lunedì 26 luglio 2021

domenica 25 luglio 2021

V • Una decisione improvvisa

A CASA DI GRUSHENKA  


Quella stava in cucina con la nonna, entrambe stavano per andare a letto. Confidando in Nazar Ivanoviè, ancora una volta non si erano chiuse dall'interno. Mitja irruppe nella stanza, si scagliò su Fenja e la strinse forte alla gola. «Adesso parla, dov'è lei adesso, con chi sta adesso a Mokroe?», urlò inferocito. Entrambe le donne si misero a strillare. «Ahi! Ve lo dirò, Dmitrij Fëdoroviè, caro, adesso ve lo dirò, non vi nasconderò nulla», gridò Fenja, spaventata a morte, parlando molto rapidamente. «È andata a Mokroe dall'ufficiale».

 «Quale ufficiale?», urlò Mitja. «Il suo ufficiale, quello di prima, proprio quello che aveva prima, quello che la abbandonò e partì», cicalò con la stessa rapidità Fenja. Dmitrij Fëdoroviè allentò la presa intorno al collo. Stava dinanzi a lei, pallido come un cadavere e muto, ma dai suoi occhi era evidente che egli aveva capito ogni cosa di colpo, tutto d'un colpo, da una mezza parola aveva capito tutto fino all'ultimo particolare, e aveva intuito l'intera situazione. 

Certo la povera Fenja non era in grado di osservare in quel momento se quello avesse capito oppure no. Quella, così come stava quando Mitja aveva fatto irruzione nella stanza, e cioè seduta sulla cassapanca, così restava in quel momento, tutta tremante, ancora con le mani impietrite davanti a sé nel tentativo di difendersi. Le pupille dilatate dal terrore erano fisse, immobili su di lui. E a peggiorare le cose, egli aveva tutte e due le mani sporche di sangue. Per strada, mentre correva, doveva essersi toccato anche la fronte, per togliere il sudore dal viso, infatti sia la fronte sia la guancia destra erano impiastricciate di sangue. Fenja era sull'orlo di una crisi isterica, mentre la vecchia cuoca era balzata in piedi e guardava come impazzita, quasi senza coscienza. 

Dmitrij Fëdoroviè esitò per un momento e poi si lasciò cadere macchinalmente sulla sedia accanto a Fenja. Egli si era seduto ma non per riflettere, piuttosto sembrava spaventato, impietrito. Ma tutto era chiaro come il sole: egli sapeva di quell'ufficiale, sapeva tutto alla perfezione, lo aveva saputo da Grušen'ka stessa, sapeva che un mese prima egli le aveva mandato una lettera. Quindi era un mese, un mese intero che quella faccenda era andata avanti nel segreto più assoluto per lui sino all'arrivo di quel nuovo uomo: e lui, Mitja, che non ci aveva nemmeno dato peso! Ma come aveva potuto, come aveva potuto non dargli peso? Come mai se n'era dimenticato a quel modo, perché aveva cancellato quell'ufficiale subito dopo averne avuto notizia? Erano queste le domande che gli stavano dinanzi come una specie di mostruosità. Ed egli osservava quella mostruosità veramente spaventato, raggelato dal terrore. 

 Ma ad un tratto si mise a parlare con Fenja in tono calmo e carezzevole, come un bambino calmo e buono, come se avesse completamente dimenticato di averla appena spaventata, offesa, tormentata. E si mise ad interrogare Fenja con una precisione straordinaria, stupefacente, vista la condizione in cui si trovava. E Fenja, da parte sua, anche se guardava terrorizzata le mani insanguinate di lui, gli rispondeva con una premura e una prontezza sorprendenti, come impaziente di rivelargli "la verità vera". A poco a poco, persino con una specie di contentezza, cominciò ad esporgli tutti i particolari, e non già mossa dal desiderio di tormentarlo, ma come affrettandosi con tutte le proprie forze a rendergli un servizio, di tutto cuore. Gli raccontò fino nei dettagli gli avvenimenti della giornata, la visita di Rakitin e Alëša, di come lei, Fenja, aveva fatto la guardia, e poi la partenza della signora e di come la signora aveva gridato dalla finestra ad Alëša di salutare lui, Mit'enka, e di dirgli di "ricordare per tutta la vita che lo aveva amato un'oretta". Quando sentì del saluto, Mitja sorrise all'improvviso, e sulle pallide guance avvampò un repentino rossore. 

In quel momento Fenja gli domandò, senza il minimo timore di essere invadente: «Ma che vi è successo alle mani? Dmitrij Fëdoroviè, sono tutte sporche di sangue!» «Sì», rispose macchinalmente Mitja, guardandosi distrattamente le mani e dimenticando subito sia le mani sia la domanda di Fenja. Affondò un'altra volta nel suo silenzio. Dal momento in cui era entrato, erano passati una ventina di minuti. Lo spavento di poco prima gli era evidentemente passato, ma una nuova implacabile risoluzione sembrava aver preso possesso di lui. D'un tratto si alzò e sorrise con aria pensosa. «Padrone, che cosa vi è successo?», domandò Fenja indicandogli ancora una volta le mani: parlava con compassione, come se fosse lei la creatura che gli era più vicina in quel momento, nel suo dolore. 

 Mitja tornò a guardarsi le mani. «È sangue, Fenja», disse guardandola con una strana espressione, «è sangue umano, e, Dio mio, perché mai è stato versato? Ma... Fenja... c'è uno steccato qui», la guardava come se le proponesse un indovinello, «uno steccato alto e terribile a vedersi, ma... domani all'alba, quando "si leverà il sole", Miten'ka scavalcherà quello steccato... Non capisci, Fenja, di che steccato si tratta, ma non fa nulla... fa lo stesso, domani lo sentirai e capirai tutto... ma adesso addio! Non la ostacolerò, mi farò da parte, saprò farmi da parte. Vivi, gioia mia... mi hai amato solo per un'oretta, e ricorda così per sempre Miten'ka Karamazov... mi chiamava sempre Miten'ka, ti ricordi?»

DA  Pëtr Il'iè Perchotin

 E con queste parole uscì lesto dalla cucina. E quel suo modo di uscire spaventò Fenja quasi di più del suo ingresso di poco prima, quando si era scagliato contro di lei. Esattamente dieci minuti dopo Dmitrij Fëdoroviè si trovava in casa di quel giovane impiegato, Pëtr Il'iè Perchotin, al quale aveva dato in pegno le pistole. Erano già le otto e mezza e Pëtr Il'iè, dopo aver bevuto il tè a casa sua, si era appena infilato la finanziera per andare alla trattoria "La capitale" a giocare a biliardo. Mitja lo colse sulla porta di casa. Nel vederlo con la faccia tutta macchiata di sangue, quello esclamò: «Dio mio! Ma che vi è successo?» «Ecco», disse Mitja rapidamente, «sono venuto a riprendermi le pistole, vi ho riportato i soldi. Vi sono grato. Ma ho fretta, Pëtr Il'iè, per favore, fate presto». Pëtr Il'iè era sempre più stupito: nelle mani di Mitja intravide all'improvviso un mucchietto di soldi, e la cosa notevole è che egli teneva quei soldi in mano - ed era pure entrato in casa in quella posizione - come nessuno li terrebbe o entrerebbe in una casa: teneva tutte quelle banconote nella mano destra come per mostrarle, con il braccio dritto davanti a sé. Il ragazzo, il servitore dell'impiegato, che aveva fatto entrare Mitja in anticamera, raccontava in seguito che egli era entrato in quel modo in casa, con quei soldi in mano, quindi anche per la strada li aveva portati in quella maniera, nella mano destra tesa davanti a sé. Le banconote erano tutte da cento rubli, iridate, ed egli le teneva fra le dita insanguinate. Alle domande che gli furono poste in seguito da chi di dovere - per esempio, quanti soldi esattamente aveva Dmitrij Fëdoroviè esattamente in quel momento? - Pëtr Il'iè dichiarò che sarebbe stato difficile indicare la somma precisa, forse erano duemila, forse tremila rubli, ma il mazzetto era grosso, "cospicuo". Quanto a Dmitrij Fëdoroviè, come testimoniò in seguito, egli "era come fuori di sé, non ubriaco, ma piuttosto eccitato, molto distratto, e nello stesso tempo come concentrato, come se stesse ponderando qualcosa, cercando qualcosa, ma incapace di decidere. Aveva molta fretta, rispondeva a scatti, in maniera strana, e in alcuni momenti non sembrava affatto addolorato, ma persino allegro." «Ma che cosa vi prende? Cosa c'è che non va adesso?», esclamò un'altra volta Pëtr Il'iè, guardando stupefatto il suo ospite. «Come mai siete tutto insanguinato? Siete caduto? Ma guardatevi!» Lo afferrò per un gomito e lo condusse davanti a uno specchio. Vedendo il proprio viso macchiato di sangue, egli trasalì e si accigliò stizzito. «Al diavolo! Ci mancava anche questa», borbottò con stizza, passando rapidamente le banconote dalla mano destra alla sinistra ed estraendo febbrilmente il fazzoletto dalla tasca. Ma anche il fazzoletto era tutto intriso di sangue (con quello stesso fazzoletto aveva tentato di pulire la testa e il viso di Grigorij): quasi quasi non c'era nemmeno un angolino bianco, e il fazzoletto non solo aveva iniziato a seccarsi, ma si era come indurito in una palla raggrinzita che non si riusciva più a svolgere. Mitja lo scaraventò con rabbia sul pavimento. «Al diavolo! Non avreste uno strofinaccio qualsiasi... per darmi una pulita...» «Così vi siete solo macchiato, non siete ferito? Fareste meglio a lavarvi», disse Pëtr Il'iè. «Lì c'è un lavabo, vi verserò dell'acqua». «Un lavabo? Va bene... solo che questi dove li metto?», e con una perplessità oltremodo strana egli indicò a Pëtr Il'iè il mucchietto delle banconote da cento rubli, guardandolo con aria interrogativa, come se toccasse all'altro decidere dove lui doveva mettere il proprio denaro. «Infilateli in tasca oppure poggiateli qui sul tavolo, non si perderanno». «In tasca? Sì, in tasca. Va bene... No, vedete, questa è una stupidaggine!», esclamò come uscendo dal suo stato di distrazione. «Vedete: prima concludiamo la faccenda delle pistole, voi me le restituite, ecco il vostro denaro... perché ne ho estremo, estremo bisogno... e invece non ho un attimo... un attimo da perdere...» E prendendo la prima banconota da cento rubli dal mucchietto, la porse all'impiegato. «Ma non ho resto», osservò quello. «Non avreste spiccioli?» «No», rispose Mitja riguardando il mucchietto e, come se non fosse sicuro della sua osservazione, controllò le prime due o tre banconote. «No, sono tutte da cento», soggiunse e guardò un'altra volta con aria interrogativa Pëtr Il'iè. «Ma come avete fatto a diventare così ricco?», gli domandò quello. «Aspettate, mando un attimo il ragazzo dai Plotnikov. Loro chiudono tardi - per vedere se possono cambiare. Ehi, Miša!», gridò in direzione dell'anticamera. «Alla bottega dei Plotnikov: magnifica idea!», esclamò Mitja come folgorato da un'idea. «Miša», si rivolse al ragazzo che entrava. «Ascolta, fa un salto dai Plotnikov e di' che Dmitrij Fëdoroviè porge i suoi saluti e fra poco verrà di persona...E ascolta, ascolta: che preparino dello champagne per il mio arrivo, tre dozzine di bottiglie, che le mettano nelle casse come l'altra volta che sono andato a Mokroe... Quella volta ne presi quattro dozzine», si rivolse di scatto a Pëtr Il'iè, «sanno loro quel che devono fare, non ti preoccupare, Misa», disse rivolgendosi un'altra volta al ragazzo. «E ascolta ancora: di' di metterci del formaggio, pâté di Strasburgo, lavarelli affumicati, prosciutto, caviale e tutto, tutto quello che hanno per la somma di cento, centoventi rubli, come quella volta... Ascolta ancora: che non dimentichino i dolci: i confetti, pere, due o tre angurie, o meglio quattro - no, un'anguria sarà sufficiente, e poi cioccolata, caramelle, montpensier, fondant, tutto quello che mi misero la volta che andai a Mokroe, in modo che, compreso lo champagne, la somma ammonti a trecento rubli... Be', che sia tutto come l'altra volta. E ricordati Miša, se ti chiami Miša... Si chiama Miša, non è vero?», e si rivolse nuovamente a Pëtr Il'iè. «Ma aspettate», lo interruppe Pëtr Il'iè che lo osservava e ascoltava preoccupato, «fareste meglio ad andarci di persona ad ordinare tutto questo, lui si confonderà di certo». «Si confonderà, è vero, si confonderà! Ehi, Miša, ero sul punto di baciarti per la commissione che mi facevi... Se non ti confonderai, dieci rubli saranno per te, al galoppo, forza... Lo champagne è la prima cosa che devono andare a prendere, e anche il cognac, e del rosso e del bianco, tutto come l'altra volta... Loro lo sanno come facemmo l'altra volta». «Ma ascoltatemi!», lo interruppe impaziente Pëtr Il'iè. «Io credo che sia meglio che il ragazzo corra a cambiare i soldi e dica di non chiudere, poi voi stesso andrete e ordinerete... Datemi la vostra banconota. Corri, Miša: a gambe levate!» Sembrava che Pëtr Il'iè si fosse affrettato a sbarazzarsi di Miša di proposito, perché quello era rimasto lì impalato con la stessa faccia che aveva fatto nel vedere entrare l'ospite, con gli occhi spalancati su quel viso coperto di sangue e quelle mani insanguinate con il mucchietto di soldi fra le dita tremanti, e la bocca spalancata per lo stupore e la paura, e forse comprendendo ben poco di tutto quello che gli ordinava Mitja. «Bene, adesso andiamo a lavarci», disse in tono severo Pëtr Il'iè. «Poggiate i soldi sul tavolo o infilateli in tasca... Ecco, così, andiamo. E toglietevi la finanziera». E si mise ad aiutarlo a levarsi la finanziera, quando ad un tratto esclamò: «Guardate, avete anche la finanziera sporca di sangue!» «Non... non è la finanziera. È solo un pochino la manica... Ecco, solo qui, dove stava il fazzoletto. Deve essere filtrato dalla tasca. Da Fenja mi sono seduto proprio sul fazzoletto», si affrettò a spiegare Mitja con un candore stupefacente. Pëtr Il'iè ascoltava con aria accigliata. «Avrete combinato qualcosa; vi sarete battuto con qualcuno», mormorò. Cominciarono il lavaggio. Pëtr Il'iè reggeva la brocca e versava l'acqua a poco a poco. Mitja andava di fretta e fece per insaponarsi appena appena le mani. (Le mani gli tremavano, come ricordò in seguito Pëtr Il'iè). Pëtr Il'iè gli ordinò di insaponarsi ancora e di sfregarsi meglio. Sembrava aver acquisito su Mitja una certa autorità che cresceva di momento in momento. Noteremo a questo proposito che il giovanotto aveva un carattere fermo. «Guardate, non vi siete lavato sotto le unghie. Adesso sfregatevi il viso, ecco lì, sulle basette, vicino all'orecchio... Partirete con quella camicia? Ma dove credete di andare? Guardate, avete tutto il polsino della manica destra sporco di sangue». «Sì, sporco di sangue», notò Mitja osservando il polsino della camicia. «Allora cambiatevi la camicia». «Non ho tempo. Vedete, io...», proseguì Mitja con lo stesso candore di prima, asciugandosi già il viso e le mani con l'asciugamani e indossando la finanziera, «ecco, arrotolerò l'orlo della manica, così non si vedrà da sotto la finanziera... Guardate!» «Adesso ditemi, dove avete combinato tutto questo? Vi siete battuto con qualcuno? Non sarà avvenuto ancora in trattoria, come l'altra volta? Non sarà stato ancora una volta con quel capitano che quella volta picchiaste e tiraste per la barba?», gli ricordò Pëtr Il'iè in tono di rimprovero. «Chi altro avete picchiato... o ammazzato forse?» «Sciocchezze!», disse Mitja. «Come, sciocchezze?» «Non è il caso che vi preoccupiate», disse Mitja sorridendo all'improvviso. «Ho appena schiacciato una vecchietta sulla piazza». «Avete schiacciato? Una vecchietta?» «Un vecchio!», gridò Mitja guardando Pëtr Il'iè dritto in faccia, ridendo e gridando come se l'altro fosse sordo. «Oh, al diavolo, un vecchio, una vecchia... Avete ucciso qualcuno?» «Abbiamo fatto pace. Abbiamo litigato e poi abbiamo fatto pace. In un posto che conosco. Ci siamo lasciati da amici. Un imbecille... mi ha perdonato... adesso mi ha perdonato sicuramente... Se si fosse rialzato, non mi avrebbe perdonato», ammiccò Mitja all'improvviso, «ma sapete, che vada al diavolo - mi sentite? Pëtr Il'iè, che vada al diavolo! Non è il caso che vi preoccupiate! In questo momento non ne voglio sapere niente!», tagliò corto bruscamente Mitja. «Ecco, mi riferivo proprio al gusto che avete di attaccare briga con tutti... come quella volta con quel capitano per un nonnulla... avete fatto a botte e ora vi precipitate a gozzovigliare: ecco il vostro carattere. Tre dozzine di bottiglie di champagne, ma che ve ne farete?» «Bravo! Adesso datemi le pistole. Quanto è vero Iddio, non c'è tempo da perdere. Avrei voglia di fermarmi a parlare con te, caro mio, ma non ho tempo. E poi non servirebbe a niente, è troppo tardi. Ah! Ma dov'è il denaro? Dove l'ho messo?», gridò e cominciò a frugare nelle tasche. «Lo avete poggiato sul tavolo... voi stesso... eccolo là. Ve n'eravate dimenticato? Per voi il denaro è come immondizia o acqua. Ecco le vostre pistole. Strano: soltanto alle sei di quest'oggi le avete impegnate per dieci rubli e ora ecco ne avete a migliaia. Saranno due o tremila?» «Tremila, esatto», scoppiò a ridere Mitja, pigiando i soldi nella tasca laterale dei pantaloni. «Ma così li perderete. Avete forse trovato una miniera d'oro?» «Una miniera? Una miniera d'oro!», gridò Mitja a squarciagola e si sbellicò dalla risa. «Vorreste andare alle miniere d'oro, Perchotin? C'è giusto una signora qui che sborserebbe tremila rubli se solo partiste per le miniere. L'ha fatto anche con me, va pazza per le miniere! Conoscete la Chochlakova?» «Non di persona, ne ho sentito parlare e la conosco di vista. È stata forse lei a darvi quei tremila rubli? Ve li ha sborsati così?» Pëtr Il'iè lo guardava incredulo. «E voi domani, non appena si leverà il sole, non appena Febo, eternamente giovane, sorgerà, a lode e gloria di Dio, domani andateci da lei, dalla Chochlakova, e domandateglielo voi stesso se mi ha sborsato tremila rubli oppure no. Scopritelo da voi». «Non conosco i vostri rapporti... dal momento che lo affermate con tanta sicurezza vuol dire che ve li ha dati... E voi adesso che avete i soldini nelle vostre grinfie, invece di andare in Siberia, con tutti quei tremila... A proposito, ma dove state andando?» «A Mokroe». «A Mokroe? Ma se è buio!» «Una volta Mastrjuk aveva tutto e ora è rimasto a becco asciutto!», replicò di scatto Mitja. «Come a becco asciutto? Con migliaia di rubli, dite a becco asciutto?» «Non parlo dei rubli! Al diavolo il denaro! Sto parlando del carattere delle donne: Infida è l'indole delle donne volubile e colma di vizio. Sono d'accordo con Ulisse, è lui che dice così». «Non vi capisco!» «Sono ubriaco, per caso?» «Ubriaco no, peggio». «Sono ubriaco nello spirito, Pëtr Il'iè, sono ubriaco nello spirito, ma adesso basta, basta...» «Ma che fate, caricate la pistola?» «Carico la pistola». Aperto l'astuccio delle pistole, Mitja aveva davvero stappato il corno con la polvere da sparo che aveva accuratamente versato e compresso nella carica. Poi aveva preso una pallottola e prima di inserirla, l'aveva sollevata tra due dita davanti a sé sopra una candela. «Perché esaminate la pallottola?», domandò Pëtr Il'iè mentre lo osservava con inquieta curiosità. «Così, per una certa idea. Se aveste intenzione di spararvi una pallottola nel cervello, non guardereste la pallottola prima di caricare la pistola?» «A che scopo guardarla?» «Dal momento che deve entrare nel mio cervello, sarebbe interessante darci un'occhiatina per vedere com'è fatta... Ma del resto sono delle sciocchezze, delle sciocchezze del momento. Ecco fatto», soggiunse, inserendo la pallottola e spingendola con lo stoppaccio. «Pëtr Il'iè, caro, sono sciocchezze, tutte sciocchezze, se solo sapeste fino a che punto sono delle sciocchezze! Datemi qua un pezzo di carta adesso!» «Eccola». «No, un foglio liscio, pulito, per scriverci sopra. Ecco, così». E Mitja, afferrata la penna dal tavolo, scrisse rapidamente due righe sul foglio, lo piegò in quattro e lo infilò nel taschino del panciotto. Ripose le pistole nell'astuccio, lo chiuse con la chiavetta e prese l'astuccio in mano. Dopo di che, guardò Pëtr Il'iè e gli sorrise a lungo, pensierosamente. «Adesso possiamo andare», disse. «Andare dove? No, aspettate... Avete forse intenzione di spararvela nel cervello, quella pallottola intendo...», domandò Pëtr Il'ic turbato. «Ma stavo scherzando con quella pallottola! Voglio vivere, io amo la vita! Sappilo questo. Amo Febo dai riccioli d'oro e la sua luce ardente... Caro Pëtr Il'iè, tu sai farti da parte?» «In che senso farmi da parte?» «Lasciare la strada libera. Lasciare la strada libera a una persona cara e a un'altra che odi. E fare in modo che quella che odi, ti diventi cara, ecco, lasciare la strada libera in questo senso! E dir loro: che Dio vi benedica, andate, passate pure mentre io...» «Mentre voi?» «Basta, andiamo». «Quanto è vero Iddio, dirò a qualcuno», disse Pëtr Il'iè guardandolo, «che non vi permettano di andare. A che vi serve andare a Mokroe adesso?» «C'è una donna lì, una donna, e adesso basta, Pëtr Il'iè, chiudi il becco!» «Ascoltate, per quanto siate un tipo selvaggio, mi siete sempre piaciuto... ecco perché mi preoccupo». «Grazie, fratello. Selvaggio, dici. Selvaggi, selvaggi! Lo dico sempre anch'io: selvaggi! Ma ecco Miša, me n'ero quasi dimenticato». Misa entrò in tutta fretta con il mucchietto dei soldi cambiati e riferì che dai Plotnikov "si davano tutti un gran da fare", stavano portando su bottiglie, pesce, tè, sarebbe stato tutto pronto in un baleno. Mitja afferrò una banconota da dieci rubli e la diede a Pëtr Il'iè, poi ne prese un'altra dello stesso valore e la lanciò a Miša. «Non vi permettete!», gridò Pëtr Il'iè. «In casa mia non si fanno queste cose, è un pessimo vezzo questo. Mettete via i vostri soldi, ecco, poggiateli qua, perché buttarli via in questo modo? Potranno tornarvi utili domani stesso, potreste venire anche domani a richiedermi dieci rubli. Ma perché continuate a infilare le banconote nella tasca laterale? Così le perderete!» «Ascolta, amico mio, andiamo insieme a Mokroe!» «Che ci vengo a fare io?» «Allora, stappiamo una bottiglia adesso per brindare alla vita, vuoi? Ho voglia di bere, e ho voglia di bere proprio con te. Non ho mai bevuto insieme a te, vero?» «Bene, possiamo bere alla trattoria, andiamo, ero giusto diretto lì». 

 «Per la trattoria non ho tempo, andiamo alla bottega dei Plotnikov, nella stanza sul retro. Se vuoi ti proporrò un indovinello». «Forza, allora». Mitja estrasse dalla tasca del panciotto il suo foglietto, lo svolse e glielo mostrò. A caratteri grossi e ben distinti c'era scritto: "Condanno me stesso per tutta la vita, punirò tutta la mia vita!" «Parlerò sicuramente con qualcuno, andrò a parlarci subito», disse Pëtr Il'iè dopo aver letto il foglietto. «Non farai in tempo, caro, andiamo a bere, marsc!»

  La bottega dei Plotnikov

 La bottega dei Plotnikov si trovava all'angolo della strada a una casa, o giù di lì, di distanza dalla casa di Pëtr Il'iè. Era la drogheria principale della nostra città, apparteneva a ricchi commercianti, e come negozio non era affatto male. C'era tutto quello che si poteva trovare in una drogheria della capitale: vino "imbottigliato dai fratelli Eliseev", frutta, sigari, tè, zucchero, caffè e così via. In negozio c'erano fissi tre commessi e due garzoni per le commissioni. Anche se la nostra zona si è impoverita, i proprietari terrieri sono andati via e il commercio ha subito una battuta d'arresto, tuttavia la drogheria andava a gonfie vele come prima, anzi migliorava di anno in anno: i clienti non mancavano mai per quella merce. Alla bottega Mitja era atteso con impazienza. Ricordavano molto bene di come, due o tre settimane prima, egli avesse comprato vini e merci di ogni tipo per l'ammontare di alcune centinaia di rubli in contanti (naturalmente non gli avrebbero mai fatto credito), ricordavano che anche allora, come adesso, nella mano gli spuntava un intero mucchietto di banconote iridate che sperperava di qua e di là a casaccio, senza contrattare sul prezzo, senza riflettere, né voler riflettere, a cosa gli servisse tutta quella merce, quel vino e così via. Più tardi, in tutta la città, girava voce che quando era partito per Mokroe in compagnia di Grušen'ka "aveva gettato al vento in una sola notte e il giorno successivo ben tremila rubli ed era tornato dai bagordi senza il becco di un quattrino, così come lo aveva fatto la mamma". Aveva invitato un intero accampamento di zigani (che transitavano dalle nostre parti in quel periodo) e questi per due giorni interi gli avevano spillato, mentre era ubriaco, denaro in quantità incalcolabile e avevano bevuto i migliori vini in quantità incalcolabile. La gente andava raccontando, ridendo alle spalle di Mitja, che a Mokroe aveva offerto champagne a rozzi contadini, aveva sfamato donne e ragazze di campagna a base di dolci e pâté di Strasburgo. Lo prendevano in giro, soprattutto alla trattoria, per l'ingenua ammissione fatta in pubblico da Mitja stesso, secondo la quale, come ricompensa per quella "escapade", da Grušen'ka era riuscito ad ottenere soltanto "il permesso di baciarle il piedino, niente di più". Ovviamente non lo prendevano in giro in sua presenza, giacché sarebbe stato molto pericoloso farlo. 

 Quando Mitja e Pëtr Il'iè raggiunsero la bottega, presso l'ingresso, trovarono tre cavalli già pronti e attaccati a un carro coperto, con le campanelle e i sonagli, e il vetturino Andrej in attesa di Mitja. Alla bottega avevano quasi finito di "confezionare" una cassa di merce e aspettavano soltanto l'arrivo di Mitja per sigillarla e sistemarla sul carro. Pëtr Il'iè si meravigliò. «Ma come hai fatto a procurarti così in fretta quel carro?», domandò a Mitja. «Mentre correvo da te, ecco che ti incontro Andrej, così gli ho ordinato di farsi trovare direttamente qui presso la bottega. Non c'è tempo da perdere! La volta scorsa sono andato con Timofej, ma questa volta Timofej se l'è battuta, mi ha preceduto con una certa ammaliatrice. Andrej, faremo troppo ritardo?» «Arriveranno lì solo un'oretta prima di noi e anche meno forse, vedrete che ci precederanno di appena un'oretta!», s'affrettò a rispondere Andrej. «Timofej l'ho mandato io e so a che velocità va. Il loro passo non sarà uguale al nostro, Dmitrij Fëdoroviè, e come potrebbe essere? Non ce la faranno a sgraffignarci nemmeno un'oretta!», soggiunse con calore. Andrej era un vetturino ancora giovane: un tipo rossiccio, segaligno, che indossava la poddëvka e un grosso gabbano sul braccio sinistro. «Cinquanta rubli per la vodka se arriveremo soltanto un'ora più tardi di loro». «Vi garantisco un'ora, Dmitrij Fëdoroviè; ma no, quelli non ci precederanno nemmeno di mezz'ora, altro che un'ora!» Mitja si dava un gran da fare per impartire le necessarie disposizioni, però parlava e dava ordini in maniera strana, sconnessa, senza logica. Cominciava a dire una frase e dimenticava di finirla. Pëtr Il'iè si sentì in dovere di intervenire in suo aiuto. «Per quattrocento rubli, non meno di quattrocento, che sia tutto esattamente come l'altra volta», comandava Mitja. «Quattro dozzine di bottiglie di champagne, non una di meno». «Ma a che te ne servono tante? Ferma!», strillò Pëtr Il'iè. «Che cos'è questa cassa? Che cosa c'è dentro? Non vorrete dirmi che dentro c'è roba per quattrocento rubli?» Immediatamente gli affaccendati commessi si misero a spiegargli, con smancerosa eloquenza, che in quella prima cassa c'erano soltanto mezza dozzina di bottiglie di champagne e "merci varie di prima necessità", antipasti, dolci, montpensier e cose del genere. Mentre l'"occorrente" principale sarebbe stato impacchettato e spedito immediatamente, ma a parte, come l'altra volta, in un carro speciale, anche quello tirato da tre cavalli, che sarebbe arrivato in tempo, "forse non più tardi di un'ora dopo l'arrivo di Dmitrij Fëdoroviè". «Non più di un'ora, che non sia più di un'ora, e metteteci quanti più montpensier e fondant potete; alle ragazze là piacciono molto», insisteva con calore Mitja. «Che vada per i fondant. Ma quattro dozzine di bottiglie a che ti servono? Ne basta una». Pëtr Il'iè era sul punto di perdere la pazienza. Si mise a mercanteggiare, richiese il conto, non voleva darsi pace. Tuttavia riuscì a salvare soltanto un centinaio di rubli. Si accordarono sul fatto che la merce fornita non ammontasse a più di trecento rubli. «E andate al diavolo adesso!», gridò Pëtr Il'iè ripensandoci su. «Non sono mica fatti miei! Getta pure al vento il tuo denaro, se non ti costa niente!» 

BRINDISI CON L'IMPIEGATO

 «Vieni qua, economo mio, su, non te la prendere», e Mitja lo tirò nel retrobottega. «Adesso ci serviranno una bottiglia qui e noi la assaggeremo. Su, Pëtr Il'iè, vieni con me, sei una persona simpatica, del genere che piace a me». Mitja si sedette su una seggiolina di vimini davanti a un minuscolo tavolino coperto da una tovaglietta lurida. Pëtr Il'iè gli sedette di fronte e un attimo dopo fu servito lo champagne. Chiesero se i signori gradissero delle ostriche, "ostriche di primissima qualità, appena arrivate". «Al diavolo le ostriche, non le mangerò, no, non vogliamo niente», grugnì Pëtr Il'iè quasi con rabbia. «Non c'è tempo per le ostriche», osservò Mitja, «e poi non ho nemmeno appetito. Sai, amico mio», gli disse poi con sentimento, «non mi è mai piaciuto questo disordine». «E chi lo ama! Tre dozzine di bottiglie? E per i contadini? Ma fammi il piacere, questo farebbe rabbia a chiunque». «Non sto parlando di questo. Sto parlando di un ordine superiore. In me non c'è ordine, ordine superiore... Ma... è tutto finito, non c'è nulla da rimpiangere. È tardi, al diavolo! Tutta la mia vita è trascorsa nel disordine e occorre mettere ordine. Sto facendo giochi di parole, vero?» «Stai vaneggiando, altro che giochi di parole». «Gloria al Signore che è nel mondo Gloria al Signore che è in me! Questi versetti mi sono nati dal cuore una volta, non sono versi, ma lacrime... li ho inventati io... ma non quando tiravo per la barba quel capitano...» «Perché ad un tratto parli di lui?» «Perché parlo di lui ad un tratto? Ma è una sciocchezza! Tutto finisce, tutto si pareggia, un trattino e hai il totale». «Sai, continuano a venirmi in mente le tue pistole». «Anche le pistole sono una sciocchezza! Bevi e non stare a fantasticare. Amo la vita, sono troppo innamorato della vita, troppo, vergognosamente troppo. Basta! Alla vita, mio caro, beviamo alla vita, propongo un brindisi alla vita! Perché mai sono soddisfatto di me? Sono un mascalzone, ma sono soddisfatto di me. Eppure mi tormento di essere un mascalzone soddisfatto di me stesso. Benedico la creazione, adesso sono pronto a benedire Dio e la sua creazione, ma... bisogna eliminare un insetto pericoloso per timore che strisciando vada a guastare la vita degli altri... Beviamo alla vita, fratello caro! Che cosa ci può essere più caro della vita? Niente, niente! Alla vita e alla regina delle regine!» «E allora beviamo alla vita e pure alla tua regina». Bevvero un bicchiere a testa. Seppur eccitato ed espansivo, Mitja sembrava triste. Come se una preoccupazione insormontabile e penosa gravasse su di lui. «Miša... è il tuo Miša che è entrato? Miša, caro, Miša, vieni qui, bevimi questo bicchiere, a Febo dai riccioli d'oro, a domani...» «Ma perché offrire dello champagne a lui?», gridò Pëtr Il'iè irritato. «Ma dai, perché ne ho voglia». «E-eh!» Miša tracannò il bicchiere, fece un inchino e scappò via. «Si ricorderà più a lungo di me», osservò Mitja. «Amo una donna, una donna! Che cos'è la donna? La regina della terra! Sono triste, triste, Pëtr Il'iè. Ti ricordi Amleto: "Sono così triste, così triste, Orazio... Ah, povero Yorick!" Forse sono io, Yorick. Sì, in questo momento sono Yorick e poi sarò un teschio». Pëtr Il'iè ascoltava in silenzio, tacque anche Mitja. «Che cagnolino avete lì?», domandò all'improvviso al commesso, notando casualmente un minuscolo cagnetto maltese dagli occhi neri. «È di Varvara Alekseevna, della padrona», rispose il commesso. «L'ha portato lei stessa qui e poi se l'è dimenticato. Bisognerà riportarglielo». «Ne ho visto uno tale e quale... al reggimento...», disse Mitja pensierosamente, «solo che quello aveva una zampetta posteriore rotta... Pëtr Il'iè, volevo proprio domandarti: hai mai rubato qualcosa nella tua vita?» «Ma che domanda è mai questa?» «Così, tanto per dire. Dalla tasca di qualcuno, capisci? Non parlo del denaro dello Stato, quello lo sgraffignano tutti, anche tu certamente...» «Ma va' al diavolo...» «Parlo del denaro altrui: dritto dalla tasca di un altro, dal borsellino, eh?» «Una volta rubai una monetina da venti copeche a mia madre dal tavolo, avevo nove anni. La presi pian pianino e la strinsi nella mano». «E poi?» «E poi niente. La conservai tre giorni, provai vergogna, confessai e la restituii». «E allora?» «Naturalmente, mi picchiarono. Ma perché me lo chiedi, hai rubato qualcosa tu?» «Ho rubato», ammiccò maliziosamente Mitja. «Che cosa hai rubato?», indagò Pëtr Il'iè. «Una moneta da venti copeche a mia madre, avevo nove anni, dopo tre giorni la restituii». Detto questo, Mitja si alzò di colpo. «Dmitrij Fëdoroviè, non dobbiamo affrettarci?», gli gridò dall'ingresso della bottega Andrej. «Tutto pronto? Partiamo!», s'avviò Mitja di scatto. 






«Ancora qualche parola e... Andrej, su, un bicchierino di vodka, il bicchiere della staffa! Dategli pure del cognac, oltre alla vodka, un bicchierino! Quell'astuccio (con le pistole) mettetelo da me, sotto il sedile. Addio, Pëtr Il'iè, non serbarmi rancore». «Ma tornerai domani, vero?» «Certamente». 

 «Vorreste saldare il conticino adesso?», s'avvicinò d'un balzo uno dei commessi. «Ah, sì, il conto! Certamente!» Egli tirò fuori nuovamente dalla tasca il suo mucchietto di banconote, ne prese tre da cento rubli, le gettò sul bancone e uscì di corsa dalla bottega. Lo seguirono tutti e lo accompagnarono fra inchini, saluti e auguri di buon viaggio. Andrej, dopo aver bevuto il suo cognac, si raschiò la gola e balzò a cassetta.

FENJA 

Mitja stava per prendere posto, quando all'improvviso, del tutto inaspettatamente, si trovò davanti Fenja. Era arrivata di corsa, tutta trafelata, con un grido aveva giunto le mani davanti a lui e si era gettata ai suoi piedi: «Batjuška, Dmitrij Fëdoroviè, caro, non fate del male alla padrona! Sono stata io a raccontarvi tutto!... E non uccidete neanche lui, è venuto prima di voi, è quello suo! Adesso sposerà Agrafena Aleksandrovna, per questo è tornato dalla Siberia... Batjuška, Dmitrij Fëdoroviè, non rovinate la vita altrui!» 

 «Ma guarda un po', ecco di che si tratta! Allora hai proprio intenzione di combinare qualche guaio laggiù!», mormorò tra sé e sé Pëtr Il'iè. «Adesso capisco tutto, come non capire adesso? Dmitrij Fëdoroviè, dammi subito le pistole, se intendi comportarti da uomo», esclamò poi a voce alta rivolgendosi a Mitja. «Hai capito, Dmitrij?» 

 «Le pistole? Aspetta un po', amico mio, le getterò in una fossa durante il tragitto», rispose Mitja. «Fenja, alzati, non stare in ginocchio davanti a me. Mitja non ucciderà nessuno, questo stupido uomo non farà più male a nessuno d'ora in poi. Ascolta, Fenja», le gridò dopo essersi seduto, «poco fa ti ho offesa, perdonami, ti prego, perdona un mascalzone...E se non mi perdonerai, fa lo stesso! Perché a questo punto, fa lo stesso! Frusta, Andrej, vola a tutta velocità!» 

PARTENZA

 Andrej frustò i cavalli e i campanelli si misero a tintinnare. «Addio, Pëtr Il'iè! La mia ultima lacrima è per te!» 

RIFLESSIONI DI PETR ILIE

 "Non è ubriaco, eppure spara certe assurdità!", pensò Pëtr Il'iè guardandolo andar via. Aveva una mezza intenzione di fermarsi a controllare come avrebbero preparato per il viaggio il carro (anche quello un tiro a tre) con il resto delle provviste e dei vini, giacché prevedeva che quelli avrebbero imbrogliato e derubato Mitja, ma poi, irritato con se stesso, sputò e si diresse alla trattoria a giocare a biliardo. «È un imbecille, però è un bravo ragazzo...», borbottava tra sé e sé durante il tragitto. «Avevo già sentito di quel certo ufficiale, quello che stava "prima" con Grušen'ka. Ma se è già arrivato, allora... Ah, quelle pistole! Ma al diavolo, non sono mica la sua balia io! Che se le tenga! E poi non succederà nulla. Sono una masnada di buffoni, nient'altro. Si ubriacheranno, si picchieranno, si picchieranno e faranno la pace. Non è gente che fa sul serio quella! Che cosa voleva dire con quel "mi farò da parte" e poi "mi punirò"? Non concluderà un bel nulla. Ha gridato migliaia di volte frasi del genere alla trattoria. Ma adesso non era ubriaco. "Ubriaco nell'anima": ai mascalzoni piacciono le belle frasi. Ma non sono mica la sua balia, io. Sicuramente s'era preso a botte con qualcuno, aveva tutto il muso insanguinato. Ma con chi? Ne saprò qualcosa alla trattoria. E anche il fazzoletto era insanguinato... Al diavolo, è ancora sul pavimento di casa mia... ma io me ne infischio!" 

IN TRATTORIA

Arrivò alla trattoria di pessimo umore e si mise subito a fare una partita. La partita gli fece tornare il buonumore. Ne incominciò un'altra e su due piedi si mise a raccontare a uno dei suoi compagni di gioco che Dmitrij Fëdoroviè si era trovato un'altra volta con un mucchio di soldi, tremila rubli circa, li aveva visti con i suoi occhi, ed era scappato un'altra volta a scialacquarli a Mokroe in compagnia di Grušen'ka. 

La notizia suscitò un singolare interesse nei suoi ascoltatori. E tutti quanti presero a commentare il fatto senza ridere, anzi, con un'aria stranamente grave. Interruppero persino la partita. «Tremila? Ma da dove li avrà pescati tremila rubli?» Presero a fargli altre domande. Accolsero con diffidenza la notizia sulla Chochlakova. «Ci sarebbe da chiedersi se non abbia derubato il vecchio?» «Tremila! C'è qualcosa che non torna». «Si vantava davanti a tutti ad alta voce che avrebbe ucciso il padre, l'hanno sentito tutti qui. Parlava proprio a proposito di tremila rubli...» 

 Pëtr Il'iè ascoltava e ad un tratto iniziò a dare riposte secche e concise alle domande che gli ponevano. Non fece parola del sangue sul viso e sulle mani di Mitja, mentre, sulle prime, aveva pensato di dirlo. Cominciarono la terza partita e a poco a poco si smise di parlare di Mitja; ma dopo aver terminato la terza partita, Pëtr Il'iè non ebbe più voglia di giocare, posò la stecca e lasciò la trattoria senza cenare, contrariamente a quanto aveva deciso in precedenza. 

Giunto alla piazza, egli rimase perplesso e quasi meravigliato di se stesso. Si era reso conto all'improvviso di voler andare subito da Fëdor Pavloviè per sapere se gli fosse accaduto qualcosa. 

"E io dovrei svegliare una casa di persone che non conosco per una cosa che si rivelerà senz'altro una sciocchezza e così provocare uno scandalo? Ma insomma, sono forse la sua balia?" Di pessimo umore, si avviò verso casa sua, quando all'improvviso gli sovvenne il ricordo di Fenja: "Dannazione! Se le avessi chiesto qualche informazione poco fa", pensò stizzito, "avrei saputo tutto". 

E il desiderio di parlarle e quindi di scoprire come stessero le cose, divenne così pressante e insistente che a metà strada egli svoltò bruscamente verso la casa della Morozova, dove alloggiava Grušen'ka. Arrivato al portone, bussò, ma i rintocchi che si levarono nella quiete della notte lo ricondussero alla ragione e lo irritarono. Per di più non rispose nessuno, dormivano tutti.

 "Finirò con il sollevare uno scandalo anche qui!" pensò con una stretta penosa al cuore, ma, invece di andarsene una volta per tutte, bussò un'altra volta e con tutte le sue forze. Il rumore fragoroso si udì per tutta la strada. «Non vengono ad aprire? E allora busserò, busserò finché non si sveglieranno!», borbottava e a ogni colpo se la prendeva contro se stesso, esasperato, ma nel contempo raddoppiava i colpi alla porta.

IV • Nelle tenebre

 Dove stava correndo? È chiaro:


"Dove può essere lei se non da Fëdor Pavloviè? Da casa di Samsonov è corsa dritta dritta da lui, adesso è tutto chiaro. Tutto l'intrigo, tutto l'inganno adesso sono chiari..." 

Un vortice di pensieri gli mulinava nel cervello. Evitò di passare dal cortile che portava da Mar'ja Kondrat'evna: "Non c'è bisogno di andare lì, non c'è affatto bisogno... di mettere in allarme qualcuno... andrebbero subito ad avvertire, subito ad avvertire... Mar'ja Kondrat'evna è d'accordo con loro, si vede, e anche Smerdjakov, sono tutti comprati!"

A CASA DEL PADRE 

Aveva formulato un altro piano d'azione: fece il giro largo intorno alla casa di Fëdor Pavloviè, attraversò un vicoletto, corse lungo la Dmitrovskaja, superò di volata il ponticello e finì dritto nel vicoletto deserto alle spalle della casa, vuoto e disabitato, delimitato da un lato dalla siepe dell'orto dei vicini e, dall'altro, dallo steccato alto e solido che circondava il giardino di Fëdor Pavloviè. 

Da lì scelse un punto, forse quello stesso attraverso il quale, secondo la storia che anche lui conosceva, Lizaveta Smerdjascaja aveva scavalcato lo steccato quella volta. "Se ci è riuscita lei, perché non dovrei riuscire anch'io a scavalcarlo?" gli passò per la mente chissà per quale ragione. E difatti fece un salto e riuscì immediatamente a raggiungere con la mano la sommità dello steccato, poi si tirò su con forza, e dopo un solo tentativo si trovò a cavalcioni dello steccato. Non lontano nel giardino c'era la casetta del bagno, ma dalla sommità dello steccato si vedevano anche le finestre illuminate della casa. "È lì, la luce della camera da letto del vecchio è accesa, lei è lì!" e così dallo steccato saltò giù in giardino. Pur sapendo che Grigorij era malato e che, forse, anche Smerdjakov era malato sul serio, e che quindi nessuno poteva sentirlo, istintivamente si nascose, rimase immobile e teso all'ascolto. 

Ma tutt'intorno regnava un silenzio di morte e, come a farlo apposta, una quiete assoluta, non soffiava neanche un alito di vento. "Nulla tranne il bisbiglio del silenzio", gli balenò in mente quel verso, per qualche ragione, "a meno che non mi abbia sentito qualcuno mentre scavalcavo lo steccato; ma credo di no". Dopo una breve sosta, egli si avviò pian piano per il giardino, sull'erba; aggirando gli alberi e i cespugli, camminò a lungo, attutendo ogni passo, e con l'orecchio teso. 

Nel giro di cinque minuti egli raggiunse la finestra illuminata. Si ricordò che proprio sotto quelle finestre c'erano alcuni grossi arbusti, solidi e alti, di sambuco e viburno. La porta che introduceva dalla casa in giardino sul lato sinistro della facciata era chiusa, aveva controllato attentamente mentre ci passava accanto. Finalmente giunse all'altezza degli arbusti e si nascose dietro di essi. Tratteneva il respiro. "Adesso devo aspettare", pensò. "Se hanno sentito i miei passi e sono rimasti in ascolto, devo rassicurarli... speriamo che non mi venga da tossire o starnutire..." 

 Aspettò un paio di minuti, ma il cuore gli batteva all'impazzata; in alcuni momenti non riusciva nemmeno a prendere fiato. "No, questi battiti del cuore non cesseranno", pensò, "non posso aspettare di più". Egli stava all'ombra di un arbusto; la parte anteriore dell'arbusto era rischiarata dalla finestra.

  «Il viburno, le bacche, come sono rosse!», mormorò senza sapere il perché. Piano, piano, a passetti impercettibili, egli si avvicinò alla finestra e si alzò in punta di piedi.

LA CAMERA DA LETTO DI FEDOR 

L'intera camera da letto di Fëdor Pavloviè si presentò davanti ai suoi occhi come nel palmo della sua mano. Era una stanzetta di modeste dimensioni, divisa in due parti da un paravento rosso, "cinese", così lo chiamava Fëdor Pavloviè. "Il paravento cinese" balenò alla mente di Mitja "e dietro il paravento, Grušen'ka". Si mise a scrutare Fëdor Pavloviè. 

Questi indossava una nuova veste da camera, di seta a righe, che Mitja non gli aveva mai visto, stretta in vita da un cordoncino anch'esso di seta con nappine. Da sotto il bavero della vestaglia spuntava biancheria linda e elegante, una fine camicia di tela d'Olanda con bottoncini d'oro. In testa Fëdor Pavloviè portava quella stessa benda rossa con la quale lo aveva visto Alëša. 

"Si è messo in ghingheri" pensò Mitja. 

Fëdor Pavloviè stava in piedi presso la finestra, evidentemente assorto nei propri pensieri, quando a un tratto voltò bruscamente la testa, rimase in ascolto per un attimo e, non sentendo nulla, si avvicinò al tavolo, si versò mezzo bicchierino di cognac dalla caraffa e lo bevve d'un fiato. Poi emise un forte sospiro, stette fermo in piedi ancora per un poco, si avvicinò distrattamente allo specchio appeso sulla parete tra le due finestre, con la mano destra sollevò leggermente la benda sulla fronte e si mise ad esaminare i lividi e le escoriazioni che non erano ancora guariti. "È solo", pensò Mitja, "con ogni probabilità egli è solo". 

Fëdor Pavloviè si allontanò dallo specchio, si voltò bruscamente verso la finestra e scrutò attraverso di essa. Mitja istantaneamente fece un balzo all'indietro nell'oscurità. "Forse lei sta dietro al paravento, forse sta già dormendo", questo pensiero gli trafisse il cuore. Fëdor Pavloviè si allontanò dalla finestra. "Ma sta guardando dalla finestra per vedere lei, dunque lei non è qui: altrimenti perché dovrebbe guardare nell'oscurità?... L'impazienza lo divora..." 

Mitja scivolò rapidamente verso la finestra e riprese a guardare dentro. Il vecchio stava già seduto davanti al suo tavolino con un'aria palesemente delusa. Finalmente puntò un gomito sul tavolo e poggiò la guancia sul palmo della mano. Mitja lo osservava avidamente. "È solo, è solo!", ripeté un'altra volta. "Se lei fosse qui, lui avrebbe tutt'altra espressione". Strano a dirsi: nel suo cuore ribollì all'improvviso un'irrazionale e bizzarra stizza per il fatto che ella non si trovasse lì. "Non per il fatto che non sia qui", si affrettò a spiegare a se stesso immediatamente, "ma per il fatto che non riesco ad appurare con sicurezza se ella è qui oppure no". Mitja stesso ricordò in seguito che in quel momento egli era straordinariamente lucido e che valutava ogni circostanza nei minimi dettagli, prendendo nota di ogni particolare. Ma l'angoscia, l'angoscia dell'incertezza e dell'indecisione cresceva nel suo cuore un istante dopo l'altro. "Una volta per tutte, lei è qui oppure no?", questa domanda gli ribolliva rabbiosamente nel cuore. 

IL SEGNALE CONCORDATO

Finalmente si decise, allungò la mano e batté piano piano allo stipite della finestra. Egli batté il segnale convenzionale che il vecchio aveva mostrato a Smerdjakov: i primi due colpi più piano e gli altri tre più veloce: toc-toctoc, il segnale che significava: "Grušen'ka è arrivata".

FEDOR ALLA FINESTRA

Il vecchio trasalì, voltò la testa, balzò in piedi e si precipitò alla finestra. Mitja scivolò rapidamente nell'ombra. Fëdor Pavloviè aprì la finestra e si sporse con tutta la testa. «Grušen'ka, sei tu? Sei tu, vero?», disse in un bisbiglio trepidante. «Dove sei, tesoruccio, angioletto mio, dove sei?» Era in preda a una forte eccitazione, respirava a fatica. "È solo!" concluse Mitja. 

 «Ma dove sei?», esclamò il vecchio e si sporse ancora più in fuori con la testa, si sporse con le spalle, guardandosi intorno in tutte le direzioni, a destra e a sinistra. «Vieni qui, ti ho preparato un regalino, vieni che te lo faccio vedere!» "Intende il plico con i tremila rubli" venne in mente a Mitja. «Ma dove sei?... Sei alla porta? Adesso vengo ad aprirti...» 

 E il vecchio per poco non si sporse tutto fuori dalla finestra, guardando a destra, dal lato della porta che dava in giardino, scrutando nelle tenebre. Un secondo più tardi sarebbe sicuramente corso ad aprire la porta senza aspettare la risposta di Grušen'ka. Mitja lo guardava di fianco e non si muoveva. Tutto il profilo di lui, che gli era tanto odioso, il suo pomo d'Adamo cadente, il suo naso aquilino contratto dal sorrisetto di attesa lasciva, le sue labbra, tutto veniva illuminato chiaramente dalla luce obliqua della lampada che proveniva dalla parte sinistra della stanza. Un terribile impeto d'odio montò all'improvviso nel cuore di Mitja: "Eccolo, il suo rivale, l'uomo che lo tormentava, che tormentava la sua vita!" 

Era l'impeto di quella stessa rabbia improvvisa, vendicativa e furiosa che, come in una sorta di presentimento, egli aveva annunciato nella conversazione con Alëša nel chioschetto, quattro giorni prima, quando aveva risposto alla domanda di Alëša: 

«Come puoi dire che ucciderai nostro padre?» «Io non lo so, non lo so», aveva risposto allora, «forse non lo ammazzerò, o forse lo ammazzerò. Temo che ad un tratto mi diventerà odioso il suo viso stesso in quel preciso momento. Odio il suo pomo d'Adamo, il suo naso, i suoi occhi, la sua risatina impudente. Provo un'avversione fisica per lui. Ecco quello che temo, ecco quello che non riuscirei a sopportare...» L'avversione era diventata intollerabile. Mitja aveva quasi completamente perduto il controllo di sé e all'improvviso agguantò il pestello di ottone che aveva in tasca... 

 Dio stava vegliando su di lui, come disse Mitja in seguito: proprio in quel momento Grigorij Vasil'eviè si svegliò dal suo letto di malato. Verso sera si era sottoposto a quella famosa cura che Smerdjakov aveva descritto a Ivan Fëdoroviè, cioè, con l'aiuto della moglie si era frizionato tutto con vodka mescolata a un certo preparato segreto e molto potente e aveva bevuto il resto, mentre la moglie mormorava presso di lui "una certa preghierina", e si era coricato. Anche Marfa Ignat'evna ne aveva assaggiato un po' e, dal momento che non era abituata a bere, si era addormentata di sasso accanto al marito. Ma ecco che, del tutto inaspettatamente, Grigorij si svegliò all'improvviso nel cuore della notte, si soffermò a riflettere un minuto e, sebbene avesse avvertito subito una fitta penetrante alle reni, si sollevò sul letto. Dopo di che indugiò a riflettere su qualcosa, si alzò e si vestì in fretta. Forse gli rimordeva la coscienza perché mentre dormiva la casa rimaneva senza sorveglianza "in un momento così pieno di pericoli". Smerdjakov, prostrato dall'attacco di mal caduco, giaceva immobile nello stanzino accanto. Marfa Ignat'evna non dava segni di vita. "La vecchia si è indebolita", pensò Grigorij Vasil'eviè dandole un'occhiata, poi uscì, brontolando, sul terrazzino d'ingresso. Naturalmente voleva soltanto dare un'occhiata dal terrazzino, perché non era in grado di camminare: il dolore alle reni e alla gamba destra era insopportabile. Ma in quel momento gli sovvenne che la sera prima non aveva chiuso a chiave la porticina che dava sul giardino. Era il più ordinato e scrupoloso degli uomini: egli si atteneva sempre allo stesso immutabile ordine delle cose e ad abitudini decennali. Zoppicando e gemendo per il dolore, egli scese dal terrazzino e si diresse verso il giardino. Ed era proprio così, la porticina era spalancata. Entrò macchinalmente nel giardino: forse gli era venuto in mente qualcosa, forse aveva sentito qualche rumore, ma, gettando uno sguardo verso sinistra, vide la finestra della camera del padrone aperta: nessuno però era alla finestra, nessuno stava guardando da quella finestra. "Perché mai sarà aperta? Non è mica estate", pensò Grigorij e all'improvviso, in quello stesso istante, dritto davanti a lui balenò qualcosa di inconsueto. A distanza di una quarantina di passi gli sembrò di vedere un uomo che correva nell'oscurità, una specie di ombra che si muoveva molto rapidamente. «Santo Iddio!», disse Grigorij e fuori di sé, dimentico del dolore alle reni, si lanciò per tagliare la strada al fuggitivo. Prese una scorciatoia, evidentemente conosceva quel giardino meglio del fuggitivo; quello si stava dirigendo verso la casetta del bagno, la oltrepassò, e dritto verso il recinto... Grigorij lo seguiva senza perderlo d'occhio mentre correva a rotta di collo. Raggiunse lo steccato proprio nel momento in cui il fuggitivo stava per scavalcarlo. 

Grigorij gettò un urlo come fuori di sé, si scagliò contro quell'uomo e si aggrappò con entrambe le mani alla sua gamba. Sì, il suo presentimento non lo aveva ingannato; lo aveva riconosciuto, era lui, il "mostro-parricida"! «Parricida!», gridò il vecchio così forte da farsi sentire da tutto il vicinato, ma aveva appena fatto in tempo a cacciare quell'urlo, quando stramazzò a terra come colpito da un fulmine. Mitja balzò indietro, nel giardino, e si piegò sopra il caduto. Nelle mani aveva il pestello d'ottone che lanciò macchinalmente nell'erba. Il pestello cadde a due passi da Grigorij, non sull'erba, ma sul sentierino, nel posto più in vista. Osservò per alcuni secondi l'uomo che giaceva davanti a sé. 

GRIGORIJ COLPITO

La testa del vecchio era tutta insanguinata; Mitja allungò una mano e cominciò a tastarla. In seguito ricordò con molta chiarezza che in quel momento avrebbe fermamente voluto "accertarsi del tutto" se avesse davvero fracassato il cranio del vecchio o se lo avesse solo "stordito" con il pestello. Ma il sangue fiottava, fiottava da far spavento e in un batter d'occhio bagnò con il suo fiotto caldo le dita tremanti di Mitja. Egli ricordò di aver preso dalla tasca il suo nuovo fazzoletto bianco, del quale si era provvisto in occasione della visita alla Chochlakova, e di averlo poggiato sulla fronte del vecchio nel tentativo irrazionale di asciugargli il sangue dalla fronte e dal viso. Ma anche il fazzoletto, in men che non si dica, fu zuppo di sangue. "Signore Iddio, ma perché faccio questo?", pensò Mitja tornando in sé. "Se gli ho fracassato il cranio come faccio a saperlo adesso... E che differenza può fare adesso!", soggiunse all'improvviso, disperato.

«Se l'ho ucciso, l'ho ucciso... Ci sei cascato e ora sta lì!», disse a voce alta e si slanciò verso lo steccato che scavalcò per saltare nel vicolo; poi si mise a correre tenendo il fazzoletto zuppo di sangue raggomitolato nel pugno destro e, mentre correva, lo infilò nella tasca posteriore della finanziera. 

DI CORSA A CASA DI GRUSHENKA

Correva a rotta di collo e quei pochi passanti che lo incrociarono nell'oscurità per le strade della città, ricordarono in seguito di aver incontrato un uomo che correva all'impazzata. Volava un'altra volta a casa della Morozova. Poco prima Fenja, dopo che Mitja se n'era andato, si era precipitata dal vecchio portinaio Nazar Ivanoviè e gli aveva chiesto "per l'amor del cielo" di "non lasciare più passare il capitano né oggi, né domani". Nazar Ivanoviè'aveva ascoltata e le aveva garantito di eseguire l'ordine, ma per sfortuna dovette andare su dalla padrona che lo aveva chiamato all'improvviso, e mentre si recava da lei disse a suo nipote, un ragazzo sui vent'anni, che era appena arrivato dalla campagna, di prendere il suo posto in portineria, ma si dimenticò di menzionare il capitano. 

Arrivato di corsa al portone, Mitja bussò. Il ragazzo lo riconobbe subito: più di una volta Mitja gli aveva dato la mancia per il tè. Gli aprì immediatamente il portoncino, lo lasciò entrare e, sorridendo affabilmente, si affrettò ad informarlo che Agrafena Aleksandrova in quel momento non era in casa. «E allora dov'è, Prochor?», domandò Mitja fermandosi di colpo. «È andata via un paio di ore fa con Timofej, a Mokroe». «A far che?», gridò Mitja. «Questo non posso saperlo, signore, da un certo ufficiale, qualcuno l'ha mandata a prendere da lì e ha mandato i cavalli...» Mitja lo lasciò e corse come un pazzo da Fenja.