preparati, sapendo che sicuramente avrebbero convocato anche loro. Si presentarono con aria dignitosa, anche se leggermente impaurita. Il pan più importante, quello piccoletto, cioè, risultò essere un impiegato di dodicesimo livello in congedo: aveva prestato servizio in qualità di veterinario in Siberia e di cognome si chiamava Mussjaloviè. Invece pan Vrublevskij era un libero odontoiatra, quello che da noi si chiama un dentista. Sebbene fosse Nikolaj Parfenoviè a porre le domande, quelli, non appena furono entrati, nel rispondere alle domande cominciarono a rivolgersi a Michail Makaroviè che stava in piedi da un lato credendo, nella loro ignoranza, che fosse la persona di maggiore autorità e grado tra i presenti, chiamandolo: "pan colonnello". Solo dopo essere stati ripresi alcune volte dallo stesso Michail Makaroviè, capirono che dovevano rispondere rivolgendosi esclusivamente a Nikolaj Parfenoviè. Risultò che essi erano perfettamente in grado di parlare correttamente il russo tranne che per la pronuncia di alcune parole. Riguardo ai propri rapporti, passati e presenti, con Grušen'ka, pan Mussjaloviè si espresse con orgoglio e fervore, tanto che Mitja perse subito le staffe e gridò che non avrebbe permesso a un "mascalzone" di parlare in quel modo in sua presenza. Pan Mussjaloviè sottolineò subito la parola "mascalzone" e chiese che fosse messa agli atti. Mitja ribolliva di ira. «Mascalzone, mascalzone! Scrivetelo, scrivetelo pure e scrivete che a dispetto del protocollo io ho continuato lo stesso a urlare che è un mascalzone!», gridò. Nikolaj Parfenoviè lo mise agli atti; tuttavia, in questa spiacevole occasione, egli dette prova di grande tatto e discrezione: dopo aver severamente ammonito Mitja, egli stesso pose immediatamente fine a qualsiasi ulteriore indagine riguardante il lato romantico della faccenda e passò con solerzia al lato essenziale. Proprio in relazione al lato essenziale emerse una circostanza, dalla testimonianza dei pan, che suscitò uno straordinario interesse nei magistrati: il tentativo di corruzione perpetrato da Mitja in quella cameretta nei confronti di pan Mussjaloviè, quando gli aveva offerto tremila rubli di buonuscita, settecento rubli lì sull'unghia e i rimanenti duemilatrecento "l'indomani stesso in città"; Mitja aveva giurato che lì, a Mokroe, non aveva tanto denaro, ma che lo avrebbe preso il giorno dopo in città. Mitja tentò di ribattere, d'impeto, che non aveva detto che glieli avrebbe sicuramente dati l'indomani in città, ma pan Vrublevskij confermò la testimonianza, e lo stesso Mitja poi, ripensandoci, dovette convenire, con aria accigliata, che doveva essere andata così come avevano detto i pan, che in quel momento era davvero sovreccitato e poteva aver dichiarato una cosa del genere. Il procuratore si avventò con avidità su quella testimonianza: risultava chiaro per l'inchiesta (e giunsero dritti a quella conclusione in seguito) che metà o una parte dei tremila rubli, dei quali Mitja si trovava in possesso, poteva davvero essere nascosta da qualche parte in città, o forse da qualche parte a Mokroe; in questo modo si veniva a chiarire la circostanza, così delicata per l'inchiesta, che addosso a Mitja erano stati trovati solo ottocento rubli. Quella circostanza, sebbene isolata e di poco conto, tuttavia era stata fino a quel momento, in una certa misura, a favore di Mitja. Invece adesso avevano distrutto anche quell'unica testimonianza a suo favore. Alla domanda del procuratore: dove avrebbe preso i rimanenti duemilatrecento rubli da consegnare l'indomani al pan, visto che asseriva di averne soltanto millecinquecento, mentre al pan aveva dato la propria parola d'onore, Mitja rispose con fermezza che l'indomani al "polaccuccio" avrebbe proposto non del denaro ma i propri diritti sulla tenuta di Èermašnja, quegli stessi diritti che aveva proposto anche a Samsonov e alla Chochlakova. Il procuratore ridacchiò persino per "l'ingenuità della trovata". «E voi credete che egli avrebbe accettato di prendere quei "diritti" al posto di duemilatrecento rubli in contanti?» «Avrebbe sicuramente accettato», tagliò corto bruscamente Mitja. «Di grazia, qui non si tratta solo di due, ma di quattro, persino seimila rubli che avrebbe potuto beccarsi! Avrebbe subito chiamato a raccolta i suoi legulei, polaccucci o ebreucci che fossero, e avrebbero strappato al vecchio altro che tremila rubli, l'intera tenuta di Èermašnja!» Va da sé che la testimonianza di pan Mussjaloviè fu inserita nel verbale in tutti i dettagli. Dopo di che lasciarono andare anche i due pan. Quanto alla truffa con le carte, il fatto fu a malapena menzionato; Nikolaj Parfenoviè era loro molto grato e non voleva importunarli con delle sciocchezze, tanto più che si trattava sicuramente di una baruffa senza importanza tra ubriachi che giocavano a carte, niente di più. Tanto, di baldoria e indecenza se n'era vista un bel po' quella notte... E così il denaro, quei duecento rubli, rimasero nelle tasche dei signori. 

Maksimov. 




 Convocarono poi il vecchietto Maksimov. Egli si presentò tutto intimorito, camminava a passetti piccoli, aveva un aspetto scarmigliato e molto triste. Per tutto quel tempo egli non si era mai staccato da Grušen'ka al piano di sotto, se n'era stato seduto con lei in silenzio e "poco c'era mancato che si mettesse a piagnucolare per lei mentre si asciugava gli occhietti con il suo fazzolettino a quadretti", come ebbe a raccontare in seguito Michail Makaroviè. Tanto che era andata a finire che era lei a calmare e consolare lui. Il vecchietto confessò immediatamente fra le lacrime di essere colpevole, di aver preso in prestito da Dmitrij Fëdoroviè "dieci rubli, vossignoria, a causa della mia indigenza" e che era disposto a restituirli... Alla domanda diretta di Nikolaj Parfenoviè se si fosse accorto di quanti soldi esattamente avesse in mano Dmitrij Fëdoroviè, dal momento che egli aveva avuto modo di vedere più da vicino quel denaro in mano sua quando aveva incassato il prestito, Maksimov rispose con il tono più deciso che erano "ventimila rubli, vossignoria". «Avete mai visto in precedenza la somma di ventimila rubli?», domandò Nikolaj Parfenoviè sorridendo. «Come no, li ho visti, vossignoria, solo che non erano venti, ma sette, quando mia moglie ipotecò il mio villaggetto. Me li fece vedere solo da lontano, se ne vantava davanti a me. Era un mucchio molto grosso, vossignoria, tutto di banconote iridate. E anche quelle di Dmitrij Fëdoroviè erano tutte iridate...» Lo congedarono ben presto. 

GRUSHENKA



Finalmente arrivò il turno di Grušen'ka. I giudici temevano l'effetto che avrebbe potuto suscitare la sua comparsa su Dmitrij Fëdoroviè e Nikolaj Parfenoviè gli sussurrò persino qualche parola di ammonimento, ma Mitja abbassò il capo come a dire che "non avrebbe fatto scenate". Fu lo stesso Michail Makaroviè a introdurre Grušen'ka. Ella entrò con una faccia cupa e severa; sembrava abbastanza calma, si sedette lentamente sulla sedia che le fu indicata di fronte a Nikolaj Parfenoviè. Era molto pallida, sembrava che avesse freddo, e si stringeva forte nel suo meraviglioso scialle nero. Aveva dei leggeri brividi di febbre, sintomo iniziale di quella lunga malattia per la quale avrebbe sofferto a partire da quella notte. Il suo aspetto severo, il suo sguardo diretto e serio, i suoi modi pacati produssero un'impressione estremamente favorevole su tutti. Nikolaj Parfenoviè ne fu persino subitaneamente "catturato". Egli stesso ammise in seguito, raccontando l'accaduto, che solo allora si era reso conto di quanto fosse "bella" quella donna, dal momento che, pur avendola vista anche in passato, l'aveva sempre considerata una "etera di provincia". «Ha i modi di una dama della migliore società», dichiarò entusiasticamente spettegolando su di lei in compagnia di altre signore. Ma quelle accolsero la sua dichiarazione con viva indignazione e lo chiamarono subito "birichino", il che lo riempì di soddisfazione. Entrando nella stanza, Grušen'ka sbirciò solo di sfuggita dalla parte di Mitja, il quale a sua volta lo guardò con apprensione, ma l'aspetto di lei lo tranquillizzò subito. Dopo le prime domande di prassi e i vari avvertimenti, Nikolaj Parfenoviè le domandò, seppure con esitazione, ma conservando i modi più cortesi: «Che rapporti avete con il tenente in congedo Dmitrij Fëdoroviè Karamazov?» Al che Grušen'ka rispose con pacata fermezza: «Era un mio conoscente, l'ho ricevuto in casa mia in quest'ultimo mese in qualità di conoscente». Alle successive domande indagatrici, ella rispose senza mezzi termini, in piena franchezza che, sebbene, "a volte" le fosse piaciuto, non lo aveva amato, ma lo aveva conquistato "per via del suo abominevole rancore", come del resto aveva fatto anche con il "povero vecchio"; si era accorta che Mitja era molto geloso di lei per via di Fëdor Pavloviè e di tutti gli altri, ma la cosa la divertiva. Da Fëdor Pavloviè, poi, non aveva mai avuto intenzione di andare, si era solo presa gioco di lui. «Per tutto questo mese non ho pensato per niente a nessuno dei due; aspettavo un altro uomo, colpevole nei miei confronti... Penso soltanto», concluse, «che non c'è affatto bisogno che mi facciate domande a questo proposito, né che io risponda perché questi sono solo fatti miei». In tal senso agì immediatamente Nikolaj Parfenoviè: smise ancora una volta di insistere sugli aspetti "romantici" e passò direttamente alle cose serie, vale a dire, per l'ennesima volta, alla questione fondamentale dei tremila rubli. Grušen'ka confermò che a Mokroe, un mese addietro, erano stati davvero spesi tremila rubli - non che li avesse contati di persona, ma aveva sentito dire da Dmitrij Fëdoroviè che era quella la somma. «Ve l'ha detto in un momento in cui eravate soli o in presenza di altri? O l'avete sentito solo mentre lo diceva ad altri in vostra presenza?», si informò immediatamente il procuratore. Grušen'ka dichiarò di averglielo sentito dire sia a quattr'occhi sia in presenza di altre persone. «A quattr'occhi, ve lo ha detto una volta sola, o più di una volta?», si informò ancora il procuratore e venne a sapere che Grušen'ka glielo aveva sentito dire più di una volta. Ippolit Kirilloviè rimase molto soddisfatto di quella testimonianza. Con ulteriori domande si chiarì che Grušen'ka era al corrente della provenienza di quei soldi: Dmitrij Fëdoroviè li aveva presi da Katerina Ivanovna. «E avete mai sentito, anche una sola volta, che i soldi spesi un mese fa non erano tremila rubli, ma meno, e che Dmitrij Fëdoroviè ne aveva messo da parte una buona metà?» «No, non l'ho mai sentito», testimoniò Grušen'ka. In seguito emerse addirittura che Mitja, al contrario, le aveva detto spesso, nel corso di tutto quel mese, di non avere neanche una copeca. «Aspettava sempre di riceverne da suo padre», concluse Grušen'ka. «E ha mai detto in vostra presenza... o di sfuggita, o per la rabbia», intervenne a bruciapelo Nikolaj Parfenoviè, «di avere l'intenzione di attentare alla vita di suo padre?» «Oh, sì che l'ha detto!», sospirò Grušen'ka. «Una volta sola o diverse volte?» «Diverse volte l'ha detto ed era sempre arrabbiato». «E voi credevate che l'avrebbe fatto?» «No, non ci ho mai creduto!», rispose ella fermamente. «Confidavo nella sua nobiltà d'animo». «Signori, permettete», gridò Mitja all'improvviso, «permettetemi di dire soltanto una parola ad Agrafena Aleksandrovna, in vostra presenza». «Dite pure», gli concesse Nikolaj Parfenoviè. «Agrafena Aleksandrovna», disse Mitja alzandosi dalla sedia, «abbi fede in Dio e in me: del sangue di mio padre ucciso ieri sono innocente!» Detto questo, Mitja si risedette. Grušen'ka si alzò e devotamente si fece il segno della croce davanti all'icona. «Gloria a te o Signore!», disse con voce piena di emozione, poi, senza sedersi, ma rimanendo sul posto soggiunse rivolgendosi a Nikolaj Parfenoviè: «Credete a quello che ha appena detto! Lo conosco: certo parla a sproposito, per ridere o per testardaggine, ma non mentirà mai contro la propria coscienza. Vi sta dicendo la pura verità, credetegli!» «Grazie, Agrafena Aleksandrovna, mi hai dato coraggio!», replicò Mitja con voce tremante. Alle domande sul denaro del giorno prima ella dichiarò di non sapere quanto fosse, ma lo aveva sentito dire più volte ad altri che aveva portato con sé tremila rubli. Riguardo alla provenienza di quei soldi, egli le aveva detto a quattr'occhi di averli "rubati" a Katerina Ivanovna e lei gli aveva ribattuto che non li aveva rubati, ma che li avrebbe restituiti l'indomani stesso. Alla insistente domanda del procuratore: a quali soldi si riferisse dicendo che li aveva rubati a Katerina Ivanovna, a quelli del giorno prima o ai tremila rubli che aveva speso lì un mese addietro? Ella rispose che si riferiva a quelli che aveva un mese addietro, che così aveva interpretato le sue parole. Finalmente lasciarono andare anche Grušen'ka, e Nikolaj Parfenoviè la informò, con gran premura, che era libera di far ritorno in città anche subito e che se poteva esserle di qualche aiuto, riguardo ai cavalli, per esempio, o se desiderava una scorta allora lui... da parte sua... «Vi ringrazio sinceramente», rispose Grušen'ka inchinandosi, «andrò via con questo vecchietto, il possidente, lo condurrò in città, ma nel frattempo, se permettete, aspetterò di sotto per sapere le vostre decisioni a riguardo di Dmitrij Fëdoroviè».

SOGNO DI MITJA PRIMA DELLA PARTENZA PER LA PRIGIONE


 Mitja si era calmato e aveva persino un'aria rasserenata, che però durò ben poco. Una strana debolezza fisica andava gradualmente prendendo il sopravvento su di lui, ogni minuto di più. Gli occhi gli si chiudevano per la stanchezza. L'interrogatorio dei testimoni era finalmente terminato. Procedettero alla stesura finale delle deposizioni. Mitja si alzò e si spostò dalla sedia all'angolo presso la tenda, si sdraiò su un grosso baule ricoperto da un tappeto e si addormentò di colpo. Fece un sogno piuttosto strano, assolutamente privo di collegamenti con il tempo e il luogo nel quale si trovava. 


Egli era da qualche parte nella steppa, là dove aveva prestato servizio un tempo e un contadino lo stava conducendo, fra la mota, sul suo carro tirato da una coppia di cavalli. Aveva freddo, era l'inizio di novembre, e la neve cadeva in grossi fiocchi umidi, sciogliendosi non appena toccava terra. Il contadino faceva andare il carro a passo sostenuto, schioccava abilmente la frusta; aveva una barba lunga, biondiccia e non era molto vecchio, sarà stato sulla cinquantina e indossava una palandrana grigia da contadino. Non lontano si intravedeva un villaggio dalle izbe nere nere, e metà del villaggio era bruciata, spuntavano soltanto le assi carbonizzate. All'entrata del villaggio, delle contadine si erano messe in fila sulla strada, erano molte, un'intera schiera, tutte magre, emaciate, con i visi scuri. Ne notò una in particolare, verso la fine della fila, una donna ossuta e alta, che dimostrava una quarantina d'anni, ma poteva averne anche venti, con il viso scarno, allungato, che teneva fra le braccia un bimbetto in lacrime: evidentemente il suo seno era così prosciugato da non dare più una goccia di latte. E il bimbo piangeva, piangeva e protendeva le braccine nude, con i suoi pugnetti, come illividiti dal freddo. «Perché piangono? Per quale motivo stanno piangendo?», domandò Mitja mentre passavano accanto a loro di gran carriera. «La creatura», gli rispose il conducente, «la creatura piange». E Mitja restò colpito dal fatto che egli l'avesse chiamato a modo suo, alla contadina: "creatura" e non bambino. E gli piacque che il contadino avesse detto "creatura": era come se in quella parola si racchiudesse una compassione più intensa. «Ma perché piange?», insisteva Mitja stupidamente. «Perché ha le braccine nude, perché non lo coprono?» «La creatura si è intirizzita, i vestitini si sono congelati e non lo tengono caldo». «Ma perché è così? Perché?», continuava a insistere scioccamente Mitja. «Ma è povera gente, la casa gli è bruciata, non hanno nemmeno un tozzo di pane, chiedono l'elemosina perché la casa gli è bruciata». «No, no», Mitja sembrava non capire. «Dimmi perché quelle povere madri se ne stanno impalate accanto alle case bruciate? Perché questa gente è povera? Perché è povera quella creatura? Perché la steppa è così brulla? Perché non si abbracciano, non si baciano, perché non intonano canti di gioia, perché si sono così anneriti per la miseria nera? Perché non danno da mangiare a quel bambino?» 



 Ed egli sentiva che sebbene le sue domande fossero irragionevoli e prive di senso, tuttavia desiderava porre proprio quelle domande e di porle proprio in quel modo. E avvertiva pure che stava crescendo nel suo cuore un senso di pietà che non aveva mai provato prima, che aveva voglia di piangere, che voleva fare qualcosa per tutti, affinché quel bambino non piangesse più, affinché non piangesse più quella madre dal viso nero e dal seno rinsecchito, affinché da quel momento in poi non esistessero più lacrime per nessuno e che voleva fare tutto quello all'istante, all'istante, a dispetto di tutti gli ostacoli, con tutta l'impetuosità dei Karamazov. «Anch'io verrò con te, adesso non ti lascerò più, per tutta la vita», egli sentì accanto a sé le dolci parole di Grušen'ka, cariche di sentimento. Ed ecco che il cuore gli si infiammò, ed egli cominciò a protendere verso una luce e aveva voglia di vivere e ancora vivere, di procedere ancora e ancora per quel cammino, verso quella nuova luce che lo chiamava, ma in fretta, in fretta, in quel momento stesso, adesso! 
 
 «Che cosa? Dove andiamo?», esclamò aprendo gli occhi e mettendosi a sedere sul baule, come se si fosse ripreso da uno svenimento, ma con un sorriso radioso sulle labbra. Sopra di lui c'era Nikolaj Parfenoviè che lo invitava ad ascoltare il verbale per poi firmarlo. Mitja intuì di aver dormito un'ora e forse più, ma non prestò ascolto a Nikolaj Parfenoviè. Fu colpito dal fatto di essersi trovato sotto la testa un cuscino che non c'era quando si era accasciato privo di forza sul baule. «Chi mi ha messo questo cuscino sotto la testa? Chi è stato così buono?», esclamò in un impeto di entusiasmo e gratitudine e con la voce quasi rotta dal pianto, come se avessero compiuto Dio solo sa quale buona azione. Quell'anima buona rimase senza un nome, qualcuno dei testimoni, o forse il segretario stesso di Nikolaj Parfenoviè, aveva deciso di poggiargli un cuscino sotto la testa per compassione, ma la sua anima era interamente scossa dalle lacrime. Egli si accostò al tavolo e dichiarò che avrebbe firmato tutto quello che volevano. «Ho fatto un bel sogno, signori», pronunciò con uno strano tono di voce e con un viso nuovo, come illuminato dalla gioia.

giovedì 19 agosto 2021

LA SCOPERTA DELL'OMICIDIO DI FEDOR

LIBRO NONO - CAPITOLO SECONDO



ALLARME

  Marfa Ignat'evna, la moglie di Grigorij - il servo atterrato presso lo steccato - che stava dormendo sodo nel proprio letto e avrebbe potuto andare avanti così sino a mattina, si era svegliata all'improvviso. Senz'altro il suo risveglio era stato causato dall'agghiacciante urlo epilettico di Smerdjakov, che giaceva nella cameretta accanto privo di conoscenza - quel grido, che sempre segnalava l'inizio dei suoi attacchi di mal caduco e che sempre, in tutta la sua vita, aveva spaventato a morte Marfa Ignat'evna, aveva un effetto sconvolgente su di lei. Non era mai riuscita ad abituarsi ad esso. Balzò in piedi mezza addormentata e quasi nel dormiveglia corse nello sgabuzzino, da Smerdjakov. Ma lì era buio, si sentiva soltanto che il malato cominciava a rantolare e a dibattersi. A quel punto si mise a gridare anche lei e a chiamare il marito, ma ad un tratto le venne in mente l'idea che Grigorij non fosse a letto quando lei si era alzata. Corse al letto e lo tastò di nuovo: era davvero vuoto. Dunque era andato da qualche parte, ma dove? Corse fuori sul terrazzino d'ingresso e lo chiamò timidamente da lì. Ovviamente non ricevette risposta, però udì, nel silenzio della notte, dei gemiti che provenivano da lontano, come da un punto nel giardino. Tese l'orecchio: i gemiti si ripeterono ed ebbe la certezza che provenissero dal giardino. "Dio mio, proprio come quella volta di Lizaveta Smerdjascaja!" balenò nella sua mente sconvolta. Ella scese timidamente gli scalini e intravide che il cancelletto che conduceva nel giardino era aperto. "Deve essere lì, il povero caro", pensò; si avvicinò al cancelletto e all'improvviso udì chiaramente che Grigorij la stava chiamando, gridava: «Marfa, Marfa!» con una voce flebile, lamentosa, terribile. «Dio mio, salvaci da ogni male», sussurrò Marfa Ignat'evna e s'affrettò in direzione della voce, e fu così che trovò Grigorij. Ma lo trovò, non presso il recinto, non nello stesso posto in cui era stato abbattuto, ma a una ventina di passi dallo steccato. Risultò in seguito che, ripresi i sensi, egli si era allontanato strisciando dal posto in cui era caduto e, probabilmente, ci aveva messo molto tempo per arrivare sino a lì, perdendo conoscenza di tanto in tanto. Ella si accorse immediatamente che era tutto insanguinato e si mise ad urlare a squarciagola. 


Grigorij invece balbettava a voce bassa frasi incoerenti: «Ha ammazzato... ha ammazzato il padre... che gridi, sciocca?... corri... chiama...»


Ma Marfa Ignat'evna non si calmava, continuava a urlare quando all'improvviso, vedendo la finestra della camera del padrone aperta e illuminata, si mise a correre verso di essa e cominciò a chiamare Fëdor Pavloviè. Ma sbirciando dalla finestra all'interno della camera vide uno spettacolo terribile: il padrone giaceva riverso sul pavimento, immobile. La vestaglia chiara e la camicia bianca erano intrise di sangue sul petto. La candela sul tavolo illuminava chiaramente il sangue e il viso immobile, privo di vita di Fëdor Pavloviè. Terrorizzata, Marfa Ignat'evna, scappò via dalla finestra, corse fuori dal giardino, aprì il catenaccio del portone e si diresse a rotta di collo sul retro, dalla vicina Mar'ja Kondrat'evna. Tutte e due le vicine, madre e figlia, a quell'ora si erano già coricate, ma si svegliarono e si affrettarono alla finestra sentendo le grida insistenti e i colpi alle imposte. Marfa Ignat'evna, fra urla e strepiti incoerenti, riuscì a comunicare l'essenziale e a chiamare soccorso. Neanche a farlo apposta, quella notte dormiva da loro Foma, tornato dai suoi giri. Lo svegliarono subito e tutti e tre corsero sul luogo del delitto. Lungo la strada Mar'ja Kondrat'evna riuscì a ricordarsi che poco prima, verso le nove, aveva sentito un urlo terribile e penetrante provenire dal giardino - si era trattato senz'altro del grido che aveva cacciato Grigorij, quando, aggrappatosi alle gambe di Dmitrij Fëdoroviè che si trovava già a cavalcioni dello steccato, gli aveva gridato: «Parricida!» «Qualcuno ha gridato qualcosa e poi ha smesso», testimoniava correndo Mar'ja Kondrat'evna. Giunte al punto in cui giaceva Grigorij, le due donne, con l'aiuto di Foma, lo trasportarono nella dipendenza. Accesero il fuoco e videro che Smerdjakov non si era calmato, si dibatteva nel suo stanzino, rovesciava gli occhi, sbavava. Bagnarono il capo di Grigorij con acqua e aceto e questi si riprese immediatamente e domandò subito: «L'ha ucciso il padrone?» Le due donne e Foma allora andarono dal padrone e, entrando nel giardino, si accorsero questa volta che non solo la finestra, ma anche la porta della casa che dava sul giardino era spalancata, eppure il padrone stesso, da più di una settimana, ogni sera si chiudeva a chiave dall'interno e non permetteva neanche a Grigorij di andare da lui, per nessuna ragione. Vedendo quella porta aperta, tutti quanti, le due donne e Foma, furono invasi dalla paura di andare dal padrone "per timore che poi avvenisse qualcosa". Ma Grigorij, quando quelli tornarono da lui, ordinò di correre immediatamente dal capo della polizia. Quindi Mar'ja Kondrat'evna era corsa là e aveva dato l'allarme alla compagnia riunita dal capo della polizia. Aveva anticipato di soli cinque minuti l'arrivo di Pëtr Il'iè,

Pellegrinaggio di un'anima attraverso le tribolazioni. Tribolazione terza

 V • Tribolazione terza 


 Sebbene Mitja avesse cominciato a parlare in tono severo, era evidente che si stava impegnando, ancora più di prima, a non dimenticare o tralasciare alcun dettaglio della sua storia. Raccontò di come aveva scavalcato lo steccato per saltare dentro il giardino paterno, come aveva raggiunto la finestra e tutto quello che era avvenuto sotto quella finestra. Egli descrisse con precisione, chiarezza, quasi scandendo le parole, i sentimenti che lo agitavano in quegli istanti nel giardino, quando moriva dalla voglia di sapere se Grušen'ka si trovasse davvero in casa di suo padre. 


Ma, strano a dirsi, questa volta sia il procuratore sia il giudice istruttore lo ascoltavano con una sorta di incredibile discrezione, lo guardavano con freddezza, ponendogli assai meno domande di prima. Mitja non riusciva a farsi nessuna idea dalle loro facce. "Sono arrabbiati e offesi", pensò, "ma che vadano al diavolo!" 




Quando raccontò del momento in cui si era deciso finalmente a dare al padre il segnale che Grušen'ka era arrivata, in maniera che quello aprisse la finestra, allora il procuratore e il giudice istruttore non prestarono la minima attenzione alla parola "segnale", come se non comprendessero affatto che significato avesse quella parola in quel contesto, tanto che anche Mitja ne restò colpito. 

Quando finalmente arrivò al punto in cui, vedendo sporgere suo padre fuori dalla finestra, egli si era sentito ribollire d'ira e aveva estratto d'impeto il pestello dalla tasca, egli, quasi di proposito, fece una pausa. Se ne stava seduto a fissare la parete, consapevole che quelli lo stavano fissando con tanto d'occhi. «Be'», disse il giudice istruttore, «avete estratto l'arma e poi... che cosa è successo?» 




 «Poi? Poi l'ho ucciso, gli ho dato una botta in testa e gli ho fracassato il cranio... È andata così secondo voi, così, vero?», disse con gli occhi di fuoco: tutta la rabbia che poco prima si era estinta, avvampò d'un tratto nella sua anima con straordinaria violenza. 

 «Secondo noi?», ripeté di rimando Nikolaj Parfenoviè. 

«E secondo voi com'è andata invece?» Mitja abbassò gli occhi e tacque a lungo. 

«Secondo me, signori, secondo me, è andata così», disse in tono sommesso, «forse le lacrime di qualcuno, o forse mia madre ha pregato Dio per me, oppure uno spirito buono mi ha baciato in quel momento, non lo so, ma il diavolo fu sconfitto. Scappai via da quella finestra e mi misi a correre verso lo steccato... Mio padre si spaventò e fu solo allora che si accorse della mia presenza, lanciò un urlo e si allontanò con un balzo dalla finestra - questo me lo ricordo con esattezza. Intanto attraversavo di corsa il giardino per andare allo steccato... 




e fu lì che Grigorij mi raggiunse mentre mi trovavo già a cavalcioni dello steccato...» 

 A quel punto egli finalmente sollevò gli occhi verso i suoi ascoltatori. Sembrava che quelli lo guardassero con pacata attenzione. Uno spasimo di indignazione attraversò l'anima di Mitja. 

INDIGNAZIONE DI MITJA

 «Voi, signori, in questo momento vi state prendendo gioco di me!», proruppe all'improvviso. «Che cosa ve lo fa pensare?», osservò Nikolaj Parfenoviè. «Non credete a una sola parola, ecco perché! Mi rendo conto, ovviamente, di essere arrivato a un punto nodale: il vecchio adesso giace là con il cranio fracassato, mentre io, dopo aver descritto in toni tragici come volevo ucciderlo e il modo in cui ho estratto il pestello, vi vengo a raccontare che sono corso via da quella finestra... Un poema! In versi! Come se si potesse credere alla parola di questo bravo ragazzo! Ah-ah! Siete degli schernitori, signori!» 


 E si girò con tutto il corpo sulla sedia, tanto che quella scricchiolò. 

LA PORTA SUL GIARDINO APERTA O CHIUSA?

«E non avete notato», prese a dire il procuratore, come se non avesse prestato attenzione all'agitazione di Mitja, «non avete notato, mentre vi allontanavate di corsa dalla finestra, se la porta che si trova all'altro capo della dipendenza, quella che dà sul giardino, era aperta oppure no?» 

 «No, non era aperta». «Non era aperta?» 

 «Era chiusa, invece, e chi mai avrebbe potuto aprirla? Ma, aspettate un po', la porta!», sembrò ravvedersi all'improvviso e quasi trasalì. «L'avete forse trovata aperta?» «Sì, aperta». 

 «Ma chi poteva averla aperta, se non siete stato voi?», domandò Mitja con estremo stupore. 

 «La porta era aperta e l'assassino di vostro padre senza dubbio è entrato da questa porta e, dopo aver compiuto il delitto, è uscito sempre da quella porta», proferì il procuratore scandendo le parole, lentamente, una alla volta. 

«Questo è perfettamente chiaro per noi. L'assassinio fu commesso all'interno della stanza e non attraverso la finestra, questo è risultato perfettamente chiaro dal sopralluogo eseguito, dalla posizione del corpo e da tutto il resto. Non sussiste alcun dubbio su questa circostanza». 

 Mitja era completamente sbigottito. «Ma questo non è possibile, signori!», gridò lui smarrito. 

«Io... io non sono entrato... ve lo dico per certo, con sicurezza, che la porta è restata chiusa per tutto il tempo che sono rimasto in giardino ed era chiusa anche mentre fuggivo dal giardino. Io sono sempre rimasto sotto la finestra e ho visto lui solo attraverso la finestra, solo così, solo così. Ricordo che è rimasta chiusa sino all'ultimo. E anche se non ne conservassi il ricordo, comunque lo saprei perché i segnali erano noti soltanto a me, a Smerdjakov e a lui, al defunto, e lui senza quei segnali non avrebbe aperto a nessuno al mondo!» 

I SEGNALI

 «Segnali? Quali segnali?», con una curiosità avida, quasi isterica domandò il procuratore e in un attimo abbandonò la sua aria di dignitosa discrezione. Pose la domanda con una sorta di insinuante timidezza. Aveva fiutato la rilevanza di un fatto del quale non era ancora a conoscenza e di colpo aveva avuto paura che Mitja non glielo volesse svelare del tutto. 

 «Ah, non lo sapevate!», disse Mitja ammiccando con un sorrisetto ironico e maligno. «Che accadrebbe, se non ve lo dicessi? Da chi potreste venirlo a sapere allora? Nessuno era a conoscenza di quei segnali eccetto il defunto, io e Smerdjakov, nessun altro; anche il Cielo li conosceva, ma quello, certo, non vi dirà nulla. Ma è un fatterello interessante, lo sa solo il diavolo che cosa ci potreste imbastire sopra, ah, ah! Calmatevi, signori, ve lo svelerò, qualche stupida idea vi frulla in testa. Non sapete con chi avete a che fare! Voi avete a che fare, vi dico, con un imputato che fornisce da solo prove contro se stesso, a proprio danno! Sì, giacché io sono un principe dell'onore, mentre voi no!» 

Il procuratore mandava giù tutte quelle pillole, tremava soltanto per l'impazienza di conoscere quella nuova circostanza. Mitja gli espose diffusamente e con precisione tutto ciò che riguardava quei segnali escogitati da Fëdor Pavloviè per Smerdjakov, raccontò che cosa significava ogni colpo alla porta, batté persino sul tavolo quei segni convenzionali e alla domanda di Nikolaj Parfenoviè se lui, Mitja, avesse bussato alla finestra del vecchio proprio quel segnale che significava: "Grušen'ka è arrivata", egli rispose che aveva bussato proprio il segnale che stava ad indicare "Grušen'ka è arrivata". 

 «Ecco a voi, adesso costruiteci sopra la vostra torre!», sbottò Mitja e ancora si girò dall'altra parte con aria di disprezzo. 

 «E nessun altro sapeva di quei segnali a parte il vostro defunto genitore, voi e il servo Smerdjakov? Nessun altro?», si informò ancora una volta Nikolaj Parfenoviè. «Sì, il servo Smerdjakov e poi il Cielo. Verbalizzate anche il Cielo: potrebbe sempre tornare utile. E poi anche voi potreste trovarvi ad avere bisogno di Dio». 

SMERDIAKOV E' L'OMICIDA?

Quelli ovviamente avevano già cominciato a verbalizzare, ma mentre verbalizzavano, il procuratore, all'improvviso, come se si fosse d'un tratto imbattuto in una nuova idea, disse: «E allora, se anche Smerdjakov sapeva di quei segni e voi negate nella maniera più assoluta ogni responsabilità nell'omicidio di vostro padre, non potrebbe essere stato lui a indurre vostro padre ad aprire la porta, dopo aver bussato quei segnali convenzionali e poi... avere commesso il delitto?» 

Mitja rivolse verso di lui uno sguardo ironico e allo stesso tempo carico d'odio. Il suo sguardo silenzioso durò così a lungo che il procuratore cominciò a battere le palpebre. «Avete catturato la volpe un'altra volta!», disse infine Mitja. «Avete agguantato quella canaglia per la coda, eh, eh! Leggo da parte a parte dentro di voi, procuratore! Voi naturalmente pensavate che sarei saltato su e mi sarei appigliato al vostro suggerimento per gridare a squarciagola: "Ahi, è stato Smerdjakov, è lui l'assassino!" Ammettetelo che pensavate questo, ammettetelo, e allora continueremo». Ma il procuratore non lo ammise. Taceva e aspettava. «Vi siete sbagliato, io non griderò contro Smerdjakov!», disse Mitja. «E non sospettate minimamente di lui?» «E voi sospettate di lui?» «Abbiamo sospettato anche di lui». Mitja fissò lo sguardo sul pavimento. «Scherzi a parte», disse lui cupamente, «ascoltate: sin dall'inizio, quasi sin dal momento in cui vi sono balzato davanti da dietro la tenda, mi è balenato in testa questo pensiero: "Smerdjakov!" Mentre sedevo qui, a questo tavolo, e gridavo di essere innocente di quel sangue, non facevo che pensare e ripensare: "Smerdjakov!" E Smerdjakov non mi usciva dall'anima. E infine adesso di punto in bianco: "Smerdjakov!", ma solo per un attimo, poi, immediatamente dopo, ho pensato: 

"No, non è stato Smerdjakov!" Non è opera sua, signori!» 

 «C'è qualcun altro sul quale nutrite sospetti in questo caso?», fece per domandargli con cautela Nikolaj Parfenoviè. «Non so chi potrebbe aver fatto una cosa del genere, la mano del Cielo o Satana, ma... non Smerdjakov!», tagliò corto bruscamente Mitja. «Ma cosa vi induce a dichiarare con tanta fermezza e insistenza che non è stato lui?» 

GIUDIZIO DI MITJA SU SMERDIAKOV

 «È una mia convinzione. Un'impressione. Perché Smerdjakov è una persona abietta per natura ed è un codardo. Anzi, non è un codardo, è il concentrato ambulante di tutta la codardia del mondo messa insieme. È stato generato da una gallina. Quando parlava con me tremava sempre per la paura che io lo ammazzassi, sebbene io non abbia mai alzato un dito contro di lui. Cadeva ai miei piedi e piangeva, baciava questi miei stivali, letteralmente, supplicandomi di "non spaventarlo". Avete sentito? "Non spaventarlo": ma sono queste cose da dirsi? E io che gli davo pure delle mance. Quello è una gallina malata di mal caduco, debole di cervello, uno che si farebbe battere da un ragazzetto di otto anni. È forse un carattere capace di commettere un simile delitto? Non è stato Smerdjakov, signori, e poi quello non è nemmeno attaccato ai soldi, non accettava mai le mie mance... E poi che motivo avrebbe avuto di uccidere il vecchio? Con ogni probabilità è suo figlio, suo figlio naturale, lo sapete questo, vero?» 


 «Abbiamo sentito di questa leggenda. Ma anche voi siete figlio di vostro padre, eppure avete dichiarato a destra e a manca che volevate ucciderlo». 


 «Questo è un brutto tiro! Un tiro abietto! Ma io non ho paura! Signori, non pensate che sia troppo meschino da parte vostra dirmi rinfacciarmi queste cose? Meschino proprio perché sono stato io stesso a dirvelo. Non solo volevo ammazzarlo, ma avrei potuto farlo e per di più mi sono accusato volontariamente dicendo di essere stato vicinissimo ad ucciderlo! Ma poi non l'ho ucciso, evidentemente mi ha salvato il mio angelo custode, ecco che cosa voi non avete preso in considerazione... Ecco perché è meschino, meschino da parte vostra! Perché io non ho ucciso, non ho ucciso, non ho ucciso! Mi sentite, procuratore: non ho ucciso!» 


 A momenti soffocava. Da quando era iniziato l'interrogatorio non era mai stato così agitato. «E lui che cosa vi ha detto, signori - Smerdjakov, intendo?», concluse poi dopo un breve silenzio. «Se è lecito porvi la domanda». «Voi potete farci qualsiasi domanda», rispose il procuratore in tono freddo e severo, «qualsiasi domanda che riguardi i fatti inerenti al caso, e noi, dal nostro canto, ve lo ripeto, siamo quasi obbligati a darvi soddisfazione per ogni vostra domanda. Abbiamo trovato il servo Smerdjakov che giaceva privo di conoscenza nel suo letto, in preda a un gravissimo attacco epilettico, che si ripeteva forse per la decima volta di seguito. Il dottore che era con noi, dopo averlo visitato, ci ha detto che forse non avrebbe passato la notte». 

IL DIAVOLO HA UCCISO MIO PADRE!

 «Be', in tal caso è stato il diavolo ad uccidere mio padre!», proruppe Mitja come se fino a quel momento non avesse fatto altro che domandarsi: "È stato Smerdjakov oppure no?" 

 «Torneremo ancora sull'argomento», decise Nikolaj Parfenoviè, «ma, adesso, non potreste proseguire con la vostra deposizione?» Mitja chiese un attimo di pausa. Glielo concessero con gentilezza. Dopo aver riposato, proseguì la sua storia. Ma era evidente che gli riusciva penoso. Egli era esausto, mortificato e moralmente scosso. Per di più il procuratore lo esasperava ad ogni pie' sospinto - si sarebbe detto che lo facesse apposta adesso - con la sua fissazione per i "dettagli".

GRIGORI

 



Mitja aveva appena finito di raccontare di come, a cavalcioni sullo steccato, avesse con il pestello ferito alla testa Grigorij, che gli stava aggrappato alla gamba sinistra, e poi era subito balzato giù, verso il servo atterrato, quando il procuratore lo fermò e gli chiese di descrivere con maggiori dettagli la posizione in cui stava seduto a cavalcioni sullo steccato. Mitja restò stupito. «Be', stavo seduto così, a cavalcioni, con una gamba qui e l'altra là...» «E il pestello?» «Il pestello in mano». «Non in tasca? Lo ricordate con precisione questo? Lo avete colpito con molta violenza?» «Credo di sì, ma perché me lo domandate?» «Vi dispiacerebbe mettervi a sedere sulla sedia nella stessa posizione in cui eravate seduto sullo steccato e mostrarci, per chiarirci le idee, come e dove lo avete colpito, da quale parte?» «Non vi state prendendo gioco di me, vero?», domandò Mitja guardando con aria altera l'inquirente, ma quello non batté ciglio. Mitja si voltò febbrilmente, si sedette cavalcioni sulla sedia e agitò il braccio come per assestare un colpo: «Ecco come lo ho colpito! Ecco come ho ucciso! Che volete ancora?» «Vi ringrazio. Vi dispiacerebbe adesso spiegarci il motivo esatto per cui siete saltato giù, a che scopo e che cosa avevate in mente?» «Ma al diavolo... sono saltato verso il servo atterrato... Non so il perché!» «Eppure eravate agitato e in fuga, non è vero?» «Sì, ero agitato e in fuga». «Volevate aiutarlo?» «Come, aiutarlo... Sì, forse anche aiutarlo, non ricordo». «Non ricordate? Allora vi trovavate come in stato di incoscienza?» «Oh no, non in stato di incoscienza, ricordo tutto. Tutto sino ai minimi particolari. Sono saltato giù per dare un'occhiata e gli ho asciugato il sangue con il fazzoletto». «Abbiamo visto il vostro fazzoletto. Speravate di riportare in vita colui che avevate abbattuto?» «Non so che cosa sperassi. Volevo semplicemente accertarmi se fosse vivo o no». «E così volevate accertarvi di questo? E allora?» «Non sono un medico, non riuscii a stabilirlo. Scappai pensando di averlo ammazzato, ma adesso si è ripreso». «Benissimo, signore», concluse il procuratore. 


«Vi ringrazio. Era tutto quello che volevo sapere. Andate avanti per cortesia». 


 Ahimè, a Mitja non passò neanche per la mente di raccontare, sebbene se ne ricordasse, che era saltato giù per pietà e che, accanto alla vittima, aveva persino pronunciato qualche parola di pietà: "Sei capitato, vecchio, non c'è niente da fare, adesso stattene lì". 

Invece, il procuratore non poté che trarre una sola conclusione e cioè che quell'uomo era saltato giù "in un momento simile e con una tale agitazione addosso" esclusivamente per accertarsi se fosse vivo l'unico testimone del proprio delitto. Che forza, che risolutezza, che sangue freddo e che capacità di calcolo aveva dimostrato quell'uomo in un momento simile... e così via. Il procuratore era soddisfatto: "Ho esasperato un soggetto irritabile con i 'dettagli' ed egli si è tradito". 

 Mitja proseguiva con uno sforzo penoso. Ma Nikolaj Parfenoviè lo interruppe per l'ennesima volta. «Come avete potuto irrompere in casa della serva Fedos'ja Markovna con tutto quel sangue sulle mani e, come è risultato in seguito, anche sul viso?» «Ma allora non mi ero affatto accorto di essere sporco di sangue!», rispose Mitja. «È verosimile, capita alle volte», e il procuratore scambiò un'occhiata con Nikolaj Parfenoviè. «Non me n'ero per nulla accorto, avete detto benissimo, procuratore», approvò ad un tratto Mitja. Ma poi seguì la storia dell'improvvisa decisione di Mitja di "farsi da parte" e di "lasciar passare le due creature felici". 

 Ormai non riusciva in nessun modo a svelare il proprio cuore, come prima, e a raccontare della "regina dell'anima sua". 

Gli ripugnava, davanti a quelle persone fredde, che "gli stavano addosso come cimici". E così, in risposta alle loro reiterate domande, dichiarò con brusca concisione: 

PROPOSITO DI SUICIDIO

 «Be', avevo deciso di uccidermi. A che scopo continuare a vivere? Questa domanda mi saltò in mente spontaneamente. Era tornato il suo primo e indiscutibile amore, colui che l'aveva oltraggiata, sì, ma che ora correva da lei con il suo amore per riparare all'offesa, dopo cinque anni, con un regolare matrimonio... Avevo capito che per me era finita...E poi alle spalle avevo quell'infamia: quel sangue, il sangue di Grigorij... A che scopo vivere? Così andai a riscattare le pistole che avevo pignorato per caricarle e spararmi un colpo alle cervella all'alba...» «E fare una gran baldoria la notte?» «Una gran baldoria la notte. Ma al diavolo, signori, facciamola finita al più presto. 

IL BIGLIOTTO DI ADDIO

Avevo davvero intenzione di spararmi non lontano da qui, nei dintorni del villaggio; avevo progettato di farlo verso le cinque del mattino, avevo preparato un bigliettino, che è qui in tasca, l'avevo scritto da Perchotin, dopo aver caricato le pistole. Ecco qui il bigliettino, leggete. Non è per voi che sto raccontando questo!», soggiunse di punto in bianco in tono sprezzante. Gettò sul tavolo verso di loro quel foglietto che aveva tratto dalla tasca del panciotto; gli inquirenti lessero con grande attenzione e, com'è di prassi, lo allegarono agli atti. «Ma non vi venne in mente di lavarvi le mani neanche quando arrivaste a casa del signor Perchotin? Non temevate di destare sospetti?» «Quali sospetti? Sospetti o non sospetti, sarei comunque corso qui e alle cinque mi sarei sparato e non avrebbero fatto in tempo a farmi nulla. Se non fosse stato per l'incidente di mio padre, non ne avreste saputo niente e non sareste mai venuti qui. Oh, ma è stato il diavolo, è stato il diavolo ad uccidere mio padre, è per colpa del diavolo che siete venuti a saperlo così presto! Come avete fatto ad arrivare così presto? È stupefacente, è fantastico!»

I BIGLIETTI DA 100 RUBLI



 «Il signor Perchotin ci ha riferito che al momento di entrare in casa sua tenevate in mano... con quelle mani insanguinate... i vostri soldi... molti soldi... un mucchio di banconote da cento rubli che ha notato anche il ragazzo di servizio!» «È così, signori, mi ricordo che è andata proprio così». 

 «Adesso sorge una piccola questione. Potreste dirci», prese a dire Nikolaj Parfenoviè in tono estremamente mellifluo, «dove vi siete procurato tanto denaro, tutto d'un tratto, quando dal resoconto dei fatti e dal calcolo dei tempi, risulta che non siete nemmeno passato di casa?» 

 Il procuratore si accigliò leggermente a quella domanda posta senza mezzi termini, ma non interruppe Nikolaj Parfenoviè. 

 «No, non sono passato da casa», rispose Mitja, all'apparenza estremamente calmo, ma con gli occhi abbassati. «Permettete che vi ripeta la domanda in questo caso», incalzava Nikolaj Parfenoviè, insidiandolo. «Dove potevate procurarvi una simile somma, quando, secondo le vostre stesse dichiarazioni, solo alle cinque del pomeriggio di quello stesso giorno...» 

IL SEGRETO DEI RUBLI

 «Mi sono trovato ad aver bisogno di dieci rubli e ho impegnato le pistole da Perchotin, poi mi sono recato dalla Chochlakova per chiederle tremila rubli e quella non me li ha dati e così di seguito, tutto il resto», lo interruppe bruscamente Mitja. «Sì, proprio così, avevo bisogno di soldi e poi tutto d'un tratto sono comparse quelle migliaia di rubli, e allora? Sapete, signori, adesso tutti e due avete una gran paura che io non vi dica da dove ho preso quei soldi! Ed è proprio così: non ve lo dirò, signori, avete indovinato, non lo saprete», scandì Mitja all'improvviso con estrema determinatezza. I giudici tacquero per un momento. 

 «Cercate di capire, signor Karamazov, che è essenziale per noi sapere questo», disse Nikolaj Parfenoviè in tono sommesso e pacato. «Lo capisco, ma non ve lo dirò lo stesso». Intervenne anche il procuratore e gli ricordò un'altra volta che l'interrogato aveva certo la facoltà di non rispondere alle domande, se riteneva tale comportamento confacente ai propri interessi, ma considerato il danno che l'indiziato poteva arrecare a se stesso con la propria reticenza, soprattutto in relazione a domande di una tale importanza che... «Eccetera, eccetera, signori! Basta così, questo sermone l'ho già sentito prima!», Mitja li interruppe nuovamente. «Mi rendo conto da me dell'importanza della questione e che questo è un punto vitale, ma non lo dirò lo stesso». «A noi che importa? Non sono mica fatti nostri, ma vostri: procurate un danno a voi stesso», osservò innervosito Nikolaj Parfenoviè. 

GENTILUOMINI

 «Vedete, signori, scherzi a parte», Mitja alzò di scatto lo sguardo verso di loro e li guardò entrambi con espressione decisa. «Sin dall'inizio ho avuto il presentimento che noi avremmo cozzato la testa proprio su questo punto. Ma all'inizio, quando ho cominciato a rilasciare la mia deposizione, tutto questo era lontano, avvolto nella nebbia, fluttuante, e sono stato così ingenuo da partire con la proposta di una "reciproca fiducia fra di noi". Adesso mi rendo conto che questa fiducia è fuori discussione, dal momento che in ogni caso saremmo arrivati a questa maledetta barriera! Ed ecco che ci siamo arrivati! Non si può andare oltre e tutto è finito! Del resto, non ve ne faccio una colpa, non è possibile neanche per voi credermi sulla parola, questo lo capisco, certo!» E si chiuse in un cupo silenzio. 

 «E non potreste, senza minimamente trasgredire il vostro proposito di tacere su un punto così fondamentale, non potreste nel contempo darci anche solo un minimo accenno a quei gravi motivi che vi indurrebbero al silenzio in un momento così delicato della vostra deposizione?» 

 Mitja sorrise mestamente e come sovrappensiero. 


L'INFAMIA PER MITJA


«Sono molto più buono di quanto voi pensiate, signori, io vi dirò il perché e vi darò questo accenno anche se non ve lo meritate. Io taccio, signori, perché qui per me si nasconde un'infamia. Nella risposta alla domanda "da dove avete preso questi soldi?" si racchiude per me un'infamia di fronte alla quale impallidirebbe anche la colpa dell'assassinio e del furto contro mio padre, nel caso in cui fossi stato davvero io a ucciderlo e derubarlo. Ecco perché non posso parlare. Non posso a causa di questa infamia. Ma, signori, volete verbalizzare anche questo?» 

 «Sì, lo verbalizziamo», balbettò Nikolaj Parfenoviè. 

 «Non dovreste scrivere questo fatto dell'"infamia". Vi ho reso questa testimonianza solo per bontà, avrei potuto anche non dirvi una parola, vi ho fatto un regalo in questo modo e invece voi giù a scrivere, senza andare tanto per il sottile. Ma sì, scrivete, scrivete quello che volete», concluse con disprezzo e avversione, «non mi fate paura e... posso andare a testa alta davanti a voi». 

 «E non potreste dirci di che genere di infamia si tratta?», fece per sussurrare Nikolaj Parfenoviè. Il procuratore si accigliò visibilmente. 

 «No, no, c'est fini, non vi date pensiero, e poi non vale la pena sporcarsi le mani. Mi sono già sporcato a sufficienza grazie a voi. Non ve lo meritate, né voi né nessun altro... Basta, signori, non dirò una parola di più». Pronunciò queste parole molto perentoriamente.

QUANTI ERANO? 

Nikolaj Parfenoviè smise di insistere, ma dagli sguardi di Ippolit Kirilloviè intuì in un attimo che quello non aveva ancora perso le speranze. «Non potreste per lo meno dichiarare a quanto ammontava la somma in vostro possesso quando vi recaste a casa del signor Perchotin, cioè quanti rubli erano per l'esattezza?» 

 «Non posso dichiarare neanche questo». 

3000 RUBLI?

 «Pare che al signor Perchotin abbiate parlato di tremila rubli, dicendo che li avevate ricevuti dalla signora Chochlakova: è così?» «Può darsi che gli abbia detto una cosa del genere. Basta signori, non dirò quanti soldi erano». «In tal caso descriveteci per cortesia come siete arrivato qui e tutto quello che avete fatto una volta arrivato». «Ma a questo proposito potete interrogare tutti quelli che erano presenti. Ma del resto, posso raccontarvelo pure io». E infatti raccontò l'accaduto, ma non staremo qui a riportarlo. Il suo racconto fu asciutto, frettoloso. Non accennò nemmeno ai propri entusiasmi amorosi. Tuttavia riferì che aveva abbandonato la decisione di spararsi "in considerazione di fatti nuovi". Egli raccontava senza spiegare i vari motivi, senza scendere in dettagli. E nemmeno gli inquirenti lo seccarono molto questa volta: era chiaro che nemmeno per loro quello era il punto fondamentale al momento. 

 «Verificheremo tutto questo, ci ritorneremo nel corso degli interrogatori dei testimoni, che avverranno, naturalmente, in vostra presenza», concluse l'interrogatorio Nikolaj Parfenoviè. 

LA SPOGLIAZIONE

«Adesso vogliate gentilmente poggiare qui sul tavolo tutti gli oggetti che avete con voi, e soprattutto tutto il denaro che avete al momento». «Il denaro, signori? Certo, capisco che è necessario. Mi meraviglio persino che non abbiate curiosato prima. Vero è che non sarei scappato da nessuna parte, me ne stavo seduto in bella vista. Eccoli qui i miei soldi, ecco contateli, prendeteli, sono tutti, mi pare». Egli estrasse tutto il contenuto delle tasche, persino gli spiccioli, tirò fuori pure due monetine da venti copeche dalla tasca laterale del panciotto. 

836,40 RUBLI

 Contarono i soldi, risultarono ottocentotrentasei rubli e quaranta copeche. «E questo è tutto?», domandò il giudice istruttore. «Tutto». «Poc'anzi avete detto, durante la deposizione, che avete speso trecento rubli nella bottega dei Plotnikov, ne avete dati dieci a Perchotin, venti al vetturino, qui ne avete persi duecento, poi...» Nikolaj Parfenoviè fece tutto il conto. Mitja lo aiutò volentieri. Ricordarono e inclusero nel conto ogni copeca. Nikolaj Parfenoviè tirò subito le somme. «Compresi questi ottocento, dovevate averne millecinquecento all'incirca all'inizio?» «Credo di sì», tagliò corto Mitja. «E come mai tutti affermano che ne avevate molti di più?» «E che lo affermino pure». «Ma lo avete affermato voi stesso». «Già, l'ho affermato io stesso». 

 «Controlleremo ancora attraverso le testimonianze delle persone che non sono state ancora interrogate; dei vostri soldi non vi preoccupate, verranno custoditi dove si conviene e torneranno a vostra disposizione alla fine di tutto... quello che abbiamo cominciato... se risulterà, come dire, se verrà provato che ne avete l'indiscutibile diritto. Be', ma adesso...» Nikolaj Parfenoviè si alzò di scatto e dichiarò a Mitja in tono deciso che era suo "suo dovere e obbligo" eseguire un'accuratissima e completa perquisizione "degli abiti e di tutto il resto..." «Prego, signori, rivolterò tutte le tasche, se volete». 

 E si mise per davvero a rivoltare le tasche. «È necessario che vi togliate i vestiti». «Come? Spogliarmi? Ma che diamine! Ma perquisitemi così, non si può così?» «Non è assolutamente possibile, Dmitrij Fëdoroviè. Occorre che vi togliate i vestiti». 

 «Come volete», si sottomise cupamente Mitja. «Solo, vi prego, non qui, ma dietro la tenda. Chi eseguirà la perquisizione?» «Naturalmente, dietro la tenda», annuì con il capo Nikolaj Parfenoviè. Il suo visetto aveva preso persino un'espressione di particolare solennità.