lunedì 29 maggio 2017

TERZO GIORNO di IVAN E FEDOR

TERZO GIORNO DI IVAN
... si svegliò presto, verso le sette, ad alba fatta. Aprendo gli occhi, fu sorpreso di sentirsi pieno di un'insolita energia, balzò rapidamente giù dal letto e si vestì in fretta, poi tirò fuori la valigia e cominciò subito a riempirla. La biancheria gli era arrivata giusto la mattina prima dalla lavandaia. Ivan Fëdoroviè sorrise persino al pensiero che tutto contribuisse a facilitare l'improvvisa partenza. E la sua partenza era senza dubbio improvvisa. Sebbene Ivan Fëdoroviè avesse detto il giorno prima (a Katerina Ivanovna, ad Alëša e poi a Smerdjakov) che sarebbe partito l'indomani, si ricordò di non aver affatto pensato alla partenza quando era andato a letto o, almeno, non aveva minimamente pensato che la prima cosa che avrebbe fatto l'indomani, svegliandosi, sarebbe stata quella di affrettarsi a fare le valigie. Finalmente la valigia e la borsa da viaggio furono pronte: erano all'incirca le nove quando Marfa Ignat'evna entrò nella sua stanza con la solita domanda di ogni giorno: "Dove volete prendere il tè, in camera o di sotto?" Ivan Fëdoroviè scese con un'aria quasi allegra, sebbene in lui, nelle sue parole, nei suoi gesti ci fosse qualcosa di scomposto e affrettato. Dopo aver affabilmente salutato il padre ed essersi premurosamente informato sulla sua salute - senza aspettare tuttavia che il padre finisse di rispondere - egli gli annunciò che sarebbe partito per Mosca di lì a un'ora, per sempre, e gli chiese di mandare a prendere i cavalli al più presto.
FEDOR CHIEDE AD IVAN DI ANDARE A Cermašnja
Il vecchio ascoltò la notizia senza manifestare la minima meraviglia, e dimenticò, in modo a dir poco sconveniente, di rammaricarsi per la partenza del caro figliolo. Invece si mise subito in agitazione, come ricordando, a proposito, un suo affare personale della massima importanza. «Che tipo che sei! Potevi dirmelo ieri... ma non fa niente, sistemeremo ogni cosa lo stesso. Fammi un grande favore, ragazzo mio, passa da Èermašnja. Devi soltanto svoltare a sinistra alla stazione di Volov'ja, in tutto una dozzina di verste e sei arrivato a Èermašnja». 
 «Spiacente, ma non posso: è a ottanta verste dalla ferrovia 
e il treno per Mosca parte dalla stazione alle sette di sera, faccio appena in tempo a prenderlo». 
 «Lo prenderai domani o dopodomani, ma oggi svolta a Èermašnja. Che ti costa far contento tuo padre? 
CONGEDO
«Be', va' con Dio, va' con Dio!», gli ripeteva dal terrazzino. «Tornerai ancora, una volta o l'altra nella vita? Cerca di venire, ne sarò sempre felice. Be', che Cristo ti accompagni!» Ivan Fëdoroviè salì in carrozza. «Addio, Ivan, non mi biasimare troppo!», gli gridò il padre per ultimo. La servitù al completo era uscita per salutarlo: 
Smerdjakov, Marfa Ignat'evna e Grigorij. 
Ivan Fëdoroviè regalò loro dieci rubli a testa. Quando fu seduto in carrozza, Smerdjakov gli balzò accanto per sistemargli la coperta da viaggio. «Vedi...sto andando a Èermašnja...», sfuggì a Ivan Fëdoroviè; ancora una volta, come il giorno prima, le parole gli uscirono involontariamente e accompagnate da un risolino nervoso. 
Ricordò a lungo questo fatto. 
 «Vuol dire che la gente ha ragione quando dice che anche due chiacchiere, con un uomo intelligente, sono interessanti», replicò con fermezza Smerdjakov, guardando con aria significativa Ivan Fëdoroviè. 

IVAN IN VIAGGIO


La carrozza dette uno scossone e partì a spron battuto.

Tutto era confuso nell'anima del viaggiatore, ma egli guardava avidamente i campi tutt'intorno, le colline, gli alberi, gli stormi di oche che volavano alto nel
cielo limpido. E sentì un improvviso benessere. Provò ad attaccare discorso con il vetturino e si interessò enormemente alle risposte che il contadino gli dava, ma un minuto dopo si rese conto che non aveva nemmeno prestato orecchio a quanto diceva il contadino e che neppure aveva capito quello che rispondeva.
Tacque, ma stava bene anche così: l'aria era tersa, fresca, pungente, il cielo era limpido. Fecero per balenargli in mente le immagini di Alëša e di Katerina Ivanovna, ma sorrise dolcemente e dolcemente soffiò via i loro cari fantasmi, ed essi svanirono. "Ci sarà tempo anche per loro", pensò. 


CAMBIAMENTO DI PROGRAMMA
 

Raggiunsero presto la stazione, cambiarono i cavalli e partirono al galoppo alla volta di Volov'ja. "Perché anche due chiacchiere, con un uomo intelligente, sono interessanti?" Che cosa aveva voluto dire? Questo pensiero sembrò togliergli il respiro. "E perché io gli ho detto che andavo a Èermašnja?" 

Raggiunsero di gran carriera la stazione di Volov'jà. Ivan Fëdoroviè scese dalla carrozza e i vetturini gli si fecero intorno. Mercanteggiarono il prezzo per portarlo a Èermašnja, dodici verste di strada vicinale, su cavalli privati. Egli ordinò di attaccare i cavalli. Entrò dentro la stazione di posta, si guardò intorno, gettò uno sguardo alla moglie del sorvegliante e subito tornò sul terrazzino d'ingresso. 

 «Non serve andare a Èermašnja. Faccio in tempo a raggiungere la stazione ferroviaria per le sette, fratelli?» «Vi accontenteremo subito. Attacchiamo i cavalli, allora?» «Immediatamente. Qualcuno di voi si reca in città domani?» «Come no, ci andrà Mitrij ». «Puoi farmi un servizio, Mitrij? Va' da mio padre, da Fëdor Pavloviè Karamazov e digli che non sono andato a Èermašnja. Puoi farlo?» «Perché no, ci passerò; conosciamo da un pezzo Fëdor Pavloviè». «Eccoti qualcosa per il tè, perché credo che lui non ti darà nulla...», scoppiò a ridere allegramente Ivan Fëdoroviè. «Ci potete scommettere che non mi darà nulla», si mise a ridere anche Mitrij. «Grazie signore, eseguirò senz'altro...» 

 Alle sette di sera Ivan Fëdoroviè saliva sul treno e partiva per Mosca. 
 "Alle spalle il passato, ho chiuso con il vecchio mondo per sempre, che non me ne giunga più alcuna notizia, alcuna eco; verso un nuovo mondo, verso luoghi nuovi, senza più guardare indietro". Ma invece che dall'entusiasmo, la sua anima fu invasa all'improvviso dalle tenebre e il suo cuore si riempì di una tristezza quale non aveva mai provato in vita sua. Passò tutta la notte a pensare, intanto il treno viaggiava veloce; 
solo verso l'alba, alle porte di Mosca, fu come se tornasse in sé.
 «Sono un vigliacco!», sussurrò a se stesso.

TERZO GIORNO DI FEDOR
Invece Fëdor Pavloviè, dopo aver accompagnato il figlio, rimase molto soddisfatto. 
Per due ore buone si sentì quasi felice mentre sorseggiava il suo cognacchino. 

Ma ad un tratto, in casa successe un incidente molto fastidioso ed estremamente spiacevole per tutti, che sconvolse in un baleno la disposizione di spirito di Fëdor Pavloviè: Smerdjakov era andato in cantina a prendere qualcosa ed era caduto dalla cima della scala. Per fortuna Marfa Ignat'evna in quel momento si trovava nel cortile e aveva sentito in tempo. Non aveva assistito alla caduta, però aveva sentito un urlo, un urlo particolare, strano, ma che conosceva da tempo: il grido dell'epilettico in preda ad un attacco. Nessuno fu in grado di stabilire se l'attacco gli fosse venuto mentre scendeva gli scalini - in questo caso doveva essere cascato in stato di incoscienza, oppure, al contrario, se l'attacco fosse sopravvenuto in Smerdjakov, epilettico dichiarato, in seguito alla caduta e all'agitazione; fatto sta che lo trovarono che si dibatteva sul pavimento della cantina, in preda a brividi e convulsioni, con la bava alla bocca. All'inizio pensarono che si fosse rotto qualcosa, un braccio o una gamba, e che si fosse storpiato, invece "Dio lo aveva risparmiato", come si espresse Marfa Ignat'evna: non era accaduto nulla del genere, solo che fu difficile tirarlo fuori dalla cantina alla luce del sole. Ma chiesero aiuto ai vicini e in un modo o nell'altro ce la fecero. Fëdor Pavloviè in persona assistette a tutta la cerimonia, anche lui dette una mano, visibilmente spaventato a morte e come smarrito. Il malato, però, non riacquistò conoscenza: anche se gli attacchi cessavano ad intervalli, si rinnovavano in continuazione e tutti giunsero alla conclusione che sarebbe accaduta la stessa cosa dell'anno prima, quando era accidentalmente caduto giù dalla soffitta. Si ricordarono che quella volta gli avevano messo il ghiaccio in testa. C'era ancora del ghiaccio in cantina e Marta Ignat'evna provvide a prenderlo e applicarlo, mentre Fëdor Pavloviè, verso sera, mandò a chiamare il dottor Gercenštube che si presentò immediatamente. Sottopose il malato ad una visita accurata (era il medico più accurato e scrupoloso di tutto il governatorato, un vecchietto avanti con gli anni e rispettabilissimo), e concluse che si era trattato di un gravissimo attacco che "poteva minacciare serie conseguenze" e che dal momento che lui, Gercenštube, non aveva ancora capito del tutto, l'indomani mattina, se non avessero apportato beneficio i rimedi somministrati, ne avrebbe adottati degli altri. Il malato fu trasportato alla dipendenza, nella stanzetta accanto alle stanze di Grigorij e Marfa Ignat'evna. Nel resto della giornata, 

Fëdor Pavloviè dovette subire una disgrazia dopo l'altra: toccò a Marfa Ignat'evna preparare il pranzo e la sua zuppa, in confronto a quella di Smerdjakov, riuscì "pari pari alla risciacquatura dei piatti", mentre il pollo era così secco che non c'era verso di masticarlo. Ai duri, ma giusti rimproveri del padrone, Marfa Ignat'evna replicò che comunque il pollo era molto vecchio e che lei non aveva mai studiato per diventare cuoca. 

Verso sera un altro guaio aspettava Fëdor Pavloviè: gli riferirono che Grigorij, che negli ultimi tre giorni non era stato bene, adesso era assolutamente costretto a stare a letto per il mal di reni. 

Fëdor Pavloviè finì il suo tè al più presto e si serrò in casa, tutto solo. Si trovava in uno stato di attesa spasmodica e agitata. Il fatto è che era convinto che Grušen'ka sarebbe andata da lui proprio quella sera; o, almeno, Smerdjakov gli aveva dato quasi per certo quella mattina, sul presto, che "ella aveva promesso di venire sicuramente". 

Il cuore dell'incorreggibile vecchietto batteva eccitato, egli si aggirava per le sue stanze vuote con l'orecchio teso all'ascolto. Doveva stare all'erta: Dmitrij Fëdoroviè poteva stare appostato da qualche parte, e quando lei avrebbe picchiato alla finestra (Smerdjakov aveva assicurato due giorni prima a Fëdor Pavloviè di averle riferito dove e come bussare), allora bisognava aprire la porta al più presto, a nessun costo ella doveva rimanere un secondo di più nell'andito per evitare che - Dio ce ne scampi - si spaventasse e scappasse via. 

Fëdor Pavloviè aveva molte cose delle quali preoccuparsi, eppure il suo cuore non si era mai deliziato in un mare di dolci speranze come quella sera: questa volta si poteva infatti dire, quasi con certezza, che ella sarebbe andata da lui!



TERZO GIORNO DI GRUSHENKA
Vedi, l'ho appena ingannato, gli ho fatto promettere che mi avrebbe creduta e io invece gli ho mentito. Gli ho detto che sarei rimasta da Kuz'ma Kuz'miè, dal mio vecchio, per tutta la sera e che mi sarei trattenuta sino a notte fonda a contare il denaro. Ogni settimana vado da lui per una serata intera a tenergli i conti. Ci chiudiamo a chiave: lui batte sul pallottoliere e io lì seduta ad annotare i registri, si fida soltanto di me. Mitja ha creduto che sarei rimasta lì, e invece io mi sono chiusa in casa; me ne sto qui ad aspettare una certa notizia.

 Alëša, oggi tuo fratello Mitja mi fa paura», disse Grušen'ka a voce alta, sebbene fosse in allarme; ma sembrava pure presa da una certa esultanza. «Perché hai tanta paura di Miten'ka oggi?», si informò Rakitin. «Sembrava che non fossi affatto impaurita con lui, lo comandi a bacchetta». 
 «Ti ho detto che aspetto una certa notizia, una piccola notizia tutta d'oro e l'ultima cosa che voglio è avere Miten'ka fra i piedi adesso. E non ci ha nemmeno creduto che sarei andata da Kuz'ma Kuz'miè, me lo sento. Quindi starà sicuramente nel suo nascondiglio, sul retro della casa di Fëdor Pavloviè nel giardino, a fare la guardia che io non arrivi. E se starà lì, non verrà qui, tanto meglio! Ma io ho davvero fatto un salto da Kuz'ma Kuz'miè, mi ci ha accompagnato Mitja stesso, gli ho detto che mi sarei trattenuta sino a mezzanotte e gli ho chiesto che venisse assolutamente a prendermi per riportarmi a casa a mezzanotte in punto. Se n'è andato, e io mi sono trattenuta una decina di minuti dal vecchio e poi sono subito tornata qui, avevo paura, ho fatto una corsa nel timore di incontrarlo»


 «Il suo starec è morto oggi, lo starec Zosima, il santo». «Padre Zosima è morto! Ma è vero?», gridò Grušen'ka. «Dio mio! E io che non lo sapevo!». E si fece devotamente il segno di croce. «Dio mio! E io che cosa sto facendo, gli sto seduta sulle ginocchia!», gridò ad un tratto come spaventata, poi scivolò in tutta fretta dalle sue ginocchia e si sedette sul divano. Alëša la guardò a lungo stupito e sembrò che il suo viso cominciasse a raggiare
Ma ecco che adesso è arrivato il mio oltraggiatore e io me ne sto seduta ad aspettare sue notizie. E sai in che modo mi ha oltraggiato quell'uomo? Cinque anni fa, quando Kuz'ma mi portò qui, io me ne stavo rintanata in casa, mi nascondevo alla vista degli altri perché non mi vedessero e non mi sentissero, ero magrolina e stupida, me ne stavo qui a singhiozzare, non chiudevo occhio per notti intere e pensavo: "Dove sarà mai in questo momento il mio oltraggiatore? Forse sta ridendo di me con un'altra, se solo lo potessi vedere, se solo lo potessi incontrare un giorno: gliela farei pagare per quello che mi ha fatto, gliela farei pagare!" Di notte, al buio, singhiozzavo nel cuscino e rimuginavo su questo, mi laceravo il cuore a bella posta e lo saziavo con la mia rabbia: "Gliela farò pagare, gliela farò pagare!" Così gridavo al buio. Ma quando mi sovveniva di colpo che non gli avrei potuto fare un bel niente, e che lui in quel momento forse se la rideva di me, o forse si era completamente dimenticato di me e non mi ricordava affatto, allora dal letto mi gettavo sul pavimento, mi scioglievo in lacrime di impotenza e giacevo lì tremante sino all'alba. La mattina mi alzavo più arrabbiata di una cagna, pronta a sbranare il mondo intero. E poi, sai cosa mi misi a fare? Cominciai ad accumulare un capitale, diventai spietata, mi rimpinguai, ma tu credi che mi sia fatta più saggia nel frattempo, eh? Neanche per sogno: nessuno lo vede, nessuno in tutto l'universo lo sa, ma quando si fa notte, alcune volte me ne sto sdraiata esattamente come quando ero una ragazzina, come cinque anni fa, digrigno i denti e piango tutta la notte: "Gliela farò pagare, gliela farò pagare!", penso. Hai ascoltato tutto quello che ti ho detto? Ecco, adesso mi puoi capire, un mese fa mi arriva all'improvviso una lettera: è lui, sta venendo, è rimasto vedovo, vuole vedermi. Mi sentii mancare il respiro, Santo Iddio, e all'improvviso pensai: "Lui arriva, mi fa un fischio e io gli corro incontro come un cagnolino bastonato, colpevole!" Penso questo e non credo a me stessa: "Ma sono proprio così vigliacca o no? Correrò da lui oppure no?" E sono stata in preda a quella stessa rabbia contro me stessa per tutto il mese, una rabbia ancora peggiore di cinque anni fa. Adesso vedi, Alëša, quanto sono violenta e vendicativa, ti ho detto proprio tutta la verità! Mi sono divertita con Mitja per non correre da quell'altro. Sta zitto, Rakitka, non tocca a te giudicarmi, non stavo parlando con te. Prima del vostro arrivo me ne stavo sdraiata qui, aspettavo, pensavo, decidevo il mio destino e voi non saprete mai che cosa provavo nel mio cuore. No, Alëša, di' alla tua signorina che non se la prenda per quello che è avvenuto tre giorni fa!... E nessuno al mondo saprà come mi sento in questo momento e non potrà mai saperlo... Perché forse prenderò con me un coltello, non mi sono ancora decisa...

«Non ridere, Rakitin, non ti burlare di lui, non parlare del defunto: egli è superiore a tutti nel mondo!», gridò Alëša con la voce rotta dal pianto. «Non ti ho parlato come un giudice, ma come l'ultimo degli imputati. Chi sono io davanti a lei? Ero venuto qui per rovinarmi e mi dicevo: 'Sia quel che sia, che importa?', e questo per la mia pusillanimità, mentre lei, dopo cinque anni di tormenti, non appena il primo arrivato le dice una parola sincera, ha perdonato tutto, ha dimenticato tutto e piange! Il suo oltraggiatore è tornato, la chiama e lei gli perdona tutto e corre da lui felice e non prenderà il coltello, non lo prenderà! No, io non sono come lei! Non so come sia tu, Miša, ma io non sono come lei! Oggi, adesso ho imparato la lezione... Ella è superiore a noi per capacità di amare... Hai mai sentito prima quello che ha appena raccontato? No, non l'hai sentito; se l'avessi sentito, avresti capito tutto da un pezzo... e anche la persona che lei ha insultato due giorni fa la perdonerà! La perdonerà se verrà a sapere... e lo verrà a sapere... Quest'anima non è ancora in pace con se stessa, occorre essere indulgenti con essa... in quest'anima si può celare un tesoro...

«Ci andrò!», esclamò all'improvviso. «Cinque dei miei anni! Addio! Addio, Alëša, il mio destino è deciso... Andate, andate, andatevene via tutti, che non vi veda mai più! Grušen'ka ha preso il volo verso una nuova vita... Non ricordarmi con rancore nemmeno tu, Rakitka. Forse sto andando incontro alla morte! Uh! È come se fossi ubriaca!» Ella li abbandonò in men che non si dica e corse in camera da letto. «Be', adesso non ha più tempo di pensare a noi!», grugnì Rakitin. «Andiamo, altrimenti ci toccherà sentire ancora tutte quelle urla femminee, mi hanno seccato tutti questi strilli lacrimevoli». Alëša, macchinalmente, si lasciò portare via. Nel cortile sostava una carrozza, avevano staccato i cavalli, andavano avanti e indietro con una lanterna, si davano un gran da fare. Introdussero i tre cavalli freschi attraverso il portone spalancato. Alëša e Rakitin erano appena scesi dal terrazzino d'ingresso, quando si spalancò la finestra della camera da letto di Grušen'ka e quella, con voce squillante, gridò dietro ad Alëša: «Alëšeèka, porta i miei saluti al tuo caro fratello Miten'ka e digli di non serbare rancore per me, anche se gli ho fatto del male. E riferiscigli pure queste mie parole: "A Grušen'ka è toccato un mascalzone, non un gentiluomo come te". E digli pure che Grušen'ka lo ha amato per un'oretta, solo per un'oretta, ma lo ha amato - che ricordi quindi quell'oretta per tutta la vita a partire da oggi, digli che è Grušen'ka che lo ordina, per tutta la vita».

«Che, mi "disprezzi" per i venticinque rubli di poco fa? Dirai tu: ha venduto un amico sincero. Ma tu non sei Cristo e io non sono Giuda». «Ah, Rakitin te lo assicuro, me n'ero persino dimenticato!», esclamò Alëša. «Sei stato tu a ricordarmelo adesso...» Ma ormai Rakitin aveva perso completamente le staffe. «Ma che il diavolo vi pigli tutti, uno per uno!», strillò inaspettatamente. «E perché diavolo mi sono attaccato a uno come te! D'ora in poi non ti conosco più. Vattene per conto tuo, la strada è tutta tua!» Ed egli svoltò bruscamente in un'altra strada lasciando Alëša da solo nell'oscurità. 

ALEKSIEJ RITORNA AL MONASTERO

Alëša si lasciò alle spalle la città e proseguì verso il monastero attraverso la campagna. 
 IV • Cana di Galilea 

 Era molto tardi, secondo le abitudini del monastero, quando Alëša giunse all'eremo; il frate guardiano lo fece entrare in via del tutto eccezionale. Erano appena suonate le nove: l'ora del riposo e della quiete generale, dopo una giornata così inquietante per tutti. Alëša aprì timidamente la porta ed entrò nella cella dello starec, dove adesso c'era la sua bara.

 Di nuovo la bara, la finestra aperta, di nuovo la pacata, solenne, chiara lettura del Vangelo. Ma Alëša non prestava più ascolto a quanto si leggeva. 

Strano: si era addormentato in ginocchio, mentre adesso si trovava in piedi; poi, ad un tratto, come se lo qualcosa lo spingesse in avanti, con tre rapidi passi egli si accostò alla bara. Sfiorò persino padre Paisij con la spalla, senza nemmeno accorgersene. Questi per un istante fece per sollevare verso di lui lo sguardo, ma poi lo distolse subito, comprendendo che al ragazzo era accaduto qualcosa di inconsueto. Alëša si trattenne a guardare la bara per mezzo minuto, guardava il cadavere coperto, immobile, allungato nella bara, con un'icona sul petto e il cappuccio con la croce a otto punte sul capo. Aveva appena udito la sua voce ed essa gli risuonava ancora nelle orecchie. Egli si mise ancora all'ascolto, in attesa di altre parole... ma all'improvviso, giratosi bruscamente, egli uscì dalla cella. 

FUORI NELLA NOTTE STELLATA
Non si soffermò nemmeno sul terrazzino d'ingresso, ma scese rapidamente giù per le scale. La sua anima traboccante anelava alla libertà, allo spazio, all'infinito. La volta celeste, punteggiata di placide stelle splendenti, si stendeva ampia e sconfinata sopra di lui. La Via Lattea si allungava in due pallide striature dallo zenit all'orizzonte. La notte fresca e tranquilla sino all'immobilità avvolgeva la terra intera. Le bianche torri e le cupole dorate della cattedrale rilucevano sullo sfondo del cielo color zaffiro. I lussureggianti fiori autunnali delle aiuole intorno alla casa si erano assopiti in attesa del giorno. Il silenzio della terra sembrava fondersi con quello del cielo, il segreto della terra faceva tutt'uno con quello delle stelle... Alëša stava in piedi, ad osservare la notte, quando ad un tratto si gettò di colpo per terra.



SECONDO GIORNO

MATTINO SECONDO GIORNO
LIBRO QUARTO • LACERAZIONI
I • Padre Ferapont
Svegliarono Alëša la mattina presto, prima ancora dell'alba. Lo
starec si era destato e si sentiva estremamente debole, anche se aveva
voluto passare dal letto alla poltrona. Era pienamente cosciente: il suo
viso, sebbene molto affaticato, era luminoso, quasi gioioso, e il suo
sguardo allegro, affabile e invitante. 
«Forse non vivrò fino alla fine di questa giornata che ora incomincia», 
disse ad Alëša; poi volle confessarsi e prendere la comunione senza indugi. 
Il suo direttore spirituale era sempre stato padre Paisij. 
Dopo aver preso i due sacramenti, ebbe inizio l'estrema
unzione. Si riunirono gli ieromonaci, la cella a poco a poco si riempì di
monaci eremiti. Nel frattempo si faceva giorno. A poco a poco
cominciavano ad arrivare anche dal monastero. Quando il servizio fu

terminato, lo starec espresse il desiderio di baciare e salutare tutti.

Alëša
ricordò in seguito che, fra i monaci che si accalcavano presso lo starec e
intorno alla sua cella, più volte era balenata davanti ai suoi occhi la
figuretta del curioso ospite di Obdorsk, che indagava da un gruppetto
all'altro, ascoltando e facendo domande. Ma allora Alëša ci prestò poca
attenzione, se ne ricordò soltanto in seguito...D'altronde aveva altro a cui
pensare, perché padre Zosima, che si era sentito nuovamente stanco, era
tornato a letto, e si era ricordato all'improvviso di Alëša, mentre stava già
chiudendo gli occhi, quindi lo aveva mandato a chiamare. Alësa era
accorso all'istante. Al capezzale dello starec in quel momento c'erano solo
padre Paisij, il padre ieromonaco Iosif e il novizio Porfirij. Lo starec aprì
gli occhi affaticati, guardò fisso Alëša e ad un tratto gli domandò:
«I tuoi non ti stanno aspettando, figliolo?»
Alëša si confuse.
«Non hanno bisogno di te? Ieri non hai promesso a qualcuno che
saresti andato a fargli visita oggi?»
«L'ho promesso... a mio padre... ai fratelli... ad altri ancora...»
«Lo vedi. Va' senza indugio. Non ti addolorare. Sappi che non morirò
finché tu non sarai presente per ascoltare la mia ultima parola su questa
terra. A te dirò questa mia parola, figliolo, e te la lascerò in dono. A te,
figliolo, caro, giacché tu mi ami. Ma adesso va' da coloro a cui hai
promesso».

Alëša ubbidì immediatamente anche se gli era penoso allontanarsi.

II • Dal padre
In primo luogo Alëša si recò dal padre. Durante il tragitto, gli
sovvenne che questi il giorno prima aveva molto insistito perché egli
entrasse di nascosto dal fratello Ivan. «Perché mai?», si domandò Alëša.
«Se mio padre vuol dire qualcosa a me solo, di nascosto, che bisogno c'è di
entrare pure di nascosto? Evidentemente ieri voleva dire qualcos'altro, così
agitato com'era, ma non c'è riuscito», concluse. Nondimeno si rallegrò
quando Marfa Ignat'evna, che gli aprì la porticina del giardino (seppe poi
che Grigorij stava male e riposava nella dipendenza), alla sua domanda
rispose che Ivan Fëdoroviè era uscito già da due ore.
«E il papà?»
«Si è alzato, sta bevendo il caffè», rispose un po' seccamente Marfa
Ignat'evna.
Alëša entrò. Il vecchio sedeva solo a tavola, indossava le pantofole e
un vecchio cappotto ed esaminava, per distrarsi, ma senza grande
attenzione, certi suoi conti. Era completamente solo in casa (anche
Smerdjakov era uscito a fare la spesa per il pranzo). Ma non erano i conti a
tenergli occupata la mente. Sebbene si fosse alzato di buon mattino e si
facesse forza, aveva tuttavia un'aria stanca e indebolita. La fronte, che
durante la notte si era riempita di enormi lividi violacei, era avvolta in un
fazzoletto rosso. Pure il naso si era molto gonfiato durante la notte e su di
esso si erano formati dei lividi a chiazze, non molto evidenti, ma che
indubbiamente conferivano al suo volto un aspetto particolarmente arcigno
e malevolo. Il vecchio se ne rendeva conto da solo e gettò un'occhiata
ostile su Alëša che entrava in quel momento.
«Il caffè è freddo», disse bruscamente, «non te lo offro. Oggi mangio
zuppa di pesce in bianco e non invito nessuno. Perché sei venuto?»
«Per informarmi sulla vostra salute», rispose Alëša.
«Sì, tanto più che sono stato io stesso ad invitarti ieri. Tutte
sciocchezze. Ti sei disturbato inutilmente. Del resto, lo sapevo che ti
saresti subito scapicollato qui...»
Pronunciò queste parole con aria estremamente ostile.
Nel frattempo si era alzato dal suo posto e si osservava preoccupato il
naso allo specchio (per la quarantesima volta dalla mattina, forse).

Cominciò pure a sistemarsi meglio sulla fronte il fazzoletto rosso.




III • Fa comunella con gli scolari
"Grazie a Dio non mi ha chiesto nulla di Grušen'ka", pensò dal canto
suo Alëša, lasciando la casa del padre e dirigendosi dalla signora
Chochlakova, "altrimenti sarei stato costretto, forse, a parlare dell'incontro
di ieri con Grušen'ka". Alëša avvertiva dolorosamente che durante la notte
i contendenti avevano raccolto nuove forze e che, con il nuovo giorno, il
loro cuore si era nuovamente impietrito: "Nostro padre è irritato e cattivo,
ha escogitato qualcosa e rimane fermo sulle sue, e Dmitrij? Anche lui si
sarà rafforzato nel corso della notte, anche lui sarà irritato e cattivo e pure
lui, naturalmente, ne avrà pensata qualcuna delle sue... Devo

assolutamente riuscire a trovarlo oggi, a qualunque costo..."



…..Aveva appena attraversato la piazza e svoltato nel
vicolo che portava in via Michajlovskij, parallela alla Bol'šaja, ma separata da questa da un piccolo canale (la nostra città è interamente intersecata da canali), quando scorse giù, davanti al ponticello, un gruppo di scolaretti



IV • Dalle Chochlakov
Ben presto arrivò a casa della signora Chochlakova, una bella
costruzione in muratura, a due piani, una delle migliori case della nostra
cittadina. Sebbene la signora Chochlakova vivesse per la maggior parte
dell'anno in un altro governatorato, dove aveva la sua proprietà terriera,
oppure a Mosca, dove possedeva una casa, anche nella nostra cittadina
aveva una casa tutta sua che aveva ereditato dai suoi genitori e dai nonni.
Anzi, la tenuta che ella possedeva nel nostro distretto era la più grande dei
suoi tre possedimenti, e tuttavia la signora, fino ad allora, si era fatta
vedere molto di rado nel nostro governatorato. Ella corse ad accogliere

Alëša addirittura nell'anticamera. [...]

V • Lacerazione in salotto
Ma in salotto la conversazione si era già conclusa; Katerina Ivanovna
era sovreccitata, sebbene avesse un'aria risoluta. Nell'istante in cui
entrarono Alëša e la signora Chochlakova, Ivan Fëdoroviè si stava alzando
per andare via. Era leggermente pallido in volto e Alëša lo guardò
preoccupato. Infatti, in quel momento, per Alëša, si stava sciogliendo un
dubbio, un enigma inquietante che lo tormentava da tempo. Era un mese
che gli suggerivano, da più parti, che il fratello Ivan amava Katerina

Ivanovna e, soprattutto, che era davvero intenzionato a "soffiarla" a Mitja.[...]

«Ho un grosso favore da chiedervi, Aleksej Fëdoroviè», prese a dire,
rivolgendosi direttamente ad Alëša, con voce calma e misurata, come se
non fosse accaduto nulla. «Una settimana, sì, mi pare una settimana fa,
Dmitrij Fëdoroviè ha compiuto un gesto avventato e ingiusto, molto
riprovevole. C'è un luogo equivoco, una bettola. Lì egli incontrò un
ufficiale a riposo, quel capitano che vostro padre ha impiegato per certi
suoi affari. Per qualche ragione Dmitrij Fëdoroviè si è adirato contro
questo capitano, lo ha afferrato per la barba e, alla presenza di tutti, lo ha
trascinato in strada in questo stato umiliante. In strada l'ha trascinato così
per un pezzo e dicono che il figlio di questo capitano, un ragazzo, ancora
un bambino, che frequenta la scuola locale, abbia assistito alla scena, si sia
messo a correre accanto ai due, piangendo a dirotto e invocando aiuto per
il padre, chiedendo ai presenti che lo difendessero, fra le risate generali.
Perdonate, Aleksej Fëdoroviè, non riesco a pensare a quest'episodio senza
provare indignazione per questa sua vergognosa azione... una di quelle
azioni che solo Dmitrij Fëdoroviè è capace di compiere quando è in preda
all'ira e... alle sue passioni! Non riesco nemmeno a descrivere
quest'episodio, non sono in grado di farlo. Non riesco a trovare le parole.
Ho chiesto informazioni sulla vittima dell'oltraggio e ho saputo che è
molto povero. Si chiama Snegirëv. Ha commesso qualche mancanza
mentre prestava servizio, lo hanno espulso, non so spiegarvi queste cose, e
adesso è precipitato in uno stato di terribile indigenza con la sua famiglia,
una famiglia disgraziata di figli malati e una moglie demente, si dice. Vive
da un pezzo qui in città, fa qualche lavoretto qua e là, ha lavorato come
scrivano, ma adesso hanno smesso, tutt'a un tratto di pagarlo. Ho gettato lo
sguardo su di voi... cioè ho pensato - non so, chissà perché mi sto
confondendo - vedete, volevo chiedervi, Aleksej Fëdoroviè, mio carissimo
Aleksej Fëdoroviè, di fare un salto da lui con una scusa, introdurvi a casa
sua, di questo capitano cioè - Dio mio, perdo il filo! - e, con tatto, con
cautela, proprio come sapete fare solo voi», (Alëša arrossì di colpo),
«riuscire a dargli questo aiuto, ecco, duecento rubli. Lui sicuramente li
accetterà... cioè, convincetelo ad accettarli... Oppure no, che si può fare?
Vedete non si tratta di un compenso per tenerlo buono, per evitare che
sporga denuncia (giacché pare che abbia questa intenzione), questo è un
semplice gesto di simpatia, di aiuto, da parte mia, da parte della fidanzata
di Dmitrij Fëdoroviè, non da lui direttamente... Insomma, voi sapete... Ci
sarei andata io stessa, ma voi saprete farlo di gran lunga meglio di me.
Abita in via Ozernaja, in casa della borghese Kalmykova... Per l'amor di
Dio, Aleksej Fëdoroviè, fatemi questo favore. Ma adesso... adesso sono un

po'... stanca. Arrivederci...»

scheggia sceneggiato TV 1969


VI • Lacerazione nell'izba



L'incarico di Katerina Ivanovna lo condusse in via Ozërnaja, e l'abitazione del fratello Dmitrij si trovava lì vicino, proprio in una traversa di via Ozërnaja.


Alëša decise di fare un salto da lui, in ogni caso, prima di recarsi dal capitano, sebbene avesse il presentimento che non avrebbe trovato il fratello in casa. Sospettava che quello, con ogni probabilità, si stesse tenendo di proposito alla larga da lui, ma comunque doveva trovarlo ad ogni costo.

Dmitrij non era in casa. I padroni di casa - un vecchio falegname, suo
figlio e una vecchietta, sua moglie - lo guardarono persino con sospetto.
«Sono tre giorni che non passa la notte in casa, forse è partito», rispose il
vecchietto alle insistenti domande di Alëša. Alëša intuì che quello
rispondeva secondo le istruzioni ricevute. Alla sua domanda: «Si nasconde
per caso da Grušen'ka o ancora da Foma?», (Alëša si lasciò andare di
proposito a queste confidenze), tutti e tre i padroni di casa lo guardarono
persino con un certo allarme. "Gli vogliono bene e quindi gli reggono il
gioco", pensò, "e questo è un bene".

CASA DEL CAPITANO SNEGIREV
Finalmente scovò la casa della borghese Kalmykova in via Ozërnaja,
una casetta decrepita, sbilenca, che dava sulla strada solo con tre finestre e
con un fangoso cortile in mezzo al quale se ne stava una mucca, sola

soletta.



VII • E all'aria aperta
«All'aria aperta, vossignoria: nella mia residenza invece non tira aria
buona, in tutti i sensi. Andiamo, signore, passo passo. Avrei proprio voglia

di destare il vostro interesse, vossignoria».

DALLE CHOCHLAKOV

LIBRO QUINTO • PRO E CONTRA
I • Un fidanzamento
Fu ancora una volta la signora Chochlakova ad accogliere per prima
Alëša. Aveva fretta, era successo un fatto importante: l'attacco di nervi di
Katerina Ivanovna si era concluso con uno svenimento, dopo di che era
stata sopraffatta da "una terribile, orribile debolezza, giaceva con gli occhi
rovesciati e delirava. Adesso aveva la febbre, avevano mandato a chiamare
Gercenštube, avevano mandato a chiamare anche le zie. Le zie erano già
arrivate, Gercenštube ancora no. Erano tutte nella camera di lei in attesa.
Qualcosa doveva pur accadere. Lei era priva di conoscenza, cosa sarebbe

accaduto se si fosse rivelata febbre cerebrale?"

NEL CHIOSCO ANCORA

Secondo il suo piano avrebbe dovuto prendere il fratello Dmitrij alla
sprovvista, nel seguente modo: scavalcare, come il giorno prima, lo
steccato, entrare nel giardino e appostarsi in quello stesso chioschetto. "Se
non sarà lì", pensava Alëša, "senza dire niente né a Foma, né alle padrone
di casa, devo nascondermi e aspettare nel chiosco fino a sera. Se sta
facendo la guardia per vedere se arriva Grušen'ka, è molto probabile che
passi dal chiosco..." Alëša non si soffermò a lungo sui dettagli del suo
piano, ma decise di eseguirlo, anche se questo significava non tornare al
monastero per quel giorno...
Tutto filò liscio: scavalcò lo steccato, quasi esattamente nello stesso
punto del giorno prima, e raggiunse di nascosto il chioschetto. Non voleva
che si accorgessero della sua presenza: sia la padrona sia Foma (se questi
era in casa in quel momento) avrebbero potuto essere dalla parte del
fratello e attenersi alle sue istruzioni, quindi avrebbero potuto impedire ad
Alëša di entrare in giardino, oppure avvisare il fratello per tempo che
qualcuno lo stava cercando e stava chiedendo di lui. Nel chiosco non c'era
anima viva. Alëša si sedette al posto del giorno prima e cominciò ad
aspettare. Si guardò intorno e, per qualche ragione, il chiosco gli sembrò
ancora più decrepito del giorno prima: questa volta gli sembrò decisamente
squallido. Eppure la giornata era limpida come quella di ieri. Sul tavolo
verde c'era un'impronta circolare lasciata dal bicchierino di cognac del
giorno prima, che doveva aver traboccato. Pensieri vuoti e del tutto fuori
luogo gli venivano alla mente, come sempre accade durante le attese
noiose. Si domandava, per esempio, perché entrando lì si era seduto
esattamente nello stesso posto del giorno prima e non in un altro? Infine
divenne triste, molto triste per l'inquietudine dell'ignoto. Ma non era
passato un quarto d'ora, quando all'improvviso udì da qualche parte nelle
vicinanze un accordo di chitarra. Qualcuno si trovava, oppure si era
appena seduto, a non più di una ventina di passi da lui, da qualche parte,
fra i cespugli. Ad Alëša sovvenne ad un tratto che il giorno prima, mentre
si allontanava dal chiosco, dove aveva lasciato il fratello, aveva intravisto,
o gli era balenata davanti agli occhi per un attimo, una vecchia, bassa
panchina verde da giardino, sulla sinistra presso lo steccato, fra i cespugli.

Evidentemente gli ospiti si erano seduti lì. Ma chi erano? [...]

Poi accadde un fatto inatteso: Alëša starnutì all'improvviso. Sulla
panchina tacquero di colpo. Alëša si alzò e s'avviò verso di loro.

Si trattava
proprio di Smerdjakov, agghindato di tutto punto, con i suoi lustri stivali di
vernice e i capelli impomatati e forse persino arricciati. La chitarra giaceva
sulla panchina.

La signora era proprio Mar'ja Kondrat'evna, la figlia della
padrona di casa; indossava un vestito celeste chiaro con uno strascico di un
metro e mezzo; la ragazza era giovane e piuttosto carina, anche se aveva il
viso molto paffuto e spaventosamente lentigginoso.

D'altro canto, Ivan Fëdoroviè, per prima cosa,
questa mattina all'alba mi ha mandato all'appartamento in via Ozërnaja,
senza missive, per invitare Dmitrij Fëdoroviè a pranzo nella trattoria qui in
città, quella in piazza. Io ci sono andato, vossignoria, ma non ho trovato
Dmitrij Fëdoroviè in casa sebbene fossero solo le otto. "C'era", mi hanno
detto, "ma poi è uscito": mi hanno detto proprio così i suoi padroni di casa.
Ma avevano un modo strano di parlare, come se si fossero messi d'accordo,
signore. Forse, in questo momento è a pranzo in quella trattoria con il
fratello Ivan Fëdoroviè, dal momento che Ivan Fëdoroviè non è tornato a
casa per il pranzo, Fëdor Pavloviè ha pranzato un'ora fa da solo e adesso è
andato a fare il suo sonnellino. Ma vi supplico caldamente di non fare
parola di me e di quello che vi ho detto, non ditelo a nessuno, signore,
giacché quello mi ucciderebbe come niente, signore».
«Ivan ha invitato a pranzo Dmitrij oggi?», chiese conferma
rapidamente Alëša.
«Proprio così, signore».


LA TRATTORIA
IVAN E ALESA

«Alla trattoria "La capitale", quella in piazza?»  «Proprio quella, signore».  «È molto probabile che sia così!», esclamò Alëša in preda a una forte agitazione. «Vi ringrazio, Smerdjakov, è un'informazione importante, adesso andrò là...»  «Non mi tradite, signore», gli disse dietro Smerdjakov.   «Oh, no, farò finta di essere capitato per caso da quelle parti, state tranquillo».  «Ma dove andate? Aspettate che vi apra la porticina», fece per gridargli Mar'ja Kondrat'evna.  «No, di qui è più breve, scavalcherò di nuovo la siepe».  Quella notizia aveva profondamente turbato Alëša.



S'avviò di corsa verso la trattoria. Era sconveniente entrare in quella trattoria con l'abito monacale, ma poteva chiedere informazioni rimanendo sulle scale e farli scendere. Ma era appena arrivato alla trattoria, quando una finestra si spalancò e il fratello Ivan in persona lo chiamò dall'alto:  «Alëša, puoi fare un salto qui da me adesso? Mi farebbe un enorme piacere».  «Certo che posso, ma non so come fare, vestito così».  «Ma io sto in un salottino privato, sali sul terrazzino d'ingresso e io correrò giù a prenderti...»  Un minuto più tardi Alëša stava seduto accanto al fratello. Ivan pranzava da solo. 

RITORNO DI IVAN A CASA

VI • Per ora, molto oscura
Dal canto suo, Ivan Fëdoroviè, dopo aver salutato Alëša, tornò a
casa, a casa di Fëdor Pavloviè. 

Ma, cosa strana, all'improvviso lo aveva
sopraffatto un'insopportabile angoscia che, cosa ancora più notevole, ad

ogni passo, man mano che si avvicinava alla casa, cresceva sempre più.[...]

Sulla panchina accanto al portone se ne stava piazzato a prendere
l'aria fresca della sera il lacchè Smerdjakov, e Ivan Fëdoroviè, sin dal
primo sguardo, capì che il lacchè Smerdjakov se ne stava piazzato anche

nella sua anima, era quell'uomo che la sua anima non riusciva a tollerare. [...]

Con un senso di
avversione e irritazione, egli cercò di passare oltre, in silenzio, e senza
guardare Smerdjakov, ma questi si alzò dalla panchina e bastò quel gesto
perché Ivan Fëdoroviè intuisse di colpo che l'altro gli voleva parlare di
qualcosa di importante. 
Ivan Fëdoroviè lo guardò e si fermò e il fatto di
essersi fermato invece di passare oltre, come aveva deciso un istante
prima, lo irritò a tal punto da farlo fremere. Guardava con rabbia e
repulsione la fisionomia estenuata, da evirato, di Smerdjakov con i riccetti
delle tempie all'insù e il ciuffetto ben lisciato. L'occhio sinistro
leggermente socchiuso ammiccava e rideva come per dire: "Dove credi di
andare? Non vorrai passare così; non vedi che noi due, persone intelligenti,
dobbiamo fare un certo discorsetto?" Ivan Fëdoroviè sussultò: "Togliti di
mezzo, carogna, non ho niente a che spartire con te, imbecille!", erano
queste le parole che aveva sulla punta della lingua e invece, con sua
somma meraviglia, gli sfuggì di bocca tutt'altro:
«Mio padre dorme ancora o si è svegliato?», domandò con una voce
calma e pacata che neanche lui si aspettava e poi, di punto in bianco,

sempre inaspettatamente, si sedette sulla panchina.
Per un attimo ebbe
quasi paura, lo ricordò in seguito. Smerdjakov stava in piedi di fronte a lui,
con le mani dietro alla schiena e lo guardava con un'aria sicura, persino
severa.
«Il padrone sta ancora dormendo, signore», disse parlando senza

fretta.[...]

«Ma allora per quale motivo», egli interruppe bruscamente
Smerdjakov, «dopo tutto quello che hai detto, mi consigli di andare a
Èermašnja? Che cosa volevi dire con questo? Che se io partissi accadrebbe

tutto questo?» Ivan respirava a fatica. «Proprio così, signore», replicò Smerdjakov con aria calma e
giudiziosa, ma sempre con lo sguardo fisso su Ivan Fëdoroviè. [...]


«Domani parto per Mosca, se ci tieni a saperlo, domani mattina
presto, ecco tutto!», gli disse all'improvviso con voce alta, distinta e
stizzosa; in seguito si domandò come mai avesse sentito il bisogno di dire
quelle parole a Smerdjakov in quel momento.
«È la cosa migliore che vossignoria possa fare», ribatté l'altro, come
se si fosse aspettato esattamente quelle parole, «solo che se andrete a
Mosca, vi potranno incomodare da qui con un telegramma, se dovesse
succedere qualcosa, signore».
Ivan Fëdoroviè si fermò e si voltò di nuovo bruscamente verso
Smerdjakov. Ma anche in Smerdjakov era avvenuto un cambiamento. La
sua aria di familiarità e noncuranza era svanita di colpo; ogni fibra del suo
viso esprimeva un'attenzione straordinaria e un'attesa timida e servile
questa volta, come se volesse dire: "Non devi dirmi altro? Non hai niente
da aggiungere?" Questo si leggeva nel suo sguardo immobile, piantato
fisso su Ivan Fëdoroviè. [...]


«Perché, da Èermašnja non mi potrebbero mandare a chiamare nel
caso in cui accadesse qualcosa?», strillò Ivan Fëdoroviè, alzando
esageratamente la voce, senza sapere neanche lui il perché.
«Anche da Èermašnja, signore... vi potrebbero disturbare...»,

mormorò Smerdjakov con un soffio di voce, con l'aria quasi smarrita, ma
continuando a fissare, a fissare Ivan Fëdoroviè dritto negli occhi.

«Solo che Mosca è più lontana, mentre Èermašnja è più vicina. Che,
ti dispiace per i soldi del viaggio, visto che insisti tanto per Èermašnja? O
ti dispiace che io faccia un giro così lungo?»

«Proprio così, signore...», mormorò Smerdjakov con voce ormai
rotta; aveva un sorrisetto strafottente sulle labbra, e ancora una volta si era
preparato, convulsamente, a fare per tempo un balzo all'indietro. Invece
Ivan Fëdoroviè, con gran meraviglia di Smerdjakov, scoppiò a ridere e
imboccò rapido la porticina, sempre continuando a ridere. Chi avesse
guardato il suo viso in quel momento, avrebbe probabilmente concluso che
non stava ridendo per allegria. E neanche lui avrebbe mai potuto spiegare
che cosa gli fosse preso in quel momento. Si muoveva e camminava

convulsamente.

VII • "Anche due chiacchiere, con un uomo intelligente, sono interessanti"

E parlava, anche, convulsamente. Appena entrato in salone, incontrò
Fëdor Pavloviè e gli gridò a bruciapelo, agitando le braccia: «Sto andando
in camera mia, non da voi, arrivederci», e passò oltre cercando di evitare di
guardare il padre. È molto probabile che in quel momento il vecchio gli
fosse insopportabilmente odioso, ma una così sfacciata manifestazione di
ostilità fu una sorpresa persino per Fëdor Pavloviè. Il vecchio, dal canto
suo, evidentemente voleva comunicargli qualcosa di urgente e proprio per
quello gli era andato incontro in salone. Dopo questo gentile saluto, il
vecchio si fermò, ammutolito, e con aria ironica seguì con lo sguardo il
caro figliolo che saliva di sopra, fino a che quello non fu scomparso.
«Che gli ha preso?», domandò in fretta a Smerdjakov che era entrato

subito dopo Ivan Fëdoroviè.[...]

NOTTE FONDA

Mezz'ora più tardi, la casa era stata chiusa a chiave, e il
vecchio pazzo si aggirava solo per le stanze in trepidante attesa che da un
momento all'altro si udissero i cinque colpi convenuti; di tanto in tanto
sbirciava dalla finestre buie senza vedere nient'altro che la notte.


Era già molto tardi, ma Ivan Fëdoroviè non stava dormendo,
pensava. Andò a letto molto tardi quella notte, verso le due. Ma noi non
tenteremo di riferire l'intero corso dei suoi pensieri, non è questo il

momento di penetrare nella sua anima: verrà il turno anche per essa.[...]

Tornando con
la mente a quella notte, in seguito, Ivan ricordava con particolare
repulsione i momenti in cui si alzava bruscamente dal divano e
furtivamente, con una strana paura addosso, come se fosse spiato, apriva la
porta, usciva per le scale e si metteva in ascolto per sentire Fëdor Pavloviè
che si agitava e camminava al piano di sotto, rimaneva ad ascoltare per un
pezzo, anche cinque minuti buoni, con una strana curiosità, con il fiato
sospeso e con il cuore in tumulto, ma il motivo per cui stava facendo tutto

ciò, il motivo per cui stava in ascolto, ovviamente lo ignorava anche lui.[...]

Ivan Fëdoroviè uscì
apposta un paio di volte sulla scala. Quando, finalmente, tutto si acquietò e
Fëdor Pavloviè si fu coricato, intorno alle due di notte, si coricò pure Ivan
Fëdoroviè con il vivo desiderio di addormentarsi immediatamente, tanto si

sentiva sfinito. E fu così: si addormentò di sasso e non fece sogni,



Cucina russa

IL PRANZO DALL'IGOUMENO

Non si trattava di una sala da
pranzo vera e propria, perché il padre igumeno disponeva soltanto di

due
stanze, anche se molto più spaziose e confortevoli di quelle dello starec.

Anche l'arredamento delle stanze non si distingueva per particolare lusso:

i mobili erano in cuoio e mogano, secondo la vecchia moda degli anni '20;

i pavimenti erano addirittura grezzi;

in compenso tutto brillava di pulito,

alle finestre c'erano molti fiori pregiati;

ma in quel momento il principale
lusso di quei locali era rappresentato, naturalmente,

dalla tavola
magnificamente imbandita, (sempre relativamente parlando):

la tovaglia era candida,

le stoviglie luccicanti;

c'era pane di tre qualità cotto egregiamente,

due bottiglie dell'eccellente miele del monastero

e una grossa brocca di vetro con il kvas,
prodotto nel monastero e rinomato in tutti i dintorni.


Di vodka nemmeno l'ombra.

Rakitin raccontò in seguito
che il pranzo del giorno consisteva di cinque portate:

zuppa di storione e pirožki di pesce;

pesce in bianco cucinato in modo sopraffino e particolare,

polpette di storione,

gelato e frutta cotta,

per finire kisel' sul tipo del blancmanger.

Rakitin aveva fiutato tutte queste buone cose, dal momento che
non aveva saputo resistere e aveva sbirciato nella cucina dell'igumeno,

dove pure aveva i suoi contatti.


PRANZO IN CASA KARAMAZOV

IL SALONE

Secondo una vecchia
consuetudine, la tavola era apparecchiata in SALONE, anche se nella casa
c'era una sala da pranzo vera e propria.

Quella era la stanza più grande
della casa, arredata con una certa ostentazione vecchia maniera.
I mobili
erano decrepiti, bianchi, imbottiti di una vetusta tappezzeria rossa in misto
seta.

Sulle pareti comprese tra le finestre c'erano specchi dalle cornici
elaborate di antico intaglio, anch'esse bianche con decorazioni dorate.

Sulle pareti tappezzate di carta da parato bianca, in molti punti già frusta,
facevano bella mostra di sé due grandi ritratti:
uno di un certo principe, che
una trentina di anni prima era stato
generale-governatore del distretto
locale,
 e l'altro di un arcivescovo, anche quello deceduto da tempo.

Nell'angolo d'onore, presso l'ingresso, erano collocate alcune icone,
davanti alle quali di notte si accendeva una lampada... non tanto per
devozione quanto per illuminare l'ambiente per la notte.

Fëdor Pavloviè si
coricava molto tardi, verso le tre, le quattro del mattino e fino a quell'ora si
aggirava per la stanza oppure sedeva in poltrona a meditare. Era diventata
un'abitudine per lui. Non di rado dormiva completamente solo in casa e
mandava la servitù nella dipendenza, ma di solito anche il servo
Smerdjakov si tratteneva per la notte, dormiva su una panca in anticamera.


FINE PRANZO

Quando entrò Alëša, il pranzo era già terminato, ma erano appena stati
serviti il caffè e la marmellata. Fëdor Pavloviè amava i dolci con il cognac
dopo pranzo.
Anche Ivan Fëdoroviè era seduto a tavola e prendeva il suo
caffè. I servi Grigorij e Smerdjakov erano in piedi presso la tavola. Sia i
signori sia i servitori si trovavano in uno stato di insolita e vivace
animazione.



Fëdor Pavloviè rideva e sghignazzava rumorosamente; sin
dall'andito

Alëša aveva sentito la risata stridula che gli era tanto familiare,
e concluse immediatamente, dal suono di quella risata, che il padre era ben
lungi dall'essere ubriaco, ma che per il momento aveva raggiunto soltanto
lo stadio dell'ilarità.

«Ecco anche lui, ecco anche lui!», si mise a strillare Fëdor Pavloviè
rallegrandosi enormemente per l'arrivo di Alëša. «Unisciti a noi, siediti,
prendi un caffettino - certo, è di magro, ma è così caldo e buono! Non ti
offro il cognac, devi osservare il digiuno, ma ne vuoi, ne vuoi? No, è
meglio che ti dia un liquorino con i fiocchi! Smerdjakov, va' alla dispensa,
sul secondo scaffale a destra, eccoti le chiavi, corri!»
Alëša fece per rifiutare il liquore.

«Lo porteranno lo stesso, non per te, ma per noi», disse raggiante
Fëdor Pavloviè. «Ma aspetta, hai pranzato?»

«Sì, ho pranzato», rispose Alëša che, in verità, aveva mangiato solo
una fetta di pane e bevuto un bicchiere di kvas nella cucina dell'igumeno.

«Ma berrò volentieri un caffè caldo».

«Bravo il mio ragazzo! Berrà un caffettino. Lo facciamo riscaldare?
Ma no, è ancora bollente. È un caffè con i fiocchi, opera di Smerdjakov.
Per il caffè e la kulebjaka il mio Smerdjakov è un vero artista; anche per la
zuppa di pesce, a dire il vero. Un giorno vieni a mangiare la zuppa di
pesce, ma faccelo sapere per tempo... Ma aspetta... aspetta, poco fa non ti
avevo ordinato di trasferirti definitivamente, oggi stesso, qui con il
materasso e i cuscini? E allora, te lo sei trascinato dietro il materasso? Eh,
eh, eh!...»

«No, non l'ho portato», e si mise a ridere anche Alëša.

«Ma ti sei preso un bello spavento poco fa, vero? Ah, tesoruccio mio,
come potrei fare un affronto a te? Sai, Ivan, io non resisto quando vedo che
lui mi guarda in questo modo dritto negli occhi e che ride, non posso.
Cominciano a ridermi le viscere in risposta al suo sorriso, gli voglio un
bene! Alëška, vieni qui che ti do la benedizione paterna!»
Alëša si alzò, ma Fëdor Pavloviè fece in tempo a ripensarci.
«No, no, ti farò solo il segno della croce, ecco, siediti. Be', adesso ti
faremo divertire, e proprio nella tua materia. Ti farai delle belle risate. Qui
da noi ha cominciato a parlare l'asina di Balaam, e come parla, devi
sentire!»

IN TRATTORIA


Ivan però non si trovava in un salottino privato. Stava solo in un angolo vicino alla finestra chiuso da un paravento; comunque quelli seduti al di là del paravento non potevano vederli. Era la prima sala dopo l'entrata, con un buffet lungo la parete. C'era un continuo via vai di camerieri. L'unico avventore era un vecchio militare a riposo che beveva il
suo tè in un angolo. In compenso nelle altre sale della trattoria c'era il tipico trambusto delle trattorie: le urla di richiamo per i camerieri, il rumore delle bottiglie stappate, lo schiocco delle bocce, il frastuono dell'organetto. Alëša sapeva che Ivan non si recava quasi mai in quella trattoria e che, in genere, non amava le trattorie; dunque, pensò lui, si trovava lì solo per incontrare il fratello Dmitrij, secondo gli accordi. Eppure il fratello Dmitrij non c'era. 


«Ti ordino una zuppa di pesce oppure quello che vuoi, non vivrai mica di solo tè», gridò Ivan che sembrava al settimo cielo per aver invitato Alëša. Quanto a lui, aveva già finito di pranzare e stava bevendo il tè.  

«Vada per la zuppa di pesce e vada anche per il tè; ho davvero appetito», disse allegramente Alëša.

 «E la marmellata di amarene? Qui ce l'hanno. Ti ricordi che da piccoli dai Polenov ti piaceva tanto la marmellata di amarene?» 


«Te lo ricordi? Vada anche per la marmellata, mi piace molto anche adesso».  Ivan chiamò il cameriere e ordinò zuppa di pesce, tè e marmellata.

Primo giorno

PRIMO GIORNO


Era una magnifica giornata,
mite e luminosa.
Si era alla fine di agosto.

L'INCONTRO DALLO STAREC
L'incontro con lo starec era fissato per le undici e mezza circa, 
subito dopo l'ultima messa.
I nostri visitatori comunque 
non si degnarono
di partecipare alla messa, 
ma arrivarono direttamente 
quando stavano
spegnendo i lumi. 
Giunsero in due vetture: 
nella prima, 
una lussuosa
carrozza tirata da una pariglia di costosi cavalli, 
arrivò Pëtr Aleksandroviè
Miusov in compagnia di un lontano parente, 
un uomo molto giovane, sui vent'anni, Pëtr Fomiè Kalganov. [...]
In una carrozza presa a nolo, 
malandata, traballante ma spaziosa,
tirata da una coppia di vecchi cavalli bigi a chiazze chiare, 
che seguiva a molta distanza la carrozza di Miusov, arrivarono Fëdor Pavloviè e il suo
figliolo Ivan Fëdoroviè. Dmitrij Fëdoroviè era in ritardo, sebbene gli
avessero comunicato l'ora dell'incontro il giorno prima.
(Lb. II, cap. I)



Dal monastero all'eremo
Lasciarono le carrozze fuori dal recinto, alla foresteria, ed entrarono a piedi
nel portone del monastero. Tranne Fëdor Pavloviè, nessuno della
compagnia aveva mai visitato un monastero; Miusov non entrava in una
chiesa che erano più o meno trent'anni. Egli si guardava intorno con una
certa curiosità, non priva di affettata disinvoltura. Ma per la sua mente
osservatrice, oltre agli edifici religiosi e di servizio, per altro abbastanza
ordinari, all'interno del monastero non c'era niente da vedere.
Gli ultimi fedeli stavano uscendo dalla chiesa, levandosi il berretto e segnandosi. In
mezzo alla gente del popolo si notavano anche fedeli appartenenti ai ceti
più alti della società: due o tre signore, un generale molto anziano;
alloggiavano tutti alla foresteria. I mendicanti attorniarono subito i nostri
visitatori, ma nessuno dette loro niente. Soltanto Petruša Kalganov trasse
dal suo portamonete una moneta da dieci copeche e, nervoso e imbarazzato
Dio solo sa perché, la allungò in tutta fretta a una vecchia, dicendo in
fretta: «Dividetela equamente».[...]
Miusov guardava distrattamente le pietre sepolcrali
intorno alla chiesa e avrebbe voluto commentare che quelle tombette
dovevano essere costate piuttosto care ai parenti dei defunti per il
privilegio di sepoltura in un posto così "sacro", ma se ne stette zitto: la sua
ironia liberale stava per trasformarsi in rabbia.
«A chi diavolo dobbiamo rivolgerci in questa gabbia di matti?...
Dobbiamo pur scoprirlo, qui il tempo passa», disse all'improvviso come
parlando fra sé.
Ad un tratto si avvicinò loro un signore di mezz'età, leggermente
calvo, con un largo soprabito estivo e gli occhietti dolci. Questi si levò il
berretto e con un balbettio mielato si presentò a tutti come Maksimov,
proprietario di Tula. Egli immediatamente si preoccupò di aiutare i nostri
visitatori:
«Lo starec Zosima vive nell'eremo, nell'eremo isolato, a circa
quattrocento passi dal monastero, oltre il boschetto, oltre il boschetto...»
«Lo so che è oltre il boschetto», gli rispose Fëdor Pavloviè, «ma non
ci ricordiamo la strada, è un bel pezzo che non ci veniamo».
«Ecco, entrate da quel portone e poi dritto per il boschetto...per il
boschetto. Venite. Se volete... anch'io... Ecco, da questa parte, da questa
parte...»
Essi uscirono dal portone e si avviarono per il boschetto.

L'EREMO
«Ecco l'eremo, siamo arrivati!», gridò Fëdor Pavloviè. «Ma il recinto
e il portone sono chiusi».
E si mise a fare ampi segni di croce davanti ai santi dipinti sopra e ai
lati del portone.
«Paese che vai, usanze che trovi», commentò. «Nell'eremo ci sono
venticinque santi in tutto a far penitenza, si guardano l'un l'altro e
mangiano cavoli. Le donne non possono oltrepassare questa soglia, ecco
cosa c'è di notevole. Ed è proprio così. Solo, com'è che ho sentito che lo
starec riceve le signore?», e si rivolse all'improvviso al monaco.
«Ci sono donne del popolo anche adesso qui, eccole lì vicino al
portico che aspettano. E per le signore di alto rango sono state costruite
proprio qui sul portico, ma al di fuori del recinto, due camerette, ecco le
finestre, e lo starec, quando si sente bene, si reca a trovarle attraverso un
passaggio interno, quindi oltrepassa sempre il recinto. Ecco, anche adesso,
una proprietaria di Char'kov, la signora Chochlakova, lo sta aspettando con
la figlia malata. Probabilmente ha promesso che sarebbe uscito per
incontrarle, anche se di recente si è così indebolito che si mostra di rado
anche al popolo».
«Così c'è una piccola scappatoia che conduce dall'eremo dritto alle
signore. Non pensiate, padre santo, che voglia dire qualcosa di male, dico
solo per dire. Ma sapete, sul Monte Athos, forse lo avete già sentito, non
solo non sono ammesse le donne, ma non sono ammesse le creature
femminili di nessun genere, galline, tacchine, vitelline...»
«Fëdor Pavloviè, girerò sui miei tacchi e vi lascerò qui solo, e, una
volta che me sarò andato io, vi sbatteranno fuori di qui, ve lo dico in
anticipo».
«Ma che fastidio vi do, Pëtr Aleksandroviè? Guardate!», esclamò ad
un tratto avanzando all'interno del recinto dell'eremo.

«Guardate in che
valle di rose vivono costoro!»
E difatti, anche se non c'erano rose in quel momento, vi fiorivano una
miriade di rari e stupendi fiori autunnali dappertutto, dovunque vi fosse un
po' di spazio per piantarli. Evidentemente li curava una mano esperta.
C'erano aiuole intorno alle chiese e tra le tombe. Anche la casetta di legno,
ad un piano, con un portico davanti all'ingresso, nella quale si trovava la
cella dello starec, era circondata da fiori.



Dall’eremo al monastero
Un boschetto di pini secolari
Aliosha

Attraversava in
fretta il bosco che separava l'eremo dal monastero e, incapace di
sopportare il peso dei propri pensieri tanto questi lo opprimevano,
si mise ad osservare i pini secolari
che fiancheggiavano il sentierino del bosco.
Il tragitto era breve, circa cinquecento passi, non di più; a quell'ora non si
aspettava di incontrare nessuno ….


PER CAMPI E ORTI… VERSO LA CASA DI KATJA


… se fosse passato per la Bol'šaja, per
poi attraversare la piazza, il tragitto sarebbe stato piuttosto lungo.La
nostra piccola cittadina si estende su una superficie molto vasta, quindi le
distanze sono considerevoli…decise di accorciare la
strada, passando per i cortili sul retro, tanto conosceva tutti i passaggi della
cittadina come il palmo della sua mano. Passare per i cortili sul retro
significava fare un percorso praticamente privo di strade, lungo steccati
desolati, scavalcare in alcuni punti siepi di giardini altrui e rasentare
cortili, dove del resto tutti lo conoscevano e lo salutavano.
Per quella
strada poteva raggiungere la Bol'šaja dimezzando il percorso.

In un punto
si trovò persino a passare molto vicino alla casa del padre, proprio accanto
al giardino che confinava con quello paterno e che apparteneva a una
vecchia casupola cadente con quattro finestre.

Ma mentre raggiungeva il
giardino delle vicine, quello strascico gli tornò subito in mente, egli
sollevò rapidamente il capo, che teneva pensosamente chino, e si imbatté
d'un tratto... in una persona che non si sarebbe mai aspettato di incontrare
lì.
Oltre la siepe del giardino delle vicine, c'era suo fratello Dmitrij
Fëdoroviè che, sollevandosi su qualcosa, si sporgeva con il petto, si
sbracciava per attirare la sua attenzione, lo chiamava, gli faceva segno di
avvicinarsi, nel palese timore non solo di gridare, ma persino di parlare a
voce alta. Alëša raggiunse la siepe di corsa. «È un bene che ti sia guardato
attorno da solo, ero già lì lì per gridare», gli sussurrò in fretta Dmitrij
Fëdoroviè tutto contento. «Arrampicati qui! Fa presto! Ah, che bello che
sei venuto. Stavo giusto pensando a te...»
Anche Alëša era contento, solo che non sapeva come arrampicarsi
sulla siepe. Ma Mitja, con la sua mano erculea, lo afferrò per un gomito e
lo aiutò a saltare. Sollevata la tonaca, Alëša balzò con la disinvoltura di


quei monelli che vanno in giro scalzi per la città.

Il giardino aveva la superficie di un ettaro o poco più, ma gli alberi -
meli, aceri, tigli e betulle - erano piantati solo intorno, lungo i quattro lati
delle siepi.

Al centro, c'era un prato vuoto, nel quale in estate si falciavano
alcuni pudy di fieno.

La padrona lo affittava in primavera per pochi rubli.
Tutt'intorno, lungo le siepi di recinzione, c'erano anche cespugli di
lamponi, uva spina, ribes; dei filari di ortaggi erano stati tracciati di recente
accanto alla casa.[...]


 Dmitrij Fëdoroviè condusse l'ospite in uno degli angoli
del giardino più lontani dalla casa.

Lì, in mezzo a un folto di tigli e vecchi
arbusti di ribes, sambuco, viburno e lillà,

spuntarono all'improvviso i
ruderi di un decrepito chioschetto verde, annerito dagli anni e cadente, con
le pareti a graticcio, ma con il tetto integro sotto il quale era ancora
possibile ripararsi dalla pioggia.

Il chiosco era stato costruito Dio solo sa
quando, una cinquantina di anni prima, si diceva, dall'allora proprietario
della casetta, Aleksandr Karloviè von Šmidt, tenente colonnello a riposo.
Ma ormai cadeva a pezzi, il pavimento marciva, le assi traballavano, il
legno puzzava di umidità. Nel chioschetto c'era un tavolo verde di legno
fissato al terreno e tutt'intorno delle panchine pure verdi, sulle quali ci si
poteva ancora sedere. Alëša aveva notato subito lo stato d'animo esaltato
del fratello, ed entrando poi nel chioschetto, scorse sul tavolo una mezza
bottiglia di cognac e un bicchierino.
«Ecco qui del cognac!», disse Mitja scoppiando a ridere. «E tu guardi

e pensi: "È di nuovo ubriaco". Non credere a un fantasma.






LA CONFESSIONI DI MITJA



A CASA KARAMAZOV

VI • Smerdjakov
Trovò per davvero suo padre ancora a tavola. Secondo una vecchia
consuetudine, la tavola era apparecchiata in salone, anche se nella casa

c'era una sala da pranzo vera e propria.


Ed ecco che all'improvviso, in quello stesso istante si udì provenire dall'ingresso un chiasso e un clamore terribili, si udirono grida indiavolate, la porta si spalancò e irruppe nella sala Dmitrij Fëdoroviè.p. 194

IX.I lussuriosi
«Fermatelo!», si mise a strillare Fëdor Pavloviè non appena rivide Dmitrij. «Ha rubato il denaro dalla mia camera da letto!» E, liberatosi dalla stretta di Ivan, si scagliò nuovamente contro Dmitrij. Ma quello alzò entrambe le braccia e di colpo afferrò il vecchio per i due ciuffi di capelli che gli erano rimasti attaccati alle tempie, gli dette uno strattone e lo fece cadere per terra con gran fracasso. Riuscì a sferrargli ancora due o tre colpi di tacco sul viso mentre quello giaceva per terra. Il vecchio lanciò gemiti acuti. Ivan Fëdoroviè, anche se non era forte come il fratello Dmitrij, lo afferrò per le braccia e lo strappò via dal vecchio con tutte le sue forze. Alëša, con quel poco di forza che aveva, gli dette una mano, afferrando il fratello dall'altra parte. P.196

E se ne va.[...]
CONGEDO DAL PADRE
Ascolta, Alëša,
io me ne starò sdraiato a pensare tutta la notte, ma tu va'. Potresti
incontrarla... Solo fa in modo di passare da me domani in mattinata, mi
raccomando. Domani ti dirò una parolina, ci verrai?»
«Verrò».
«Quando verrai, fa finta di essere venuto di tua iniziativa, a chiedere
notizie sulla mia salute. Non dire a nessuno che ti ho invitato io. Non dire
nemmeno una parola a Ivan».
«Va bene».
«Addio, angelo mio, poco fa hai preso le mie difese, non lo
dimenticherò mai. Domani ti dirò una parolina... solo che devo pensarci un
po' su...»
«E come vi sentite adesso?»
«Domani, domani stesso mi alzerò in piedi, completamente guarito,

completamente guarito, completamente guarito!»

CONGEDO DA IVAN
Passando per il cortile, Alëša trovò suo fratello Ivan seduto sulla
panchina vicino al portone: stava scrivendo qualcosa a matita nel suo
quadernetto di appunti. Alëša riferì a Ivan che il vecchio si era svegliato,
era cosciente e gli aveva permesso di tornare a dormire al monastero.
«Alëša, mi farebbe molto piacere incontrarti domani mattina», disse
Ivan affabilmente, alzandosi. Quell'affabilità era del tutto inaspettata per
Alëša.
«Domani andrò dalle Chochlakov», rispose Alëša. «Forse passerò
anche da Katerina Ivanovna, se non la trovo adesso...»
«Così adesso, nonostante tutto, andresti da Katerina Ivanovna! È per

quel "commiato con l'inchino?»,





A CASA DI KATJA






Erano già le sette e il sole stava tramontando, quando Alëša arrivò da
Katerina Ivanovna, che abitava in una casa molto spaziosa e confortevole
nella via Bol'šaja.




















 



SERA DEL PRIMO GIORNO
Incontro sotto il citiso
XI. Un'altra reputazione perduta

Il monastero distava dalla città poco più di una versta. Alëša s'incamminò in fretta per la strada, a quell'ora deserta. Era quasi notte e troppo buio per distinguere gli oggetti a una distanza di soli trenta passi. C'era un incrocio a metà strada. All'incrocio, sotto un citiso solitario, si intravedeva una figura indistinta. Alëša aveva appena raggiunto l'incrocio quando la figura si mosse rapidamente e si precipitò verso di lui, gridando con voce selvaggia:  
«O la borsa o la vita!» 




«Ah, sei tu, Mitja!», gridò Alëša meravigliato, dopo un violento sussulto.p.214

Guarda la notte: hai visto com'è cupa, che nuvole, che ventaccio si è alzato!

«Aspetta, Aleksej, ancora una confessione, ma soltanto a te!»,
Dmitrij Fëdoroviè si girò di scatto e tornò indietro. «Guardami, guardami
bene: vedi, ecco, qui, proprio qui si prepara una terribile infamia».
(Dicendo "ecco qui", Dmitrij Fëdoroviè si colpì il petto con un pugno, con
un'aria terribile, come se l'infamia si trovasse e si conservasse proprio nel
suo petto, in qualche punto, in tasca forse, oppure pendesse cucita al
collo). Tu mi conosci già: sono un mascalzone, un mascalzone confesso!
Ma sappi che per quanto abbia fatto in passato e in questo momento o
faccia in futuro, nulla, nulla potrà uguagliare per viltà l'infamia che proprio
adesso, proprio in questo momento mi porto nel petto, ecco qui, proprio
qui, l'infamia che si compirà sebbene io sia padrone di troncarla, sebbene
io possa scegliere se troncarla o portarla a compimento, nota bene questo!
Ma sappi pure che la porterò a compimento, non la troncherò. Poco fa ti ho
raccontato tutto, ma questo non te l'ho raccontato, neanche io ho avuto la
faccia di bronzo necessaria per farlo! Faccio ancora a tempo a fermarmi:
fermandomi, domani stesso potrei recuperare una buona metà dell'onore
perduto, ma io non mi fermerò, io porterò a compimento l'infame progetto,
che tu possa testimoniare che te l'ho detto in anticipo e nel pieno possesso
delle mie facoltà mentali! La rovina e le tenebre! Non c'è niente da
spiegare, a suo tempo saprai. Un vicoletto fetido e una donna infernale!
Addio, non pregare per me, non lo merito, e non ce n'è nemmeno bisogno,
nemmeno un po'... non mi serve affatto! Via!»

E si allontanò rapidamente, ma questa volta in modo definitivo.

FINALMENTE RIENTRA AL MONASTERO
Passò nella stanzetta da letto dello
starec, si mise in ginocchio e si prostrò sino a terra dinanzi al dormiente.
Quello dormiva placidamente, immobile, con un respiro regolare e quasi
impercettibile. Il suo viso era tranquillo.


Alëša tornò nell'altra stanza, la stessa nella quale in mattinata lo
starec aveva accolto gli ospiti, e senza quasi spogliarsi, togliendosi
soltanto gli stivali, si sdraiò sul duro divanetto di pelle, sul quale era solito
dormire ormai da molto tempo, portandosi solo un cuscino. Quanto al
materasso, che il padre gli aveva ricordato con le sue urla, da molto tempo
ormai non lo stendeva più. Si limitava a togliersi la tonaca e a usarla a mo'
di coperta. Ma, prima di addormentarsi, cadde in ginocchio e pregò a

lungo.[...]

Mentre pregava anche quella sera, sentì casualmente
nella tasca quella bustina rosa che gli aveva datto la cameriera di Katerina
Ivanovna quando lo aveva raggiunto per strada. Ne rimase turbato, ma finì
di pregare. Poi, dopo aver tentennato un poco, aprì la busta. Conteneva una

letterina per lui firmata Lise