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(37) 01 - I FRATELLI KARAMAZOV di F. Dostoevskij - Libro primo. Storia di una famiglia. - YouTube

LIBRO PRIMO, Storia di una famiglia pp.15-18
USIAMO COME IMMAGINI GLI ATTORI E I PAESAGGI
DELLO SCENEGGIATO RUSSO DEL 2007 di Jurij Moroz

Aleksej Fëdoroviè Karamazov era il terzo figlio di un proprietario terriero del
nostro distretto, Fëdor Pavloviè Karamazov, assai noto ai suoi tempi (e del resto ancor
oggi ricordato fra noi) per la sua tragica e oscura fine, avvenuta esattamente tredici anni fa
e della quale parlerò a tempo debito.
Adesso, invece, di questo "proprietario terriero"
(come lo si chiamava da noi, anche se in tutta la sua vita non aveva abitato quasi mai nella
sua proprietà), dirò solo che era un tipo strano, di quelli che tuttavia si incontrano
abbastanza spesso, il tipo di persona non soltanto abietta e depravata, ma anche balorda,
di quei balordi, però, che sanno gestire egregiamente i propri affarucci e, a quanto pare,
solo quelli. Fëdor Pavloviè, ad esempio, aveva cominciato quasi dal nulla; la sua proprietà
era modestissima, correva di qua e di là per pranzare alla tavola altrui, si ingegnava a fare
il parassita, eppure al momento del trapasso gli trovarono ben centomila rubli in contanti,
anche se nel contempo aveva continuato ad essere per tutta la vita uno dei più dissennati
scavezzacolli di tutto il nostro distretto. Lo ripeto ancora: qui non si tratta di stupidità - la
maggior parte di questi scavezzacolli è abbastanza intelligente e scaltra - si tratta proprio
di dissennatezza, e per giunta di un tipo particolare, nazionale.
LIBRO PRIMO, Storia di una famiglia pp.15-18
PRIMO MATRIMONIO
Si era sposato due volte e aveva avuto tre figli: il maggiore, Dmitrij Fëdoroviè, dalla
prima moglie, gli altri due, Ivan e Aleksej, dalla seconda.
Adelaida Ivanovna
LA PRIMA MOGLIE,
LA MADRE DI MITJA
LA PRIMA MOGLIE,
LA MADRE DI MITJA
La prima moglie di Fëdor
Pavloviè apparteneva a una nobile stirpe, abbastanza ricca e famosa, anch'essi proprietari
terrieri del nostro distretto, i Miusov.
INNAMORAMENTO
Non mi dilungherò troppo a spiegare come accadde
esattamente che una ragazza con tanto di dote, anche bella e oltre tutto una di quelle
intelligenze vivaci non così rare nella nostra generazione, ma che già si trovavano anche
nella precedente, abbia potuto sposare una tale nullità, uno "scorfano", come allora lo
chiamavano tutti.
FISIME ROMANTICHE
Ho conosciuto infatti una fanciulla appartenente alla penultima
generazione "romantica", che dopo alcuni anni di misterioso amore per un certo signore,
che del resto avrebbe potuto tranquillissimamente sposare in qualunque momento, finì
tuttavia per inventarsi da sola ostacoli insormontabili, si gettò in un fiume abbastanza
profondo e rapido da una ripa alta e scoscesa, quasi un precipizio, e vi perì decisamente a
causa delle proprie fisime, per poter assomigliare all'Ofelia di Shakespeare; anzi, se quel
precipizio, che ella aveva notato e vagheggiato da tanto tempo, non fosse stato così
pittoresco, se al suo posto ci fosse stata soltanto una prosaica riva pianeggiante, forse quel
suicidio non sarebbe mai avvenuto. Questo è un fatto vero, e c'è da credere che nella
nostra vita russa, durante le ultime due o tre generazioni, si siano verificati non pochi
episodi come questo, o simili a questo.
UNA MENTE PRIGIONIERA
Analogamente, anche l'azione di Adelaida
Ivanovna Miusova era senza dubbio un'eco di suggestioni altrui e anche
dell'esasperazione di una mente prigioniera. Forse aveva voluto affermare l'indipendenza
femminile, andar contro le convenzioni sociali, contro il dispotismo dei parenti e della
famiglia, mentre una compiacente fantasia l'aveva convinta, poniamo, per un solo istante, che Fëdor Pavloviè, malgrado la sua fama di parassita, fosse tuttavia uno degli uomini più coraggiosi e ironici di quell'era di transizione verso tempi migliori, mentre non era altro che un tristo buffone e nulla più.
famiglia, mentre una compiacente fantasia l'aveva convinta, poniamo, per un solo istante, che Fëdor Pavloviè, malgrado la sua fama di parassita, fosse tuttavia uno degli uomini più coraggiosi e ironici di quell'era di transizione verso tempi migliori, mentre non era altro che un tristo buffone e nulla più.
IL RAPIMENTO
Un altro lato piccante della storia era che il matrimonio
fu preceduto da un rapimento, il che lusingò molto Adelaida Ivanovna. Dal canto suo,
Fëdor Pavloviè era oltremodo predisposto ad azioni del genere anche per la propria
posizione sociale, in quanto ardeva dal desiderio di far carriera a qualunque costo, e l'idea
di legarsi a una buona famiglia e di mettere le mani su una dote era molto allettante per
lui.
AMORE?
Quanto all'amore reciproco, pare che non ce ne fosse affatto, né da parte della
fidanzata, né da parte di lui, nonostante la bellezza di Adelaida Ivanovna, tanto che questo
caso fu forse l'unico del genere nella vita di Fëdor Pavloviè, uomo sensualissimo per tutto
il corso della propria esistenza, pronto a correre dietro istantaneamente a ogni gonnella, al
minimo segno di incoraggiamento.
E invece, quella donna fu dunque l'unica a non fare
nessun effetto sulla sua sensualità.
DISILLUSIONE
Subito dopo il rapimento, Adelaida Ivanovna s'avvide immediatamente di provare
disprezzo e nient'altro nei confronti del marito, cosicché le conseguenze di quel
matrimonio si delinearono con straordinaria rapidità. Nonostante la famiglia avesse
accettato anche abbastanza in fretta il fatto compiuto, e avesse assegnato la dote alla
fuggitiva, fra i coniugi ebbe inizio una vita di estremo disordine e eterne scenate.
LA DOTE DELLA MOGLIE
Si
raccontava che la giovane sposa avesse tuttavia dimostrato un animo incomparabilmente
più nobile ed elevato di Fëdor Pavloviè, il quale, come adesso è noto, le arraffò d'un sol
colpo tutti i soldi, ben venticinquemila rubli, subito dopo che quella li ebbe ricevuti,
cosicché per lei fu come se si fossero letteralmente volatilizzati.
Quanto a un piccolo
villaggio e a una casa di città abbastanza bella, che costituivano anch'essi parte della dote,
egli cercò per lungo tempo e con tutti i mezzi di farli intestare a suo nome, con qualche
atto opportuno, e probabilmente ci sarebbe riuscito, non foss'altro, diciamo così, per il
disprezzo e la ripugnanza che ispirava continuamente alla propria consorte con quelle sue
vergognose suppliche e estorsioni, nonché per la stanchezza emotiva di lei e per il
desiderio di levarselo di torno.
INTERVENTO DELLA FAMIGLIA DI ADELAIDE E LITI FURIOSE
Per fortuna, però, la famiglia di Adelaida Ivanovna si mise
di mezzo e pose freno a quella piovra. Si sa per certo che fra gli sposi erano frequenti i
litigi, ma, a quanto si dice, non era Fëdor Pavloviè a picchiare, bensì Adelaida Ivanovna,
donna focosa, audace, di carnagione olivastra, insofferente e dotata di una notevole forza
fisica.
FUGA DI ADELAIDE
Finì che lei abbandonò Fëdor Pavloviè scappando di casa con un seminarista, un
morto di fame che faceva l'istitutore, e lasciando alle cure del marito il figlioletto Mitja di
tre anni.
HAREM DI FEDOR E BUFFONATE PUBBLICHE
In un batter d'occhio Fëdor Pavloviè si installò in casa un intero harem e si
abbandonò a continue bisbocce e gozzoviglie, mentre negli intervalli se ne andava in giro per tutto il governatorato a piangere e lamentarsi con tutti quelli che incontrava perché era
stato abbandonato da Adelaida Ivanovna; inoltre, della sua vita coniugale raccontava
particolari tali che un coniuge si sarebbe vergognato di menzionare. La cosa notevole è che
sembrava che lo gratificasse e persino lo lusingasse recitare davanti a tutti la ridicola parte
del marito oltraggiato, e arrivava a dipingere a forti tinte i particolari della sua sventura.
«Verrebbe da credere che abbiate avuto una promozione, Fëdor Pavloviè, tanto apparite
soddisfatto, nonostante tutto il vostro dolore», gli dicevano quelli che lo prendevano in
giro. Molti addirittura aggiungevano che egli era contento di mostrarsi in quella rinnovata
veste di buffone, e che apposta, per far ridere di più, fingeva di non notare la comicità
della propria situazione. Del resto, chi lo sa, forse lo faceva anche ingenuamente.
SULLE TRACCE DELLA FUGGITIVA A PIETROBURGO
Finalmente gli riuscì di scoprire le tracce della fuggitiva. La poveretta risultò trovarsi a
Pietroburgo, dov'era approdata con il suo seminarista e si era data a una vita di completa
emancipazione. Fëdor Pavloviè si dette immediatamente da fare per raggiungere
Pietroburgo, anche se, naturalmente, nemmeno lui sapeva bene perché. A dire il vero,
forse quella volta sarebbe anche partito, ma subito dopo aver preso tale decisione ritenne
di avere pieno diritto, tanto per farsi un po' di coraggio prima del viaggio, di ubriacarsi
senza ritegno.
MORTE DI ADELAIDE
Fu proprio a quel punto che la famiglia della moglie ricevette notizia della
morte di quest'ultima a Pietroburgo. Era morta, a quanto pare, in una soffitta,
all'improvviso, secondo alcune voci di tifo, secondo altre di fame.
UBRIACO O SINCERO?
Quando apprese la
notizia della morte della moglie, Fëdor Pavloviè era ubriaco.
Si dice che si fosse messo a
correre per la strada e, levando le mani al cielo per la gioia, gridasse:
«Ora, Signore, lascia
che il tuo servo se ne vada in pace!».
Secondo altri, invece, singhiozzava come un
bambino, e così forte, che faceva persino pena a guardarlo, nonostante tutta l'avversione
che suscitava.
Può darsi benissimo che fossero vere tutte e due le versioni, cioè, che si
rallegrasse per la propria liberazione e insieme piangesse per la propria liberatrice.
In
generale gli uomini, anche i farabutti, sono per la maggior parte assai più ingenui e
sempliciotti di quanto generalmente si creda. E noi pure, del resto.
2. Si disfa del primo figlio
Il suo comportamento di padre fu esattamente quello che ci si poteva aspettare: si
disinteressò nella maniera più assoluta del bambino avuto da Adelaida Ivanovna, non per cattiveria nei confronti del bambino né in ragione di qualche risentimento coniugale, ma
semplicemente perché lo aveva del tutto dimenticato.
Nel frattempo importunava tutti con
lacrime e piagnistei e trasformò la sua casa in un antro di depravazione;
il fedele servo di
quella casa, Grigorij, prese il piccolo Mitja, di soli tre anni, sotto la propria tutela e se non
ci fosse stato lui a prendersi cura del piccolo probabilmente nessuno gli avrebbe mai
cambiato la camicina.
Accadde inoltre che, in un primo momento, anche i parenti materni
del bambino parvero quasi essersi dimenticati di lui. Suo nonno, cioè il signor Miusov,
padre di Adelaida Ivanovna, a quei tempi non era più tra i vivi; sua moglie, la nonna di
Mitja, rimasta vedova e trasferitasi a Mosca, era gravemente malata, le sorelle si erano
sposate,
così per un anno intero a Mitja toccò vivere dal servo Grigorij e abitare nell'izba
della servitù.
Del resto, anche se il papà si fosse ricordato di lui (difatti egli non avrebbe
potuto ignorare del tutto la sua esistenza), lo avrebbe senz'altro rispedito lui stesso
nell'izba, poiché un bambino gli sarebbe stato d'impedimento nelle sue gozzoviglie.
Pëtr Aleksandroviè Miusov, il padrino di Mitja
Ma
accadde che tornò da Parigi il cugino della defunta Adelaida Ivanovna, Pëtr
Aleksandroviè Miusov. Questi in seguito visse molti anni all'estero, ma allora era ancora
molto giovane e spiccava fra i Miusov per la sua cultura, perché era vissuto nella capitale e
all'estero e, dopo essere stato di gusti europei per tutta una vita, alla fine era diventato un
liberale degli anni '40 e '50.
Nel corso della sua carriera aveva avuto rapporti con molti
degli uomini più liberali della sua epoca, sia in Russia sia all'estero, conosceva
personalmente Proudhon e Bakunin e amava in particolar modo ricordare e raccontare,
oramai verso la fine dei suoi pellegrinaggi, dei tre giorni della rivoluzione del febbraio '48
a Parigi, alludendo al fatto che per poco non aveva preso parte personalmente agli scontri
sulle barricate. Era uno dei ricordi più felici della sua giovinezza.
Aveva una proprietà che
gli garantiva una vita indipendente, di circa mille anime secondo le vecchie misurazioni.
La magnifica tenuta si trovava alle porte della nostra cittadina e confinava con le terre del
nostro rinomato monastero,
con il quale Pëtr Aleksandroviè, sin dagli anni della prima
giovinezza, subito dopo l'assegnazione dell'eredità, aveva intrapreso immediatamente una
causa interminabile per il diritto di pesca nel fiume o di taglio nel bosco, non so con
precisione, ma aveva ritenuto persino un suo dovere di cittadino e persona illuminata far
causa ai "clericali".
EDUCAZIONE DI MITJA
Dopo aver appreso tutta la storia di Adelaida Ivanovna che lui,
s'intende, ricordava e per la quale un tempo aveva persino avuto un certo interesse, e
avendo saputo dell'esistenza di Mitja egli, nonostante tutto il suo sdegno giovanile e il
disprezzo per Fëdor Pavloviè, s'immischiò nella faccenda. In quella occasione incontrò per
la prima volta Fëdor Pavloviè. Gli comunicò su due piedi che avrebbe desiderato
occuparsi dell'educazione del bambino. In seguito raccontò per molto tempo, come un
fatto caratteristico, che quando aveva cominciato a parlare di Mitja con Fëdor Pavloviè,
questi aveva avuto per un pezzo l'aria di quello che assolutamente non capisce di quale bambino si stia parlando e si meraviglia persino di avere un figlioletto in qualche angolo
della casa.
Forse il racconto di Pëtr Aleksandroviè poteva essere un po' esagerato, ma ci
doveva pur essere qualcosa di vero.
FEDOR E LA SUA PASSIONE DI RECITARE
Ma in realtà, Fëdor Pavloviè per tutta la vita amò
fingere, mettersi all'improvviso a recitare davanti agli altri una parte inattesa e, quel che è
peggio, senza alcun motivo, anzi anche a danno della propria persona, come nel presente
caso. Questa caratteristica, del resto, è tipica di un grandissimo numero di persone, a volte
anche molto intelligenti, cosa che non si può dire di Fëdor Pavloviè.
Pëtr Aleksandroviè
condusse la faccenda con fervore e fu persino nominato tutore del bambino
(congiuntamente a Fëdor Pavloviè), visto che dopo la morte della madre gli erano pur
sempre rimasti una piccola tenuta, una casa e un podere. Mitja si trasferì di fatto da questo
cugino di secondo grado, ma questi non aveva una famiglia propria e, dal momento che
lui stesso, subito dopo aver sistemato e assicurato i redditi delle sue proprietà, si affrettò
subito a partire per Parigi per un lungo periodo,
MITJA PASSA DI MANO IN MANO QUATTRO VOLTE
ecco che affidò il bambino a una sua zia
di secondo grado, una nobildonna moscovita. Accadde che, vivendo permanentemente a
Parigi, anche lui si dimenticò del bambino, soprattutto quando ebbe inizio quella
rivoluzione di febbraio che tanto colpì la sua immaginazione e che egli non poté
dimenticare per tutta la vita.
La nobildonna moscovita morì e Mitja passò a una delle sue
figlie maritate. Pare che in seguito abbia cambiato nido per la quarta volta. Non starò a
dilungarmi molto su tutto questo adesso, tanto più che mi toccherà raccontare ancora
molte cose sul primogenito di Fëdor Pavloviè; per adesso mi limiterò alle informazioni
strettamente necessarie sul suo conto, senza le quali mi sarebbe impossibile dare inizio al
romanzo.
CONVINZIONE DI MITJA DI AVERE DELLE PROPRIETA'
In primo luogo, questo Dmitrij Fëdoroviè fu l'unico dei tre figli di Fëdor Pavloviè a
crescere nella convinzione di possedere ancora un certo patrimonio e che quando avrebbe
raggiunto la maggiore età, sarebbe stato indipendente.
ADOLESCENZA E GIOVINEZZA SCAPESTRATE
Condusse un'adolescenza e una
giovinezza da scapestrato: non terminò il ginnasio, si iscrisse a una scuola militare, andò a
finire in Caucaso, prestò servizio, si batté a duello, fu degradato, tornò a prestar servizio,
gozzovigliò parecchio e scialacquò una somma relativamente consistente.
Cominciò a
ricevere denaro da Fëdor Pavloviè solo dopo aver raggiunto la maggiore età e fino a quel
momento contrasse debiti. Conobbe e incontrò Fëdor Pavloviè, suo padre, per la prima
volta, quand'era già maggiorenne, quando venne dalle nostre parti apposta per chiarire
con lui la questione dei suoi beni.
Pare che in quella occasione il genitore non gli piacque
affatto; si trattenne per poco tempo e partì in fretta e furia dopo essere riuscito a spillargli
una sommetta e aver raggiunto un certo accordo riguardo all'ulteriore riscossione dei
proventi della tenuta, della quale (fatto degno di nota) quella volta non riuscì a sapere da
Fëdor Pavloviè né il reddito né il valore.
Fëdor Pavloviè si accorse allora per la prima volta (e questo occorre tenerlo a mente) che Mitja aveva un'idea sbagliata e esagerata dei propri
beni. Fëdor Pavloviè ne fu molto contento, per via di certi calcoli che aveva in mente.
Egli
concluse che il giovane era superficiale, violento, passionale, insofferente, uno
scavezzacollo al quale sarebbe bastato arraffare qualcosa di tanto in tanto per calmarsi,
anche se solo per un breve periodo.
Ecco, Fëdor Pavloviè cominciò a sfruttare proprio
questo: cioè, se la cavava con piccole elargizioni, saltuari invii di denaro e alla fine, quattro
anni più tardi, quando Mitja, persa la pazienza, ricomparve nella nostra cittadina per
definire una volta per tutte la faccenda con il genitore, risultò inaspettatamente, con sua
somma meraviglia, che egli non possedeva proprio un bel niente, che era persino difficile
fare i conti, che aveva ricevuto da Fëdor Pavloviè in contanti l'intero controvalore della sua
proprietà e che forse doveva pure qualcosa al genitore; che in seguito a questo e quest'altro
affare, che egli stesso aveva voluto intraprendere in questa e quell'altra occasione, non
aveva diritto a esigere nient'altro e così via.
Il giovane rimase esterrefatto, subodorò la
menzogna, l'inganno, perse quasi il controllo di sé. Ecco: proprio questa circostanza portò
a quella catastrofe la cui esposizione costituisce l'argomento del mio primo romanzo
introduttivo o, per meglio dire, del suo lato esteriore. Ma prima di passare a questo
romanzo, devo ancora raccontare degli altri due figli di Fëdor Pavloviè, i fratelli di Mitja, e
chiarire da dove sono venuti fuori.
3. Secondo matrimonio e figli di secondo letto
(madre di IVAN e di ALEKSEJ)
Sbarazzatosi del quattrenne Mitja, Fëdor Pavloviè ben presto si sposò per la seconda volta.
Sof 'ja Ivanovna
LA SECONDA MOGLIE,
(madre di IVAN e di ALEKSEJ)
la "klikuša"
Sbarazzatosi del quattrenne Mitja, Fëdor Pavloviè ben presto si sposò per la seconda volta.
Il secondo matrimonio durò circa otto anni.
Pescò la sua seconda consorte,
Sof 'ja Ivanovna, anche lei molto giovane, in un altro governatorato nel quale era passato
per via di un piccolo appalto in società con un certo ebreo.
Sebbene Fëdor Pavloviè
gozzovigliasse, bevesse e si desse alla bella vita, tuttavia non smetteva mai di occuparsi di
investire il proprio capitale e concludeva sempre con successo i suoi affarucci anche se,
ovviamente, senza farsi tanti scrupoli.
Sof 'ja Ivanovna era figlia di un oscuro diacono ed
era rimasta orfana e senza parenti sin dall'infanzia; era cresciuta nella ricca casa della sua
benefattrice, educatrice e despota, l'illustre vegliarda vedova del generale Vorochov.
Non
conosco i dettagli, ho solo sentito dire che una volta avevano tolto la mite, placida, umile
educanda dal cappio che aveva appeso a un chiodo in un ripostiglio, tanto le riusciva
difficile sopportare il carattere bisbetico e gli eterni rimproveri di quella vecchia, che, forse,
non era cattiva ma tiranneggiava intollerabilmente il prossimo per noia. Fëdor Pavloviè
chiese la mano della ragazza, raccolsero informazioni su di lui e lo cacciarono via e allora lui, come nel primo matrimonio, propose la fuga all'orfanella. È molto, molto probabile
che lei stessa non lo avrebbe seguito per nulla al mondo se per tempo ne avesse saputo di
più sul suo conto.
Ma il fatto accadeva in un altro governatorato e poi che cosa poteva
capire una ragazzina di sedici anni che avrebbe preferito annegarsi nel fiume piuttosto che
continuare a vivere dalla sua benefattrice?
E così la poverina cambiò una benefattrice per
un benefattore.
Fëdor Pavloviè questa volta non ottenne neanche il becco di un quattrino
perché la generalessa montò su tutte le furie, non dette nulla e per di più li maledisse
entrambi; questa volta però egli non aveva programmato di ottenere nulla, era stato
sedotto esclusivamente dalla straordinaria bellezza dell'innocente fanciulla e, soprattutto,
dalla sua aria innocente che aveva un fascino particolare per un lascivo e, fino a quel
momento, depravato estimatore solo del tipo più volgare di bellezza femminile.
«Quegli
occhietti innocenti allora mi tagliarono l'anima come la lama di un rasoio»,
raccontava in
seguito con il suo solito ghigno ripugnante.
Del resto, in un uomo depravato come lui
anche quello poteva essere motivo di attrazione lasciva.
Non avendo ricevuto alcuna
ricompensa, Fëdor Pavloviè non fece tante cerimonie con la consorte e, sfruttando il fatto
che ella, per così dire, era "in torto" dinanzi a lui e che lui l'aveva quasi "tolta dal cappio" e
sfruttando, soprattutto, la straordinaria mitezza e umiltà di lei, egli addirittura calpestò le
più elementari regole della decenza matrimoniale.
In casa, alla presenza stessa della
moglie, c'era un andirivieni di donne di malaffare e si organizzavano orge.
Come nota
caratteristica dirò che il servo Grigorij, un moralista cupo, ottuso e testardo, che aveva
odiato la precedente padrona di casa, questa volta prese le parti della nuova padrona, la
difendeva e litigava per lei con Fëdor Pavloviè in un modo quasi inammissibile da parte di
un servo;
una volta addirittura disperse con la forza un'orgia e tutte le svergognate che vi
erano convenute.
MALATTIA NERVOSA
In seguito a tutto questo, alla disgraziata giovane donna, vissuta nel
terrore sin da piccola, venne una specie di malattia nervosa femminile che si riscontra con
maggiore frequenza nel popolino, fra le donne di campagna, che, per via di questo male,
vengono chiamate klikusi.
A causa di questa malattia, che provocava terribili attacchi
isterici, la malata di tanto in tanto perdeva persino la ragione.
Comunque ella diede a
Fëdor Pavloviè due bambini, Ivan e Aleksej:
il maggiore nel primo anno di matrimonio, il
secondo tre anni più tardi.
MORTE DI SOFIA
Quando lei morì, il piccolo Aleksej aveva quattro anni e, per
quanto possa sembrare strano, so che egli serbò ricordo della madre per tutta la vita, -
come in un sogno, s'intende.
Alla morte della madre, ai due bambini capitò praticamente
la stessa sorte toccata al primo, Mitja: essi furono completamente dimenticati e
abbandonati dal padre, andarono a finire nelle mani di quello stesso Grigorij e vissero
nella sua izba.
LA GENERALESSA
Fu lì che li trovò la vecchia e dispotica generalessa, la benefattrice che aveva
cresciuto la loro madre. Ella era ancora tra i vivi e per tutto quel tempo, ben otto anni, non
era stata capace di dimenticare l'offesa subita.
Per tutti quei lunghi otto anni aveva ricevuto le più dettagliate notizie sulla vita della sua "Sophie", aveva saputo che si era
ammalata e dell'ignominia che la circondava, e due o tre volte in presenza dei suoi
parassiti aveva detto ad alta voce:
«Ben le sta, Dio l'ha punita per la sua ingratitudine».
Esattamente tre mesi dopo la morte di Sof'ja Ivanovna, la generalessa apparve
all'improvviso nella nostra città e andò personalmente, dritta dritta a casa di Fëdor
Pavloviè; in città si trattenne in tutto una mezz'oretta, eppure ne combinò delle belle.
SCHIAFFI A FEDOR
Era
sera. Fëdor Pavloviè, che lei non aveva mai più rivisto durante quegli otto anni, le si
presentò davanti piuttosto alticcio.
Dicono che lei, senza alcuna spiegazione, non appena
lo vide gli assestò all'istante due sonori ceffoni coi fiocchi, e per tre volte gli tirò un ciuffo
di capelli dall'alto verso il basso; poi, senza dire una parola, si diresse dritta nell'izba dai
due bambini.
SCHIAFFI A GRIGORIJ
Le bastò un'occhiata per accorgersi che i bambini non erano lavati e avevano
la biancheria sporca; allora, di punto in bianco, dette uno schiaffo pure a Grigorij e gli
comunicò che avrebbe portato via con sé entrambi i bambini, dopo di che li prese così
com'erano, li avvolse in un coperta, li mise a sedere in carrozza e li portò nella sua città.
Grigorij accettò quello schiaffo come uno schiavo devoto, non proferì parola, e mentre
accompagnava la vecchia signora alla carrozza, con un profondo inchino le disse, con aria
grave, che
«Dio l'avrebbe ricompensata per gli orfanelli».
«Ma tu rimani sempre un
babbeo!»,
gli aveva gridato la generalessa allontanandosi. Fëdor Pavloviè, dopo aver
considerato l'intera faccenda, trovò che si trattava di un buon affare e, consentendo
formalmente ad affidare l'educazione dei figli alla generalessa, non rifiutò di sottostare
nemmeno a una condizione. Quanto agli schiaffi ricevuti, egli stesso andava in giro a
raccontare l'episodio per tutta la città.
MORTE DELLA GENERALESSA
Successe però che anche la generalessa morì di lì a poco, ma nel testamento aveva
disposto l'assegnazione di mille rubli a testa ad entrambi i piccini «per la loro educazione e
affinché quei soldi fossero spesi esclusivamente per loro, ma in modo che bastassero sino
alla loro maggiore età perché una simile elargizione era persino troppo per gente del
genere, se poi qualcuno ne aveva voglia che sborsasse lui» e così via. Io non ho letto il
testamento, ma ho sentito dire che conteneva qualcosa di strano di questo genere ed era
espresso in maniera molto, troppo originale.
Efim Petroviè Polenov
L'erede principale della vecchietta, tuttavia, si
rivelò una persona onesta, il maresciallo della nobiltà di quello stesso governatorato, Efim
Petroviè Polenov.
Avendo capito all'istante, attraverso uno scambio di lettere con Fëdor
Pavloviè, che non gli avrebbe mai cavato denaro per l'istruzione dei suoi stessi figli
(sebbene il padre non si fosse mai rifiutato apertamente, solo che in quei casi la tirava per
le lunghe, e a volte si lasciava persino andare a sentimentalismi),
si prese cura degli orfani
di persona e si affezionò in particolar modo al più giovane, Aleksej, tanto che questi per
molto tempo visse con lui come uno di famiglia.
Prego il lettore di prendere nota di questo sin dall'inizio.
Se quei giovani dovevano essere grati a qualcuno per tutta la vita per
l'istruzione e l'educazione ricevute, quel qualcuno era proprio Efim Petroviè, uomo di
generosità e umanità rare a incontrarsi.
Egli mise da parte i mille rubli a testa che la
generalessa aveva lasciato in eredità ai ragazzi,
senza toccarli, in modo che, giunti alla
maggiore età, trovassero un capitale raddoppiato dagli interessi, e garantì loro
un'istruzione a proprie spese; sicuramente investì per ciascuno di loro molto di più di
mille rubli.
Anche questa volta non mi dilungherò, per il momento, in un racconto
dettagliato della loro infanzia e giovinezza, ma segnalerò solo le circostanze principali.
IVAN
Del
resto, sul maggiore, Ivan, dirò soltanto che egli cresceva come un adolescente tetro e
chiuso in se stesso, non certo timido, ma pare che già all'età di dieci anni fosse consapevole
del fatto che essi crescevano in una famiglia estranea e grazie ai favori altrui, e che il loro
padre era un tipo del quale faceva persino ribrezzo parlare, e così via.
Questo ragazzo
cominciò molto presto, quasi nella prima infanzia (almeno così dicevano), a rivelare
un'attitudine allo studio brillante e fuori dal comune.
Non so come, con esattezza, ma in
qualche modo accadde che egli si separò dalla famiglia di Efim Petroviè, all'età di tredici
anni circa, per passare in un ginnasio di Mosca e a pensione da un pedagogo esperto e al
tempo famoso, un amico di infanzia di Efim Petroviè.
Ivan stesso raccontò in seguito che
tutto era accaduto, per così dire, «a causa della smania di buone azioni» di Efim Petroviè,
entusiasta all'idea che un ragazzo di capacità geniali fosse educato da un istitutore geniale.
Ma né Efim Petroviè né il geniale istitutore erano più fra i vivi, quando il giovanotto,
terminato il ginnasio, si iscrisse all'università.
Dal momento che Efim Petroviè aveva dato
disposizioni poco chiare, anche la riscossione del denaro personale che la generalessa
tiranna aveva lasciato in eredità ai bambini - e che era raddoppiata grazie agli interessi
rispetto ai mille rubli iniziali - fu tirata per le lunghe per le diverse formalità e i ritardi,
assolutamente inevitabili da noi, pertanto nei primi due anni d'università il giovanotto si
trovò in serie ristrettezze perché fu costretto, per tutto quel tempo, a provvedere da solo al
proprio mantenimento e contemporaneamente a dedicarsi allo studio.
SI MANTIENE DA SOLO
È degno di nota che
allora non volle fare nemmeno il tentativo di mettersi in contatto con il padre per via
epistolare, forse per orgoglio, forse per disprezzo nei suoi confronti, oppure
semplicemente per il freddo buon senso che gli suggeriva che da un paparino come quello
non avrebbe ricevuto nessun vero appoggio. In ogni caso, il giovanotto non si perse
d'animo e si mise a lavorare, dapprima con le lezioni private a venti copeche, poi correndo
per le redazioni dei giornali per consegnare articoletti di dieci righe sugli incidenti stradali
firmati "Un testimone".
Dicono che quegli articoletti fossero sempre scritti con uno stile
così interessante e arguto che ben presto diventarono popolari, e già in questo il
giovanotto dimostrò tutta la propria superiorità, pratica e intellettuale, sulle masse di
giovani studenti di entrambi i sessi, eternamente bisognosi e sfortunati, che sono soliti bazzicare da mattina a sera presso i portoni di giornali e riviste delle nostre città, incapaci
di escogitare niente di meglio che le solite richieste di trascrizioni o traduzioni dal
francese.
Una volta entrato nel giro delle redazioni, Ivan Fëdoroviè non perse mai i
contatti con esse, e negli ultimi anni di università cominciò a pubblicare recensioni
estremamente promettenti su libri dedicati a disparati argomenti specialistici, tanto da
conquistare persino una certa notorietà nei circoli letterari.
Comunque, solo nell'ultimo
periodo riuscì casualmente ad attirare su di sé un'attenzione particolare e improvvisa
presso una cerchia di gran lunga più vasta di lettori, tanto che allora moltissime persone di
colpo lo notarono e se lo impressero in mente.
Fu una circostanza abbastanza curiosa. Ivan
Fëdoroviè aveva terminato gli studi universitari e si accingeva a partire per l'estero con i
suoi duemila rubli, quando all'improvviso pubblicò, su uno dei giornali più importanti,
uno strano articolo che attirò su di sé persino l'attenzione dei non addetti ai lavori, e, per
di più, a proposito di un argomento che non doveva essergli molto familiare, visto che si
era laureato in scienze naturali.
ARTICOLO SUI TRIBUNALI ECCLESIASTICI
L'articolo riguardava una questione dibattuta dovunque in
quel periodo: i tribunali ecclesiastici. Dopo aver preso in esame alcune opinioni già
espresse in merito, egli espose anche la propria personale opinione. Ciò che colpiva
maggiormente in quell'articolo erano il tono e la singolare e inattesa conclusione. Intanto,
molti clericali erano fermamente convinti che l'autore fosse dei loro. Eppure,
all'improvviso, accanto a quelli, cominciarono ad applaudire non solo i sostenitori dei
tribunali civili ma persino gli atei. Alla fin fine i più perspicaci decretarono che tutto
l'articolo non era che una farsa irriverente, una presa in giro. Menziono questo episodio
soprattutto perché quell'articolo penetrò tempestivamente anche nel nostro rinomato
monastero fuori città, dove la questione dei tribunali ecclesiastici riscuoteva largo
interesse; vi penetrò e vi produsse la più caotica confusione.
Dopo aver appreso il nome
dell'autore, si prese ancora maggiore interesse alla faccenda, in quanto questi era nativo
della nostra città e figlio «proprio di quel Fëdor Pavloviè».
Ed ecco che all'improvviso,
esattamente in quel periodo, l'autore in carne ed ossa si fece vivo dalle nostre parti.
Per quale motivo Ivan Fëdoroviè era venuto da noi?
Ricordo che sin da allora mi
ponevo questa domanda con una certa inquietudine.
Non sono riuscito a spiegarmi per
molto tempo, e quasi sino all'ultimo, quella visita tanto fatale, che fu il primo passo verso
conseguenze di così grande portata.
In generale era strano che un giovanotto tanto istruito,
e dall'aria tanto orgogliosa e avveduta, comparisse all'improvviso in una casa così
indecorosa, dinanzi a un padre di quello stampo, che per tutta la vita lo aveva ignorato,
non lo aveva mai incontrato né degnato di attenzione e che certo non gli avrebbe mai dato
del denaro, per nessun motivo, se il figlio glielo avesse chiesto, sebbene per tutta la vita
avesse temuto che anche quei figli, Ivan e Aleksej, potessero venire un giorno a chiedergli
soldi.
Ed ecco che quel giovanotto si stabilisce nella casa di un padre di tal fatta, vive con
lui un mese e poi un altro, e i due vanno d'amore e d'accordo, come meglio non si
potrebbe immaginare.
Quest'ultimo particolare meravigliò molto non soltanto me, ma
anche molti altri.
Pëtr Aleksandroviè Miusov, del quale ho già parlato prima, lontano
parente di Fëdor Pavloviè da parte della prima moglie, si trovava ancora dalle nostre parti
in quel periodo per visitare la sua proprietà alle porte della città, nel corso di un breve
soggiorno lontano da Parigi, dove si era definitivamente stabilito. Ricordo che fu proprio
lui a meravigliarsi più di tutti dopo aver conosciuto quel giovanotto, che destò un intenso
interesse in lui, e con il quale, con suo dispiacere, ebbe parecchi battibecchi su argomenti
intellettuali.
«Egli è orgoglioso», ci diceva allora di lui, «saprà sempre procurarsi denaro,
anche adesso ha i soldi necessari per andare all'estero, a che gli serve stare qui? È chiaro a
tutti che non è venuto qui per i soldi, perché in ogni caso il padre non glieli darebbe. Non
ama bere né fare bagordi, e intanto il vecchio non può fare a meno di lui, tanto vanno
d'accordo!».
Era la verità, il giovanotto aveva una palese influenza sul vecchio; questi
aveva quasi cominciato a dargli ascolto, sebbene a volte fosse estremamente e, persino
perfidamente, capriccioso; aveva persino cominciato a comportarsi in modo più decente...
Solo in seguito fu chiarito che Ivan Fëdoroviè era venuto in parte su richiesta, e
negli interessi, di suo fratello maggiore,
Dmitrij Fëdoroviè, che aveva visto e conosciuto
per la prima volta quasi nello stesso periodo, in occasione di quello stesso viaggio, ma con
il quale tuttavia, per via di una faccenda molto importante, che riguardava soprattutto
Dmitrij Fëdoroviè, era entrato in corrispondenza prima del suo arrivo da Mosca. Di quale
faccenda si trattasse, il lettore verrà a saperlo nei dettagli a tempo debito.
Nondimeno,
persino quando questa particolare circostanza mi divenne nota, continuai a considerare
Ivan Fëdoroviè una persona enigmatica e il suo arrivo fra di noi ancora inspiegabile.
Aggiungerò che Ivan Fëdoroviè assunse allora le vesti di mediatore e paciere tra il
padre e suo fratello maggiore, Dmitrij Fëdorovic, che progettava uno scontro ai ferri corti e
persino un'azione legale contro il padre.
PRIMA VOLTA TUTTI INSIEME
Questa famigliola, lo ripeto, veniva a riunirsi tutta insieme per la prima volta e
alcuni dei suoi componenti si vedevano per la prima volta nella vita.
ALEKSEJ
Solo il figlio minore,
Aleksej Fëdoroviè, viveva già da un anno fra di noi, dal momento che era arrivato prima
degli altri fratelli.
Ecco, proprio di questo Aleksej mi è più difficile parlare in questa mia
introduzione, prima di farlo uscire sulla scena del romanzo.
Ma mi tocca scrivere una
premessa anche su di lui, almeno per chiarire per tempo un punto molto strano, e cioè:
sono costretto a presentare ai lettori il futuro eroe in tonaca da novizio
dalla prima scena del suo romanzo.
Sì, era già un anno che viveva nel nostro monastero e sembrava che si
stesse preparando a rimanervi in clausura per tutta la vita.
4. Il terzo figlio Alioscia
Il terzo figlio, Alësa
Egli allora aveva appena vent'anni
(suo fratello Ivan ne aveva ventiquattro
e il
maggiore, Dmitrij, ventotto).
Prima di tutto dirò che questo giovane, Alëša, non era affatto
fanatico e, almeno secondo la mia opinione, neppure un mistico. Esporrò subito la mia
opinione per intero: egli era semplicemente un precoce filantropo, e se aveva imboccato la
strada del monastero, era unicamente perché in quel tempo solo essa lo colpì e gli si
presentò, per così dire, come l'ideale dell'esodo della sua anima che lottava per liberarsi
dalle tenebre della malvagità umana per andare verso la luce e l'amore.
E questa strada lo
colpì unicamente perché su di essa incontrò una creatura straordinaria, secondo la sua
opinione, il famoso starec Zosima del nostro monastero, al quale si affezionò con tutto
l'ardente primo amore del suo cuore insaziabile.
Del resto, non discuto che anche allora
egli fosse piuttosto strano,
lo era stato sin dalla culla.
UN RICORDO INDELEBILE
A questo proposito, ho già ricordato
che, rimasto orfano della madre all'età di soli quattro anni, egli serbò ricordo di lei per
tutta la vita, ricordava il suo viso, le sue carezze, «proprio come se stesse qui davanti a me
in carne e ossa», diceva.
È possibile conservare simili ricordi, com'è noto, persino da un'età
più tenera, persino dai due anni, ma essi emergono per tutta la vita come puntini luminosi
nelle tenebre, come il lembo lacerato di un enorme quadro che si è sbiadito ed è svanito
interamente ad eccezione di quel piccolo lembo.
Era la stessa cosa per lui:
egli ricordava
una mite sera d'estate, la finestra aperta, i raggi obliqui del sole che tramontava (ricordava
soprattutto quei raggi obliqui), in un angolo della stanza l'immagine sacra con un lumino
acceso, davanti all'immagine, in ginocchio, singhiozzante fra strilli e strepiti, come in
preda a una crisi isterica, c'era sua madre che lo afferrava con entrambe le braccia, lo
stringeva forte sino a fargli male e pregava per lui la Madonna, protendendolo dal suo
abbraccio, con entrambe le mani, verso l'immagine, come per affidarlo alla protezione
della Vergine... all'improvviso irrompe la balia e le strappa il bambino dalle braccia,
spaventata.
Quello era il quadro!
Alëša ricordava anche il viso di sua madre in
quell'istante:
diceva che era delirante ma bellissimo, a giudicare da quello che ricordava.
Ma di rado amava confidare questo ricordo a qualcuno.
Nell'infanzia e nella prima
giovinezza, egli era stato introverso e persino taciturno, ma non per diffidenza, né per
timidezza o cupa misantropia, anzi era persino il contrario, ma per qualche altra ragione,
per qualche inquietudine interiore, strettamente personale che non riguardava gli altri, ma così importante per lui che, a causa di essa, quasi dimenticava le altre persone. Tuttavia
amava la gente: in tutta la sua vita aveva sempre avuto fiducia nelle persone e, nel
contempo, nessuno mai lo aveva considerato uno sciocco o un ingenuo.
C'era qualcosa in
lui che diceva e faceva intuire (e questo gli rimase per tutta la vita) che egli non voleva
essere giudice delle persone, che non voleva arrogarsi il diritto di biasimare e che non
avrebbe mai condannato nessuno.
Sembrava persino che egli accettasse tutto senza mai
disapprovare, anche se a volte soffriva molto amaramente.
E non solo: egli arrivò al punto
che nessuno poteva sorprenderlo o spaventarlo in alcun modo, e questo sin dalla prima
giovinezza.
Giunto a casa del padre all'età di vent'anni, in quell'antro di sordida
depravazione, egli, casto e puro com'era, si limitava ad allontanarsi in silenzio quando lo
spettacolo gli diventava intollerabile, ma senza l'ombra di disprezzo o di condanna per
chicchessia.
Persino suo padre, che un tempo era stato un parassita e quindi era persona
permalosa e suscettibile, dopo averlo accolto sulle prime con burbera diffidenza (diceva
«sta molto zitto e rimugina molto fra sé»), finì con l'abbracciarlo e baciarlo con incredibile
frequenza, e non erano passate che due settimane dal suo arrivo; certo, questo accadeva
quando era brillo e vittima del suo sentimentalismo da ubriacone, tuttavia era evidente
che aveva preso a volergli un bene profondo e sincero che mai un uomo come lui aveva
provato per qualcuno...
Tutti amavano questo giovane, dovunque egli andasse, e questo sin dagli anni
dell'infanzia.
FLASH BACK
Quando si trovò a casa del suo benefattore e educatore, Efim Petroviè
Polenov, egli conquistò il cuore di tutti i membri di quella famiglia, tanto che quelli lo
consideravano a tutti gli effetti uno di loro.
Eppure era entrato in quella famiglia in una
così tenera età nella quale è impossibile sospettare scaltrezza calcolata, ipocrisia o abilità di
insinuarsi nelle grazie altrui, di piacere e farsi benvolere.
Dunque il dono di farsi amare
egli lo possedeva dentro di sé, per così dire, nella propria natura, spontaneamente, senza
dover ricorrere ad artifici. La stessa cosa gli accadde anche a scuola, anche se sarebbe
sembrato proprio uno di quei bambini che suscitano la diffidenza dei compagni, a volte
persino lo scherno e forse l'odio.
Egli, per esempio, si perdeva nelle sue riflessioni e si
isolava. Sin dalla prima infanzia, amava appartarsi in un angolino a leggere i suoi
libriccini, eppure i suoi compagni gli volevano tanto bene che poteva decisamente essere
considerato il pupillo di tutti per l'intero periodo in cui frequentò la scuola. Raramente era
vivace, raramente era persino allegro, ma tutti, guardandolo, si accorgevano
immediatamente che in lui non c'era ombrosità, ma che, al contrario, era equilibrato e
sereno. Non tentava mai di primeggiare tra i suoi coetanei. Forse proprio per questo egli
non temeva mai nessuno e nel contempo i ragazzi capivano subito che egli non si vantava
affatto del proprio coraggio, ma che, a ben guardare, forse non si rendeva neanche conto di essere coraggioso e impavido.
Non serbava mai rancore per le offese. Accadeva che
un'ora dopo aver ricevuto un'offesa, egli rispondesse all'offensore o addirittura attaccasse
discorso per primo con un'aria così fiduciosa e serena, come se non fosse accaduto mai
nulla fra di loro. Non che desse l'impressione di aver dimenticato casualmente o
perdonato di proposito l'affronto, ma semplicemente non lo considerava un affronto, e
questa sua caratteristica avvinceva completamente e conquistava gli altri bambini.
C'era
solo un tratto del suo carattere che in tutte le classi del ginnasio, dalla prima sino alle
superiori, suscitava immancabilmente nei suoi compagni il desiderio di prenderlo in giro,
non per perfido scherno, ma solo per loro divertimento. Si trattava della sua straordinaria,
ossessiva verecondia, del suo pudore. Egli non riusciva ad ascoltare certe parole e certi
discorsi a proposito delle donne. L'abitudine a "certe" parole e a "certi" discorsi, purtroppo,
è impossibile da sradicare nelle scuole. Ragazzi puri di anima e cuore, quasi ancora dei
bambini, molto spesso amano parlare in classe fra di loro e, persino ad alta voce, di
argomenti, scene e immagini dei quali alle volte non oserebbero parlare nemmeno i
soldati; non solo, i soldati spesso ignorano e non comprendono molte delle cose già
familiari a bambini piccolissimi appartenenti alle classi alte e intellettuali della nostra
società. Non si tratta di depravazione morale, né di vero cinismo immorale e interiore,
questo ancora no, ma di una parvenza di cinismo che essi non di rado giudicano in un
certo senso elegante, fine, gagliarda e degna di imitazione.
Vedendo che «Alëška
Karamazov», quando si cominciavano «certi discorsi», si tappava subito le orecchie con le
dita, quelli alle volte gli si accalcavano attorno, gli levavano con la forza le mani dalle
orecchie, gli gridavano in tutt'e due le orecchie volgarità mentre quello si dibatteva, si
abbandonava per terra, si sdraiava, si rannicchiava e tutto senza dire una parola, senza
litigare, sopportando gli insulti in silenzio. Alla fine, comunque, lo lasciarono in pace e
non lo stuzzicarono più con il nomignolo di "femminuccia"; non solo, presero a
considerare questo suo atteggiamento con una certa compassione. A scuola era sempre
uno dei migliori, ma mai il primo della classe.
MORTE DI EFIM PETROVIC
Dopo la morte di Efim Petroviè, Alëša frequentò ancora per due anni il ginnasio del
governatorato.
L'inconsolabile consorte di Efim Petroviè, quasi subito dopo la morte di lui,
partì per un lungo viaggio in Italia con tutta la famiglia,
costituita interamente da elementi
di sesso femminile,
mentre Alëša finì a casa di due signore che non aveva mai visto prima,
lontane parenti di Efim Petroviè, ma lui stesso ignorava in base a quali accordi.
Un tratto
persino spiccatamente tipico del suo carattere consisteva nel fatto che egli non si
preoccupava mai di chiarire a spese di chi vivesse.
In questo egli era completamente
l'opposto di suo fratello maggiore,
Ivan Fëdoroviè, che era vissuto in ristrettezze per i
primi due anni all'Università, mantenendosi solo grazie al proprio lavoro, e che sin da bambino era sempre stato amaramente consapevole di vivere sulle spalle del loro
benefattore.
Ma non bisogna giudicare severamente questo strano tratto del carattere di
Aleksej, perché chiunque, non appena lo conosceva un pochino, si convinceva subito,
riguardo a questo, che egli era senz'ombra di dubbio uno di quei giovani, una specie di
jurodivyj, i quali, se si trovano all'improvviso in possesso di una grossa somma di denaro,
non esitano a cederla al primo che gliela chieda sia per una buona causa sia, forse, anche
semplicemente a un furbacchione, purché questi ne faccia richiesta. In generale, egli
ignorava il valore dei soldi, ma non, naturalmente, nel senso letterale della parola.
Quando
gli davano i soldi per le piccole spese, che egli da parte sua non chiedeva mai, non sapeva
che farsene per intere settimane oppure li scialacquava e gli sfumavano in un battibaleno.
GIUDIZIODI MIUSOV
Una volta Pëtr Aleksandroviè Miusov, uomo estremamente sensibile rispetto ai soldi e alla
rettitudine borghese, dopo aver osservato attentamente Aleksej, pronunciò su di lui il
seguente aforisma:
«Ecco, forse, l'unico uomo al mondo che se rimanesse all'improvviso da
solo e senza soldi nella piazza di una città sconosciuta di un milione di abitanti, non si
perderebbe affatto d'animo e non morirebbe né di fame né di freddo, perché in un batter
d'occhio lo rifocillerebbero, in un batter d'occhio gli troverebbero una sistemazione e,
qualora non gliela trovassero gli altri, se la troverebbe in un batter d'occhio da solo, e
questo a lui non costerebbe nessuno sforzo e nessuna umiliazione, e a chi lo accogliesse
nessun peso, ma forse, al contrario, questi lo considererebbe un piacere».
INTERRUZIONE STUDI
Non terminò il corso di studi al ginnasio; gli rimaneva ancora un anno intero
quando informò all'improvviso le signore che lo ospitavano che si sarebbe recato da suo
padre per una certa faccenda che gli era venuta in mente.
Quelle ci rimasero molto male e
non volevano lasciarlo andare.
Il viaggio costava pochissimo e le signore non gli
permisero di impegnare l'orologio, che gli aveva regalato la famiglia del benefattore prima
di partire per l'estero, e lo rifornirono di mezzi in abbondanza, persino di un vestito e di
biancheria nuovi.
Egli, comunque, restituì la metà del denaro, spiegando che voleva
assolutamente fare il viaggio in terza classe.
Giunto nella nostra cittadina, quando il
genitore gli domandò perché fosse venuto senza aver terminato gli studi, egli non rispose
nulla di preciso, ma era, come raccontano, insolitamente pensieroso.
LA RICERCA DELLA TOMBA DIMENTICATA DELLA MADRE
Ben presto si scoprì
che egli era alla ricerca della tomba di sua madre. Praticamente ammise lui stesso di essere
venuto solo con quell'intento. Ma non credo che i motivi della sua venuta si riducessero a
questo. È più probabile che egli stesso allora non sapesse e non potesse in alcun modo
spiegare che cosa veramente fosse insorto all'improvviso nella sua anima e lo spingesse
irresistibilmente su una strada nuova, ignota ma inevitabile. Fëdor Pavloviè non sapeva
indicargli il luogo in cui avevano seppellito la sua seconda moglie, perché non era mai andato alla sua tomba da quando avevano interrato la bara e, siccome erano passati molti
anni, si era dimenticato completamente il luogo della sepoltura...
ALLONTANAMENTO DEL PADRE DALLA CITTADINA
A proposito di Fëdor Pavloviè, prima dell'arrivo di Alëša, egli si era assentato per
un bel pezzo dalla nostra città. Tre, quattro anni dopo la morte della seconda moglie si era
recato nel sud della Russia e alla fine si era trovato ad Odessa dove aveva vissuto alcuni
anni di seguito. Dapprima, secondo le sue stesse parole, aveva frequentato «molti giudei,
giudee, giudeucci e giudeini», tanto che finì per essere accolto non solo dai giudei «ma
anche dagli ebrei». È probabile che proprio in quel periodo della sua vita egli sviluppasse
una particolare abilità nell'accumulare ed estorcere denaro.
RITORNO
Fece di nuovo e
definitivamente ritorno nella nostra cittadina solo tre anni prima dell'arrivo di Alëša.
Gli
amici di un tempo lo trovarono terribilmente invecchiato, benché non fosse poi così
vecchio. Si comportava in modo non certo più dignitoso di prima, anzi era diventato
ancora più spudorato. Per esempio, nel buffone di un tempo era spuntata l'insolente
esigenza di far fare i buffoni agli altri.
La sua depravazione con il gentil sesso non era la
solita di sempre, ma addirittura più disgustosa. Presto istituì un gran numero di nuove
bettole nel distretto. Era evidente che possedeva forse un capitale di centomila rubli o poco
meno. Molti abitanti della città e del distretto presero subito a indebitarsi con lui, a fronte
di garanzie più che consistenti, s'intende.
FEDOR PIU' VECCHIO
Negli ultimissimi tempi si era come inflaccidito,
aveva iniziato a perdere l'equilibrio, l'autocontrollo, era caduto persino in uno stato di
trasandatezza, cominciava con il fare una cosa e finiva con un'altra, si disperdeva e sempre
più spesso si ubriacava da non reggersi in piedi e se non fosse stato per il servitore
Grigorij, ormai anch'egli molto invecchiato, che si prendeva cura di lui, a volte come un
vero istitutore, forse Fëdor Pavloviè avrebbe passato un sacco di guai.
ARRIVO DI ALESA
L'arrivo di Alëša
sembrò agire su di lui pure da un punto di vista morale, fu come se qualcosa si destasse in
quel vecchio precoce, qualcosa da lungo assopita nella sua anima. «Lo sai», diceva spesso
ad Alëša guardandolo fisso, «che tu le assomigli molto, alla klikuša, intendo?». Così
chiamava la sua defunta moglie, la madre di Alëša.
Fu il servitore Grigorij a mostrare
finalmente ad Alëša la piccola tomba della klikuša. Lo condusse nel cimitero della nostra
cittadina e lì, in un angolino remoto, gli mostrò una lapide di ghisa, da poco prezzo ma
curata, sulla quale c'era persino un'iscrizione con nome, cognome, età e anno di morte
della defunta; in basso era inciso pure una specie di tetrastico, di quelli che si usavano un
tempo sulle tombe del ceto medio.
Con meraviglia di Alëša, quella lapide risultò opera di
Grigorij. L'aveva fatta erigere di persona sulla tomba della povera klikuša e a proprie spese
dopo che Fëdor Pavloviè, da lui più volte importunato per ricordargli quella tomba, se
n'era partito per Odessa infischiandosene non solo delle tombe, ma anche di tutti i ricordi.
Sulla tomba della madre Alëša non espresse alcuna particolare emozione, si limitò ad ascoltare attentamente il racconto grave e sensato di Grigorij sulla costruzione della lapide,
vi sostò accanto a testa bassa e se ne andò senza dire una parola.
1000 RUBLI DI OFFERTA DI FEDOR AL MONASTERO
Dopo quel giorno, forse
persino per un anno intero, non tornò più al cimitero. Ma anche questo piccolo episodio
produsse il suo effetto su Fëdor Pavloviè, e un effetto persino molto singolare. Prese su
due piedi mille rubli e li portò al nostro monastero per commemorare l'anima della sua
consorte, ma non della seconda, non della madre di Alëša, non della klikuša, ma della
prima, Adelaida Ivanovna, quella che lo picchiava. Quella sera stessa si ubriacò e insultò i
monaci in presenza di Alëša. Era lungi dall'essere religioso: era il tipo che forse non aveva
mai messo neanche un cero da cinque copeche davanti alle immagini sacre. Strani impulsi
dettati da repentini sentimenti e repentini pensieri sono comuni in tali soggetti.
Ho già detto che si era molto inflaccidito.
La sua fisionomia in quel periodo
presentava alcuni tratti che testimoniavano chiaramente il tipo e la natura di vita che
aveva condotto fino a quel momento.
ASPETTO FISICO DI FEDOR
Oltre alle lunghe e carnose borse sotto gli occhi
minuti, dall'espressione eternamente impudente, sospettosa e beffarda, oltre a una miriade
di profonde rughe che gli solcavano il viso piccolo ma grasso, sotto il mento aguzzo gli
pendeva anche un grosso pomo d'Adamo, carnoso e allungato come un portamonete, che
gli conferiva un'aria disgustosamente lasciva.
Aggiungete a questo una lunga bocca vorace
con le labbra carnose tra le quali spuntavano piccoli frammenti di denti neri quasi
sgretolati. Spruzzava saliva ogni volta che iniziava a parlare. Del resto, egli stesso amava
scherzare sul suo viso, sebbene pareva che ne fosse abbastanza soddisfatto.
Soleva indicare
soprattutto il proprio naso, non molto grosso, ma affilato e sensibilmente aquilino:
«Un
vero naso romano», diceva: «insieme al pomo d'Adamo, mi dà una vera fisionomia da
patrizio dell'antica Roma nel periodo decadente».
Sembrava che ne andasse fiero.
ALESA DECIDE DI ENTRARE NEL MONASTERO
Ed ecco che quasi subito dopo aver visitato la tomba della madre, Alëša gli
comunicò, di punto in bianco, di voler entrare al monastero e che i monaci erano disposti
ad accoglierlo come novizio. Gli spiegò che questa era la sua massima aspirazione e che gli
chiedeva solennemente il suo paterno consenso. Il vecchio già sapeva che lo starec Zosima,
che si stava santificando nell'eremo del monastero, aveva prodotto una forte impressione
sul suo «dolce ragazzo».
«Fra tutti quei monaci certo lo starec è il più onesto», disse il padre dopo aver
ascoltato Alëša in pensieroso silenzio, senza punto meravigliarsi della sua richiesta.
«Hmm, allora è lì che vuoi stare, mio dolce ragazzo!».
Egli era mezzo ubriaco e
all'improvviso le sue labbra si allargarono nel suo solito sorrisetto lento e brillo, non
scevro di furbizia e malignità alticcia.
«Hmm, avevo il presentimento che avresti finito con
il fare una cosa del genere, ti figuri? Tiravi dritto proprio verso quella direzione. Be', certo, hai i tuoi duemila rubletti, quella è la tua dote, ma io, angelo mio, io non ti lascerò mai,
sono disposto a versarti in questo momento la cifra necessaria se me la chiederanno. E se
non lo chiederanno, perché imporci, che ne dici?
Tu spendi come un uccellino, due semini
a settimana... Hmm... Lo sai che vicino a un certo monastero c'è un sobborgo e tutti sanno
che lì ci "vivono non altri che le mogli del monastero", le chiamano così, saranno una
trentina di mogli, penso...
Ci sono stato e, sai, è piuttosto interessante nel suo genere,
s'intende, quanto a originalità. L'unica cosa che non va è che è terribilmente russo, non c'è
neanche una francesina, e potrebbero permetterselo, con i mezzi che hanno. Se quelle lo
venissero a sapere, ci verrebbero. Mentre qui non c'è niente, non ci sono mogli di monaci
qui, e ci saranno qualcosa come duecento monaci. Tutta rettitudine e castità. Lo
riconosco... Hmm...
I DIAVOLI
Così vuoi andare dai monaci? Eppure mi dispiace per te, Alëša,
davvero - mi credi? - mi ero affezionato a te... Comunque è anche una comodità: pregherai
per noi peccatori, abbiamo peccato anche troppo qui da noi. Mi sono sempre domandato:
chi pregherà mai per me un domani? Ci sarà mai una persona al mondo che lo farà?
Piccolo mio, io a questo riguardo sono tremendamente stupido, tu, forse, non ci crederai.
Tremendamente. Vedi: su questo sono proprio uno stupido, ci penso e ci ripenso sempre,
ogni tanto cioè, non proprio sempre comunque. Potrebbe mai darsi, penso io, che i diavoli
si dimentichino di trascinarmi giù da loro con gli arpioni quando morirò? Ma poi penso:
gli arpioni? Ma da dove li prendono? E di che materiale sono fatti? Di ferro? Dove li
forgiano? Che, hanno una fonderia da quelle parti? Forse lì al monastero credono davvero
che l'inferno abbia, per esempio, il soffitto. Io sono pure disposto, sì, a credere all'inferno,
ma senza il soffitto; direi che sarebbe più fine, più progredito, più alla luterana. Ma, dopo
tutto, che importanza ha che ci sia o no il soffitto? Ma ecco, ecco dove sta la maledetta
questione! Se non c'è il soffitto, vuol dire non ci sono neanche gli arpioni. Se non ci sono gli
arpioni vuol dire che va tutto in malora, dunque è tutto di nuovo inverosimile: allora chi
mi trascinerà giù con gli arpioni, perché se non mi trascineranno giù, allora che giustizia
c'è a questo mondo? Il faudrait les inventer, questi arpioni, apposta per me, per me solo
perché se tu solo sapessi, Alëša, che svergognato sono io!...»
«Ma lì non ci sono arpioni»,
disse Alëša, tranquillo e serio, guardando fisso il padre.
«Sì, sì, c'è solo l'ombra degli arpioni. Lo so, lo so. Un francese ha descritto così
l'inferno: "
J'ai vu l'ombre d'un cocher, qui avec l'ombre d'une brosse frottait l'ombre d'une
carrosse".
Tu, tesoruccio mio, come fai a sapere che non ci sono gli arpioni? Dopo aver
vissuto con i monaci, cambierai musica. Comunque, va', cerca di arrivare alla verità e poi
vieni a raccontarmela: sarà più facile andare all'altro mondo, se sai per certo che cosa ci
trovi. E sarà anche più decoroso per te stare dai monaci piuttosto che da me, vecchiaccio
d'un ubriacone, e per di più con quelle signorine... sebbene niente riesca a sfiorarti, sei proprio come un angelo. E forse anche là niente riuscirà a sfiorarti, ecco perché ti permetto
di andarci ed è su questo che faccio affidamento. Il diavolo non ti ha mangiato il cervello.
Avvamperai e ti spegnerai, guarirai e tornerai indietro. E io ti aspetterò: infatti sento che
sei l'unica persona al mondo che non mi ha mai giudicato, mio cheto ragazzo, io lo sento
davvero, non posso fare a meno di sentirlo!...»
E si mise persino a piagnucolare.
Era sentimentale. Era cattivo e sentimentale
5. Gli starzy
Il'ja Sergeevič Glazunov, Illustrazioni de I Fratelli Karamazov.
... a questo punto bisognerebbe spiegare chi siano in generale
gli STARCY
nei nostri monasteri ed è un peccato che in questo campo non mi senta
abbastanza competente e ferrato. Tenterò comunque di dire quattro parole
a proposito, a grandi linee. In primo luogo, i competenti e gli specialisti
dicono che gli starcy e l'istituto dello starèestvo abbiano fatto la loro
comparsa fra di noi, nei nostri monasteri russi, in tempi molto recenti -
pare che non sia passato nemmeno un secolo - mentre in tutto l'Oriente
ortodosso, in particolare nel Sinai e sul Monte Athos, esistono da più di
mille anni. [---]
Ma allora che cos'è uno STAREC?
Lo STAREC è colui che accoglie la vostra anima,
la vostra volontà nella propria anima, nella propria volontà.
Quando scegliete uno
starec,
voi rinunciate alla vostra volontà e gliela affidate in completa
sottomissione, con assoluta abnegazione.
[….,]Quindi gli starcy sono investiti di un
potere che in certi casi è assoluto e imperscrutabile.
Ecco perché in molti
monasteri da noi lo starèestvo
è stato persino oggetto di persecuzione.
Nel contempo il POPOLO ha cominciato immediatamente a nutrire un grande
rispetto per gli starcy.
Dagli starcy del nostro monastero, per esempio,
affluivano in massa sia gente del popolo sia persone eminenti allo scopo di
prostrarsi dinanzi a loro e confessare i propri dubbi, i propri peccati, le
proprie sofferenze, chiedere consiglio e guida.
Libro primo, Capitolo V Gli stàrzy (pp. 39-50)
Il'ja Sergeevič Glazunov, Illustrazioni de I Fratelli Karamazov.
... a questo punto bisognerebbe spiegare chi siano in generale
gli STARCY
nei nostri monasteri ed è un peccato che in questo campo non mi senta
abbastanza competente e ferrato. Tenterò comunque di dire quattro parole
a proposito, a grandi linee. In primo luogo, i competenti e gli specialisti
dicono che gli starcy e l'istituto dello starèestvo abbiano fatto la loro
comparsa fra di noi, nei nostri monasteri russi, in tempi molto recenti -
pare che non sia passato nemmeno un secolo - mentre in tutto l'Oriente
ortodosso, in particolare nel Sinai e sul Monte Athos, esistono da più di
mille anni. [---]
Ma allora che cos'è uno STAREC?
Lo STAREC è colui che accoglie la vostra anima,
la vostra volontà nella propria anima, nella propria volontà.
Quando scegliete uno
starec,
voi rinunciate alla vostra volontà e gliela affidate in completa
sottomissione, con assoluta abnegazione.
[….,]Quindi gli starcy sono investiti di un
potere che in certi casi è assoluto e imperscrutabile.
Ecco perché in molti
monasteri da noi lo starèestvo
è stato persino oggetto di persecuzione.
Nel contempo il POPOLO ha cominciato immediatamente a nutrire un grande
rispetto per gli starcy.
Dagli starcy del nostro monastero, per esempio,
affluivano in massa sia gente del popolo sia persone eminenti allo scopo di
prostrarsi dinanzi a loro e confessare i propri dubbi, i propri peccati, le
proprie sofferenze, chiedere consiglio e guida.
Libro primo, Capitolo V Gli stàrzy (pp. 39-50)