domenica 25 luglio 2021

IV • Nelle tenebre

 Dove stava correndo? È chiaro:


"Dove può essere lei se non da Fëdor Pavloviè? Da casa di Samsonov è corsa dritta dritta da lui, adesso è tutto chiaro. Tutto l'intrigo, tutto l'inganno adesso sono chiari..." 

Un vortice di pensieri gli mulinava nel cervello. Evitò di passare dal cortile che portava da Mar'ja Kondrat'evna: "Non c'è bisogno di andare lì, non c'è affatto bisogno... di mettere in allarme qualcuno... andrebbero subito ad avvertire, subito ad avvertire... Mar'ja Kondrat'evna è d'accordo con loro, si vede, e anche Smerdjakov, sono tutti comprati!"

A CASA DEL PADRE 

Aveva formulato un altro piano d'azione: fece il giro largo intorno alla casa di Fëdor Pavloviè, attraversò un vicoletto, corse lungo la Dmitrovskaja, superò di volata il ponticello e finì dritto nel vicoletto deserto alle spalle della casa, vuoto e disabitato, delimitato da un lato dalla siepe dell'orto dei vicini e, dall'altro, dallo steccato alto e solido che circondava il giardino di Fëdor Pavloviè. 

Da lì scelse un punto, forse quello stesso attraverso il quale, secondo la storia che anche lui conosceva, Lizaveta Smerdjascaja aveva scavalcato lo steccato quella volta. "Se ci è riuscita lei, perché non dovrei riuscire anch'io a scavalcarlo?" gli passò per la mente chissà per quale ragione. E difatti fece un salto e riuscì immediatamente a raggiungere con la mano la sommità dello steccato, poi si tirò su con forza, e dopo un solo tentativo si trovò a cavalcioni dello steccato. Non lontano nel giardino c'era la casetta del bagno, ma dalla sommità dello steccato si vedevano anche le finestre illuminate della casa. "È lì, la luce della camera da letto del vecchio è accesa, lei è lì!" e così dallo steccato saltò giù in giardino. Pur sapendo che Grigorij era malato e che, forse, anche Smerdjakov era malato sul serio, e che quindi nessuno poteva sentirlo, istintivamente si nascose, rimase immobile e teso all'ascolto. 

Ma tutt'intorno regnava un silenzio di morte e, come a farlo apposta, una quiete assoluta, non soffiava neanche un alito di vento. "Nulla tranne il bisbiglio del silenzio", gli balenò in mente quel verso, per qualche ragione, "a meno che non mi abbia sentito qualcuno mentre scavalcavo lo steccato; ma credo di no". Dopo una breve sosta, egli si avviò pian piano per il giardino, sull'erba; aggirando gli alberi e i cespugli, camminò a lungo, attutendo ogni passo, e con l'orecchio teso. 

Nel giro di cinque minuti egli raggiunse la finestra illuminata. Si ricordò che proprio sotto quelle finestre c'erano alcuni grossi arbusti, solidi e alti, di sambuco e viburno. La porta che introduceva dalla casa in giardino sul lato sinistro della facciata era chiusa, aveva controllato attentamente mentre ci passava accanto. Finalmente giunse all'altezza degli arbusti e si nascose dietro di essi. Tratteneva il respiro. "Adesso devo aspettare", pensò. "Se hanno sentito i miei passi e sono rimasti in ascolto, devo rassicurarli... speriamo che non mi venga da tossire o starnutire..." 

 Aspettò un paio di minuti, ma il cuore gli batteva all'impazzata; in alcuni momenti non riusciva nemmeno a prendere fiato. "No, questi battiti del cuore non cesseranno", pensò, "non posso aspettare di più". Egli stava all'ombra di un arbusto; la parte anteriore dell'arbusto era rischiarata dalla finestra.

  «Il viburno, le bacche, come sono rosse!», mormorò senza sapere il perché. Piano, piano, a passetti impercettibili, egli si avvicinò alla finestra e si alzò in punta di piedi.

LA CAMERA DA LETTO DI FEDOR 

L'intera camera da letto di Fëdor Pavloviè si presentò davanti ai suoi occhi come nel palmo della sua mano. Era una stanzetta di modeste dimensioni, divisa in due parti da un paravento rosso, "cinese", così lo chiamava Fëdor Pavloviè. "Il paravento cinese" balenò alla mente di Mitja "e dietro il paravento, Grušen'ka". Si mise a scrutare Fëdor Pavloviè. 

Questi indossava una nuova veste da camera, di seta a righe, che Mitja non gli aveva mai visto, stretta in vita da un cordoncino anch'esso di seta con nappine. Da sotto il bavero della vestaglia spuntava biancheria linda e elegante, una fine camicia di tela d'Olanda con bottoncini d'oro. In testa Fëdor Pavloviè portava quella stessa benda rossa con la quale lo aveva visto Alëša. 

"Si è messo in ghingheri" pensò Mitja. 

Fëdor Pavloviè stava in piedi presso la finestra, evidentemente assorto nei propri pensieri, quando a un tratto voltò bruscamente la testa, rimase in ascolto per un attimo e, non sentendo nulla, si avvicinò al tavolo, si versò mezzo bicchierino di cognac dalla caraffa e lo bevve d'un fiato. Poi emise un forte sospiro, stette fermo in piedi ancora per un poco, si avvicinò distrattamente allo specchio appeso sulla parete tra le due finestre, con la mano destra sollevò leggermente la benda sulla fronte e si mise ad esaminare i lividi e le escoriazioni che non erano ancora guariti. "È solo", pensò Mitja, "con ogni probabilità egli è solo". 

Fëdor Pavloviè si allontanò dallo specchio, si voltò bruscamente verso la finestra e scrutò attraverso di essa. Mitja istantaneamente fece un balzo all'indietro nell'oscurità. "Forse lei sta dietro al paravento, forse sta già dormendo", questo pensiero gli trafisse il cuore. Fëdor Pavloviè si allontanò dalla finestra. "Ma sta guardando dalla finestra per vedere lei, dunque lei non è qui: altrimenti perché dovrebbe guardare nell'oscurità?... L'impazienza lo divora..." 

Mitja scivolò rapidamente verso la finestra e riprese a guardare dentro. Il vecchio stava già seduto davanti al suo tavolino con un'aria palesemente delusa. Finalmente puntò un gomito sul tavolo e poggiò la guancia sul palmo della mano. Mitja lo osservava avidamente. "È solo, è solo!", ripeté un'altra volta. "Se lei fosse qui, lui avrebbe tutt'altra espressione". Strano a dirsi: nel suo cuore ribollì all'improvviso un'irrazionale e bizzarra stizza per il fatto che ella non si trovasse lì. "Non per il fatto che non sia qui", si affrettò a spiegare a se stesso immediatamente, "ma per il fatto che non riesco ad appurare con sicurezza se ella è qui oppure no". Mitja stesso ricordò in seguito che in quel momento egli era straordinariamente lucido e che valutava ogni circostanza nei minimi dettagli, prendendo nota di ogni particolare. Ma l'angoscia, l'angoscia dell'incertezza e dell'indecisione cresceva nel suo cuore un istante dopo l'altro. "Una volta per tutte, lei è qui oppure no?", questa domanda gli ribolliva rabbiosamente nel cuore. 

IL SEGNALE CONCORDATO

Finalmente si decise, allungò la mano e batté piano piano allo stipite della finestra. Egli batté il segnale convenzionale che il vecchio aveva mostrato a Smerdjakov: i primi due colpi più piano e gli altri tre più veloce: toc-toctoc, il segnale che significava: "Grušen'ka è arrivata".

FEDOR ALLA FINESTRA

Il vecchio trasalì, voltò la testa, balzò in piedi e si precipitò alla finestra. Mitja scivolò rapidamente nell'ombra. Fëdor Pavloviè aprì la finestra e si sporse con tutta la testa. «Grušen'ka, sei tu? Sei tu, vero?», disse in un bisbiglio trepidante. «Dove sei, tesoruccio, angioletto mio, dove sei?» Era in preda a una forte eccitazione, respirava a fatica. "È solo!" concluse Mitja. 

 «Ma dove sei?», esclamò il vecchio e si sporse ancora più in fuori con la testa, si sporse con le spalle, guardandosi intorno in tutte le direzioni, a destra e a sinistra. «Vieni qui, ti ho preparato un regalino, vieni che te lo faccio vedere!» "Intende il plico con i tremila rubli" venne in mente a Mitja. «Ma dove sei?... Sei alla porta? Adesso vengo ad aprirti...» 

 E il vecchio per poco non si sporse tutto fuori dalla finestra, guardando a destra, dal lato della porta che dava in giardino, scrutando nelle tenebre. Un secondo più tardi sarebbe sicuramente corso ad aprire la porta senza aspettare la risposta di Grušen'ka. Mitja lo guardava di fianco e non si muoveva. Tutto il profilo di lui, che gli era tanto odioso, il suo pomo d'Adamo cadente, il suo naso aquilino contratto dal sorrisetto di attesa lasciva, le sue labbra, tutto veniva illuminato chiaramente dalla luce obliqua della lampada che proveniva dalla parte sinistra della stanza. Un terribile impeto d'odio montò all'improvviso nel cuore di Mitja: "Eccolo, il suo rivale, l'uomo che lo tormentava, che tormentava la sua vita!" 

Era l'impeto di quella stessa rabbia improvvisa, vendicativa e furiosa che, come in una sorta di presentimento, egli aveva annunciato nella conversazione con Alëša nel chioschetto, quattro giorni prima, quando aveva risposto alla domanda di Alëša: 

«Come puoi dire che ucciderai nostro padre?» «Io non lo so, non lo so», aveva risposto allora, «forse non lo ammazzerò, o forse lo ammazzerò. Temo che ad un tratto mi diventerà odioso il suo viso stesso in quel preciso momento. Odio il suo pomo d'Adamo, il suo naso, i suoi occhi, la sua risatina impudente. Provo un'avversione fisica per lui. Ecco quello che temo, ecco quello che non riuscirei a sopportare...» L'avversione era diventata intollerabile. Mitja aveva quasi completamente perduto il controllo di sé e all'improvviso agguantò il pestello di ottone che aveva in tasca... 

 Dio stava vegliando su di lui, come disse Mitja in seguito: proprio in quel momento Grigorij Vasil'eviè si svegliò dal suo letto di malato. Verso sera si era sottoposto a quella famosa cura che Smerdjakov aveva descritto a Ivan Fëdoroviè, cioè, con l'aiuto della moglie si era frizionato tutto con vodka mescolata a un certo preparato segreto e molto potente e aveva bevuto il resto, mentre la moglie mormorava presso di lui "una certa preghierina", e si era coricato. Anche Marfa Ignat'evna ne aveva assaggiato un po' e, dal momento che non era abituata a bere, si era addormentata di sasso accanto al marito. Ma ecco che, del tutto inaspettatamente, Grigorij si svegliò all'improvviso nel cuore della notte, si soffermò a riflettere un minuto e, sebbene avesse avvertito subito una fitta penetrante alle reni, si sollevò sul letto. Dopo di che indugiò a riflettere su qualcosa, si alzò e si vestì in fretta. Forse gli rimordeva la coscienza perché mentre dormiva la casa rimaneva senza sorveglianza "in un momento così pieno di pericoli". Smerdjakov, prostrato dall'attacco di mal caduco, giaceva immobile nello stanzino accanto. Marfa Ignat'evna non dava segni di vita. "La vecchia si è indebolita", pensò Grigorij Vasil'eviè dandole un'occhiata, poi uscì, brontolando, sul terrazzino d'ingresso. Naturalmente voleva soltanto dare un'occhiata dal terrazzino, perché non era in grado di camminare: il dolore alle reni e alla gamba destra era insopportabile. Ma in quel momento gli sovvenne che la sera prima non aveva chiuso a chiave la porticina che dava sul giardino. Era il più ordinato e scrupoloso degli uomini: egli si atteneva sempre allo stesso immutabile ordine delle cose e ad abitudini decennali. Zoppicando e gemendo per il dolore, egli scese dal terrazzino e si diresse verso il giardino. Ed era proprio così, la porticina era spalancata. Entrò macchinalmente nel giardino: forse gli era venuto in mente qualcosa, forse aveva sentito qualche rumore, ma, gettando uno sguardo verso sinistra, vide la finestra della camera del padrone aperta: nessuno però era alla finestra, nessuno stava guardando da quella finestra. "Perché mai sarà aperta? Non è mica estate", pensò Grigorij e all'improvviso, in quello stesso istante, dritto davanti a lui balenò qualcosa di inconsueto. A distanza di una quarantina di passi gli sembrò di vedere un uomo che correva nell'oscurità, una specie di ombra che si muoveva molto rapidamente. «Santo Iddio!», disse Grigorij e fuori di sé, dimentico del dolore alle reni, si lanciò per tagliare la strada al fuggitivo. Prese una scorciatoia, evidentemente conosceva quel giardino meglio del fuggitivo; quello si stava dirigendo verso la casetta del bagno, la oltrepassò, e dritto verso il recinto... Grigorij lo seguiva senza perderlo d'occhio mentre correva a rotta di collo. Raggiunse lo steccato proprio nel momento in cui il fuggitivo stava per scavalcarlo. 

Grigorij gettò un urlo come fuori di sé, si scagliò contro quell'uomo e si aggrappò con entrambe le mani alla sua gamba. Sì, il suo presentimento non lo aveva ingannato; lo aveva riconosciuto, era lui, il "mostro-parricida"! «Parricida!», gridò il vecchio così forte da farsi sentire da tutto il vicinato, ma aveva appena fatto in tempo a cacciare quell'urlo, quando stramazzò a terra come colpito da un fulmine. Mitja balzò indietro, nel giardino, e si piegò sopra il caduto. Nelle mani aveva il pestello d'ottone che lanciò macchinalmente nell'erba. Il pestello cadde a due passi da Grigorij, non sull'erba, ma sul sentierino, nel posto più in vista. Osservò per alcuni secondi l'uomo che giaceva davanti a sé. 

GRIGORIJ COLPITO

La testa del vecchio era tutta insanguinata; Mitja allungò una mano e cominciò a tastarla. In seguito ricordò con molta chiarezza che in quel momento avrebbe fermamente voluto "accertarsi del tutto" se avesse davvero fracassato il cranio del vecchio o se lo avesse solo "stordito" con il pestello. Ma il sangue fiottava, fiottava da far spavento e in un batter d'occhio bagnò con il suo fiotto caldo le dita tremanti di Mitja. Egli ricordò di aver preso dalla tasca il suo nuovo fazzoletto bianco, del quale si era provvisto in occasione della visita alla Chochlakova, e di averlo poggiato sulla fronte del vecchio nel tentativo irrazionale di asciugargli il sangue dalla fronte e dal viso. Ma anche il fazzoletto, in men che non si dica, fu zuppo di sangue. "Signore Iddio, ma perché faccio questo?", pensò Mitja tornando in sé. "Se gli ho fracassato il cranio come faccio a saperlo adesso... E che differenza può fare adesso!", soggiunse all'improvviso, disperato.

«Se l'ho ucciso, l'ho ucciso... Ci sei cascato e ora sta lì!», disse a voce alta e si slanciò verso lo steccato che scavalcò per saltare nel vicolo; poi si mise a correre tenendo il fazzoletto zuppo di sangue raggomitolato nel pugno destro e, mentre correva, lo infilò nella tasca posteriore della finanziera. 

DI CORSA A CASA DI GRUSHENKA

Correva a rotta di collo e quei pochi passanti che lo incrociarono nell'oscurità per le strade della città, ricordarono in seguito di aver incontrato un uomo che correva all'impazzata. Volava un'altra volta a casa della Morozova. Poco prima Fenja, dopo che Mitja se n'era andato, si era precipitata dal vecchio portinaio Nazar Ivanoviè e gli aveva chiesto "per l'amor del cielo" di "non lasciare più passare il capitano né oggi, né domani". Nazar Ivanoviè'aveva ascoltata e le aveva garantito di eseguire l'ordine, ma per sfortuna dovette andare su dalla padrona che lo aveva chiamato all'improvviso, e mentre si recava da lei disse a suo nipote, un ragazzo sui vent'anni, che era appena arrivato dalla campagna, di prendere il suo posto in portineria, ma si dimenticò di menzionare il capitano. 

Arrivato di corsa al portone, Mitja bussò. Il ragazzo lo riconobbe subito: più di una volta Mitja gli aveva dato la mancia per il tè. Gli aprì immediatamente il portoncino, lo lasciò entrare e, sorridendo affabilmente, si affrettò ad informarlo che Agrafena Aleksandrova in quel momento non era in casa. «E allora dov'è, Prochor?», domandò Mitja fermandosi di colpo. «È andata via un paio di ore fa con Timofej, a Mokroe». «A far che?», gridò Mitja. «Questo non posso saperlo, signore, da un certo ufficiale, qualcuno l'ha mandata a prendere da lì e ha mandato i cavalli...» Mitja lo lasciò e corse come un pazzo da Fenja.