martedì 20 luglio 2021

IL MONACELLO del monastero di San Silvestro da Obdorsk

 


UDIENZA STAREC - LIBRO SECONDO

Nell'attesa che lo starec uscisse, la mamma era rimasta seduta accanto alla poltrona della figlia mentre, in piedi, a due passi da lei, c'era un vecchio monaco che non apparteneva al nostro monastero, ma proveniva da un oscuro convento del lontano nord. Anche lui desiderava ricevere la benedizione dello starec. Ma una volta entrato nel portico, lo starec per prima cosa si recò direttamente verso il popolo. 


PADRE FERAPONT - LIBRO QUARTO


Pare che il monacello giunto la sera prima "da San Silvestro", il piccolo monastero di Obdorsk all'estremo nord, fosse rimasto colpito più di tutti dal miracolo che si era compiuto. Il giorno prima aveva avuto modo di salutare lo starec ; stava accanto alla signora Chochlakova e, indicando la figlia "guarita" della signora, gli aveva domandato con gravità: "Come avete l'ardire di fare queste cose?" Il fatto era che quel giorno il monacello era piuttosto confuso e quasi non sapeva a che cosa credere. La sera prima aveva fatto visita, lì al monastero, a padre Ferapont, che viveva in una cella a parte, dietro l'apiario, ed era stato colpito da quell'incontro che aveva prodotto su di lui un'impressione straordinaria e terribile. [---]

Il monacello di Obdorsk, che aveva raggiunto l'apiario dietro le indicazioni del monaco apicoltore, pure quello oltremodo taciturno e cupo, si diresse verso il cantuccio dove si trovava la celletta di padre Ferapont. 

«Può darsi che vi parli perché siete forestiero, ma può darsi pure che non gli caverete una parola», lo aveva avvisato l'apicoltore. 

 Il monacello, come riferì in seguito, avanzò verso la celletta in uno stato di grande apprensione. 

Era piuttosto tardi. Padre Ferapont questa volta era seduto presso l'uscio della cella su di un basso panchetto. Sopra il suo capo frusciava un enorme olmo secolare. Si era levata la frescura della sera. 

Il monacello di Obdorsk si prostrò dinanzi al santo e chiese la sua benedizione. 

 «Vuoi che anche io mi prostri sino a terra davanti a te, monaco?», disse padre Ferapont. «Alzati!» Il monaco si alzò. «Benedicendo, sei benedetto, siediti qui accanto. Donde vieni?» 


 Ciò che colpì più di tutto il povero monacello fu il fatto che padre Ferapont, nonostante i digiuni indubbiamente rigorosi e l'età avanzata, era ancora un vecchio vigoroso, alto, con le spalle ben dritte, nient'affatto curve, un viso fresco e sano, sebbene magro. Indubbiamente conservava ancora una notevole forza. Aveva una corporatura atletica. Malgrado la veneranda età, non era del tutto canuto e aveva capelli e barba, un tempo completamente neri, ancora foltissimi. I suoi occhi erano grigi, grandi, luminosi, ma straordinariamente sporgenti, cosa che faceva persino impressione. Parlava accentuando molto la o. Indossava un lungo caffettano rossastro, di panno grezzo "da carcerato", come si diceva un tempo, stretto in vita da una solida corda. Il collo e il petto erano nudi. La tela grezza della camicia quasi completamente annerita, che non cambiava da mesi, spuntava da sotto il caffettano. Dicevano che sotto il caffettano portasse, direttamente sulla pelle, trenta libbre di catene per macerare le carni. Ai piedi nudi portava vecchi scarponi quasi a pezzi. «Vengo dal piccolo monastero di Obdorsk, da San Silvestro», rispose con tono sottomesso il monacello forestiero, osservando l'eremita con i suoi occhietti mobili e curiosi, benché un po' spaventati. «Sono stato dal tuo Silvestro. Ho vissuto lì. È in salute Silvestro?» Il monaco si confuse. «Dissennati! Come rispettate il digiuno?» «La nostra mensa è così ordinata secondo l'antica regola dell'eremo: in Quaresima, di lunedì, mercoledì e venerdì non si mette tavola. Il martedì e il giovedì alla comunità viene distribuito pane bianco, decotto con miele, bacche di mortella o cavolo in salamoia e farina d'avena mescolata. Di sabato zuppa di cavolo, zuppa di piselli, kaša al sugo, il tutto condito. Di domenica insieme alla zuppa di cavoli si serve pesce secco e kaša. Nella Settimana Santa, dal lunedì fino alla sera del sabato, per sei giorni, pane e acqua e potesi mangiare pure verdura non bollita, ma tutto con moderazione; e ancora, non si può prenderne ogni dì, ma secondo quanto è stato stabilito per la prima settimana. Il Venerdì Santo non si deve mangiare nulla, come anche il Sabato Santo bisogna digiunare sino alle tre e dopo è concesso mangiare un po' di pane e bere acqua e una sola coppa di vino. Il Giovedì Santo mangiamo una pietanza cotta di magro, beviamo vino e a volte mangiamo cibo asciutto. Giacché pure a Laodicea il concilio si è così pronunciato sul Giovedì Santo: "Non è giusto rompere il digiuno il giovedì dell'ultima settimana di Quaresima e così disonorare tutta la Quaresima". Ecco com'è da noi. Ma cos'è tutto questo in confronto a quello che fate voi, santo padre?», soggiunse il monacello che si era rianimato. «Giacché tutto l'anno, persino il giorno della Santa Pasqua vi cibate solo di pane e acqua, e il pane che noi mangiamo in due giorni a voi basta per una settimana. È davvero prodigiosa questa vostra sublime astinenza». «E i funghi lattari?», domandò a bruciapelo padre Ferapont pronunciando la lettera g aspirata come fosse una ch. «I lattari?», domandò a sua volta il monacello stupito. «Proprio quelli. Faccio a meno del loro pane, non ne sento affatto il bisogno, mi basta andare nel bosco e lì mi cibo di lattari e bacche, mentre questi qui non possono fare a meno del loro pane, dunque sono legati al diavolo. Adesso gli impuri dicono che codesto digiuno non serve a nulla. Arrogante e impuro è questo loro giudizio». «Oh, quanto è vero», sospirò il monacello. «E i diavoli lì da loro li hai visti?», domandò padre Ferapont. «Da loro chi?», si informò timidamente il monacello. «L'anno scorso mi recai dal padre igumeno in occasione della Pentecoste; da allora non ci sono più tornato. A uno gli stava seduto in petto, si nascondeva sotto la tonaca, spuntavano solo le corna, a un altro gli sbirciava dalla tasca con tanto d'occhi, aveva paura di me, a un altro si era appollaiato in grembo proprio sul ventre impuro, e a un altro ancora gli pendeva al collo, si aggrappava e quello se lo portava in giro senza vederlo». «E voi...vedete?», domandò il monacello. «Sto dicendo che vedo, vedo dentro di loro da parte a parte. Mentre me ne andavo via dal padre igumeno, ne vidi uno che si nascondeva alla mia vista dietro la porta, era una bestia enorme, alta un metro circa, e anche più, con una codaccia grossa, marrone, lunga, aveva infilato la punta della coda nella fessura della porta, e io, ben accorto, chiusi la porta di colpo e gli schiacciai dentro la coda. Come strillò, cominciò a dimenarsi e io a fargli il segno della croce, per ben tre volte gli feci il segno della croce. Quello perì come un ragno schiacciato. Adesso deve essere ancora lì a marcire in un angolo, a puzzare, ma quelli non vedono, non sentono l'odore. È un anno che non mi reco da loro. Questo l'ho rivelato solo a te giacché tu sei forestiero». «Sono terribili le vostre parole! Padre santo e beato», il monacello si faceva sempre più ardito, « è vero, secondo quanto si dice di voi persino in terre remote, che siete in perpetua comunicazione con il santo spirito, corrisponde al vero questo?» «Esso vola da me. Alle volte accade». «Come, vola da voi? Sotto quale forma?» «Quella di uccello». «Il santo spirito sotto forma di colomba?» «C'è il santo spirito e lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è ben altra cosa, esso può scendere anche sotto forma di altro uccello: una volta di rondine, un'altra di beccaccino, o ancora di cinciallegra». «Come fate a distinguerlo da una cinciallegra vera?» «Esso parla». «Come, parla? In che lingua?» «In linguaggio umano». «E che cosa vi dice?» «Oggi mi ha annunciato che uno stolto mi avrebbe fatto visita e mi avrebbe posto domande oziose. Monaco, vuoi sapere troppo». «Sono parole tremende le vostre, padre beatissimo e santissimo», scosse il capo il monacello. Ma nei suoi occhietti impauriti trapelava anche incredulità. «Codesto albero lo vedi?», domandò padre Ferapont dopo una breve pausa. «Lo vedo, padre beatissimo». «Ai tuoi occhi è un olmo, ai miei rappresenta un'altra forma». «E quale?», domandò il monacello dopo una pausa di trepidante attesa. «Accade di notte. Li vedi quei due rami? Di notte il Cristo protende le Sue mani verso di me e con quelle braccia mi cerca, lo vedo chiaramente e sono colto da tremore. È terribile, oh, terribile!». «Che c'è di terribile, se è Cristo?» «Mi afferra e mi porta in Cielo». «Così, da vivo?» «E nello spirito e nella gloria di Elia; che, non l'hai mai sentito? Egli mi prenderà fra le Sue braccia e mi porterà via...» Sebbene il monacello di Obdorsk, dopo quella conversazione, avesse fatto ritorno nella cella assegnatagli - che avrebbe diviso con un confratello - in uno stato di profonda perplessità, tuttavia il suo cuore propendeva decisamente più per padre Ferapont che per padre Zosima. In primo luogo, il monacello era favorevole al digiuno, e non c'era tanto da meravigliarsi se un digiunatore così eccezionale come padre Ferapont "vedesse mirabili cose". Le sue parole, ovviamente, erano un po' assurde, ma solo Dio sapeva che cosa si racchiudeva in quelle parole, e poi le parole e gli atti di tutti gli stolti in Cristo non erano forse simili a quelli di padre Ferapont? Quanto alla coda schiacciata del demonio, era pronto a crederci, devotamente, non solo in senso figurato, ma anche in senso letterale. A parte questo, anche in precedenza, prima del suo arrivo al monastero, egli nutriva forti pregiudizi sull'istituto dello starèestvo, che conosceva solo per sentito dire, e lo considerava, sulla scia di molti altri, decisamente un'innovazione perniciosa. Dopo aver girato il monastero in lungo e in largo, aveva già avuto modo di notare i mormorii segreti di alcuni fatui fratelli della comunità, contrari allo starèestvo. Tanto più che, per natura, egli era un monaco indiscreto, indagatore, uno che metteva il naso dappertutto. Ecco perché la grande notizia sul nuovo "miracolo" compiuto dallo starec Zosima lo aveva turbato profondamente. Alëša ricordò in seguito che, fra i monaci che si accalcavano presso lo starec e intorno alla sua cella, più volte era balenata davanti ai suoi occhi la figuretta del curioso ospite di Obdorsk, che indagava da un gruppetto all'altro, ascoltando e facendo domande. Ma allora Alëša ci prestò poca attenzione, se ne ricordò soltanto in seguito...


LIBRO SETTIMO


Fra la folla stipata nella cella del defunto, egli notò con repulsione interiore (che si rimproverò immediatamente) la presenza, per esempio, di Rakitin 

e di quel monaco venuto in visita dalla lontana Obdorsk, e che ancora si tratteneva nel monastero, e la presenza di entrambe quelle persone gli sembrò ad un tratto, e chissà per quale ragione, molto sospetta - sebbene, invero, avrebbe potuto provare la stessa cosa per altre persone. 

Il monaco di Obdorsk spiccava come il più esaltato in quella folla eccitata; lo si vedeva dappertutto, da tutte le parti; faceva domande dappertutto, dappertutto origliava, e non faceva altro che sussurrare di qua e di là con aria particolarmente misteriosa. Il suo viso esprimeva la più grande impazienza e persino una certa irritazione che non si avverasse quello che si aspettava.


[...]

"Non si atteneva rigorosamente alla regola del digiuno, si concedeva dolci, prendeva la marmellata di amarene con il tè - gli piaceva moltissimo, gliela mandavano le signore. È ammissibile che un asceta beva il tè?", si sentiva dire da alcuni invidiosi. "Sedeva pieno di superbia", dichiaravano con crudeltà i più maligni, "si considerava un santo, accettava come cosa dovuta che ci si inginocchiasse davanti a lui". "Abusava del sacramento della confessione", aggiungevano in un perfido sussurro i più accesi avversari dello starèestvo, e tra questi c'erano alcuni dei monaci più anziani e severi nella loro devozione, autentici campioni del digiuno e del silenzio, che avevano taciuto quando il defunto era in vita, ma che all'improvviso avevano dissuggellato le loro labbra, il che era formidabile giacché le loro parole esercitavano un potente effetto sui monaci più giovani e dalle convinzioni non ancora salde. 

L'ospite venuto da Obdorsk, il monacello di San Silvestro, ascoltava tutto avidamente, sospirava forte e scuoteva il capo: "No, evidentemente padre Ferapont giudicava correttamente ieri", pensava tra sé e sé, quando ad un tratto fece la sua comparsa padre Ferapont in persona; quest'apparizione sembrava fatta apposta per aumentare la confusione generale. Ho già ricordato in precedenza che egli usciva molto di rado dalla sua celletta nell'apiario, persino in chiesa non si faceva vedere per lunghi periodi, e gli altri glielo concedevano come a un puro folle, senza pretendere che si attenesse alla regola che valeva per tutti. A dire proprio tutta la verità, glielo concedevano anche perché non avrebbero avuto scelta. Giacché sarebbe stato persino vergognoso persistere nel voler imporre anche il peso della regola comune a un campione del digiuno e del silenzio come lui, che pregava giorno e notte (si addormentava persino in ginocchio), se non era egli stesso a volersi di sua volontà sottomettere a quella regola. "Egli è il più santo di tutti noi e segue una regola più rigida della nostra", avrebbero detto i monaci, "e se non viene in chiesa, vuol dire che lo sa lui quando ci deve andare, lui ha regole tutte sue". Anche per evitare la tentazione di questi mormorii, lasciavano in pace padre Ferapont. Come tutti sapevano, padre Ferapont non nutriva grande affetto per lo starec Zosima; ed ecco che ora anche nella sua celletta era sopraggiunta l'improvvisa notizia che "il giudizio di Dio è cosa diversa dal giudizio degli uomini" e che era avvenuto qualcosa che "aveva persino precorso la natura". È presumibile che uno dei primi ad accorrere per recargli la notizia fosse stato proprio l'ospite di Obdorsk, che gli aveva fatto visita il giorno prima e che aveva lasciato la sua cella atterrito. Ho anche menzionato il fatto che padre Paisij, che nel frattempo continuava, irremovibilmente e fermamente, a portare avanti la lettura del Vangelo in piedi accanto alla bara, sebbene non potesse sentire né vedere quello che stava accadendo fuori dalla cella, aveva ben intuito l'essenziale, in cuor suo, giacché conosceva quell'ambiente come il palmo delle proprie mani. Comunque non ne era turbato, ma attendeva l'evolversi degli eventi senza timore, seguendo con sguardo indagatore l'esito di quell'agitazione, che già si profilava all'occhio della sua mente. Tutt'a un tratto un frastuono straordinario, proveniente dall'andito - e che ormai decisamente contravveniva alle norme della decenza - colpì il suo orecchio. La porta si spalancò e padre Ferapont comparve sulla soglia. 

Dietro di lui, come si intuiva, anzi, si vedeva chiaramente dall'interno della cella, si affollavano molti monaci che lo scortavano, presso il terrazzino d'ingresso; c'erano anche dei fedeli. Gli accompagnatori, tuttavia, non salirono nemmeno sul terrazzino d'ingresso, ma rimasero in attesa di quello che avrebbe detto e fatto padre Ferapont, giacché avevano il presentimento, e persino un certo timore, a dispetto della loro audacia, che egli non si fosse recato là senza motivo. Rimanendo sulla soglia, padre Ferapont sollevò le braccia;

da sotto il suo braccio destro sbirciavano gli occhietti aguzzi e indagatori dell'ospite di Obdorsk, l'unico che, mosso da incontenibile curiosità, non aveva esitato a salire di corsa su per la scaletta d'ingresso al seguito di padre Ferapont. 

Tutti gli altri invece, non appena si era spalancata la porta, si erano tirati indietro, colti da improvviso timore: 

 «Cacciando i demoni, li ricaccerò!», e girandosi in tutte le direzioni, egli fece il segno della croce su tutte e quattro le pareti e tutti e quattro gli angoli della cella in successione. Tutti quelli che avevano scortato padre Ferapont compresero all'istante che cosa stesse facendo. Sapevano infatti che compiva quel gesto dovunque egli andasse, e che non si sarebbe accomodato né avrebbe detto una parola prima di aver ricacciato gli spiriti maligni. «Satana va' via, Satana va' via!», ripeteva ad ogni segno di croce. «Cacciando i demoni, li ricaccerò!», gridò un'altra volta. Indossava la sua rozza tunica stretta in vita da una corda. Attraverso la camiciola di canapa si intravedeva il petto nudo coperto dalla peluria canuta. I piedi erano completamente scalzi. Quando cominciò ad agitare le braccia, le impietose catene che portava sotto la tunica all'improvviso si scossero e sferragliarono. Padre Paisij interruppe la lettura, si fece avanti e rimase in attesa dinanzi a lui. «Perché sei venuto, venerabile padre? Perché infrangi il decoro? Perché turbi la pace del gregge?», disse infine guardandolo severamente.