UDIENZA STAREC - LIBRO SECONDO
Nell'attesa che lo starec uscisse, la mamma era rimasta seduta
accanto alla poltrona della figlia mentre, in piedi, a due passi da lei, c'era
un vecchio monaco che non apparteneva al nostro monastero, ma
proveniva da un oscuro convento del lontano nord. Anche lui desiderava
ricevere la benedizione dello starec. Ma una volta entrato nel portico, lo
starec per prima cosa si recò direttamente verso il popolo.
PADRE FERAPONT - LIBRO QUARTO
Pare che il monacello giunto la sera prima "da San Silvestro", il
piccolo monastero di Obdorsk all'estremo nord, fosse rimasto colpito più
di tutti dal miracolo che si era compiuto. Il giorno prima aveva avuto modo
di salutare lo starec ; stava accanto alla signora Chochlakova e, indicando
la figlia "guarita" della signora, gli aveva domandato con gravità: "Come
avete l'ardire di fare queste cose?"
Il fatto era che quel giorno il monacello era piuttosto confuso e quasi
non sapeva a che cosa credere. La sera prima aveva fatto visita, lì al
monastero, a padre Ferapont, che viveva in una cella a parte, dietro
l'apiario, ed era stato colpito da quell'incontro che aveva prodotto su di lui
un'impressione straordinaria e terribile. [---]
Il monacello di Obdorsk, che aveva raggiunto
l'apiario dietro le indicazioni del monaco apicoltore, pure quello oltremodo
taciturno e cupo, si diresse verso il cantuccio dove si trovava la celletta di
padre Ferapont.
«Può darsi che vi parli perché siete forestiero, ma può
darsi pure che non gli caverete una parola», lo aveva avvisato l'apicoltore.
Il monacello, come riferì in seguito, avanzò verso la celletta in uno stato di
grande apprensione.
Era piuttosto tardi. Padre Ferapont questa volta era
seduto presso l'uscio della cella su di un basso panchetto. Sopra il suo capo
frusciava un enorme olmo secolare. Si era levata la frescura della sera.
Il
monacello di Obdorsk si prostrò dinanzi al santo e chiese la sua
benedizione.
«Vuoi che anche io mi prostri sino a terra davanti a te, monaco?»,
disse padre Ferapont. «Alzati!»
Il monaco si alzò.
«Benedicendo, sei benedetto, siediti qui accanto. Donde vieni?»
Ciò che colpì più di tutto il povero monacello fu il fatto che padre
Ferapont, nonostante i digiuni indubbiamente rigorosi e l'età avanzata, era
ancora un vecchio vigoroso, alto, con le spalle ben dritte, nient'affatto
curve, un viso fresco e sano, sebbene magro. Indubbiamente conservava
ancora una notevole forza. Aveva una corporatura atletica. Malgrado la veneranda età, non era del tutto canuto e aveva capelli e barba, un tempo
completamente neri, ancora foltissimi. I suoi occhi erano grigi, grandi,
luminosi, ma straordinariamente sporgenti, cosa che faceva persino
impressione. Parlava accentuando molto la o. Indossava un lungo
caffettano rossastro, di panno grezzo "da carcerato", come si diceva un
tempo, stretto in vita da una solida corda. Il collo e il petto erano nudi. La
tela grezza della camicia quasi completamente annerita, che non cambiava
da mesi, spuntava da sotto il caffettano. Dicevano che sotto il caffettano
portasse, direttamente sulla pelle, trenta libbre di catene per macerare le
carni. Ai piedi nudi portava vecchi scarponi quasi a pezzi.
«Vengo dal piccolo monastero di Obdorsk, da San Silvestro», rispose
con tono sottomesso il monacello forestiero, osservando l'eremita con i
suoi occhietti mobili e curiosi, benché un po' spaventati.
«Sono stato dal tuo Silvestro. Ho vissuto lì. È in salute Silvestro?»
Il monaco si confuse.
«Dissennati! Come rispettate il digiuno?»
«La nostra mensa è così ordinata secondo l'antica regola dell'eremo:
in Quaresima, di lunedì, mercoledì e venerdì non si mette tavola. Il martedì
e il giovedì alla comunità viene distribuito pane bianco, decotto con miele,
bacche di mortella o cavolo in salamoia e farina d'avena mescolata. Di
sabato zuppa di cavolo, zuppa di piselli, kaša al sugo, il tutto condito. Di
domenica insieme alla zuppa di cavoli si serve pesce secco e kaša. Nella
Settimana Santa, dal lunedì fino alla sera del sabato, per sei giorni, pane e
acqua e potesi mangiare pure verdura non bollita, ma tutto con
moderazione; e ancora, non si può prenderne ogni dì, ma secondo quanto è
stato stabilito per la prima settimana. Il Venerdì Santo non si deve
mangiare nulla, come anche il Sabato Santo bisogna digiunare sino alle tre
e dopo è concesso mangiare un po' di pane e bere acqua e una sola coppa
di vino. Il Giovedì Santo mangiamo una pietanza cotta di magro, beviamo
vino e a volte mangiamo cibo asciutto. Giacché pure a Laodicea il concilio
si è così pronunciato sul Giovedì Santo: "Non è giusto rompere il digiuno
il giovedì dell'ultima settimana di Quaresima e così disonorare tutta la
Quaresima". Ecco com'è da noi. Ma cos'è tutto questo in confronto a
quello che fate voi, santo padre?», soggiunse il monacello che si era
rianimato. «Giacché tutto l'anno, persino il giorno della Santa Pasqua vi
cibate solo di pane e acqua, e il pane che noi mangiamo in due giorni a voi
basta per una settimana. È davvero prodigiosa questa vostra sublime
astinenza». «E i funghi lattari?», domandò a bruciapelo padre Ferapont
pronunciando la lettera g aspirata come fosse una ch.
«I lattari?», domandò a sua volta il monacello stupito.
«Proprio quelli. Faccio a meno del loro pane, non ne sento affatto il
bisogno, mi basta andare nel bosco e lì mi cibo di lattari e bacche, mentre
questi qui non possono fare a meno del loro pane, dunque sono legati al
diavolo. Adesso gli impuri dicono che codesto digiuno non serve a nulla.
Arrogante e impuro è questo loro giudizio».
«Oh, quanto è vero», sospirò il monacello.
«E i diavoli lì da loro li hai visti?», domandò padre Ferapont.
«Da loro chi?», si informò timidamente il monacello.
«L'anno scorso mi recai dal padre igumeno in occasione della
Pentecoste; da allora non ci sono più tornato. A uno gli stava seduto in
petto, si nascondeva sotto la tonaca, spuntavano solo le corna, a un altro gli
sbirciava dalla tasca con tanto d'occhi, aveva paura di me, a un altro si era
appollaiato in grembo proprio sul ventre impuro, e a un altro ancora gli
pendeva al collo, si aggrappava e quello se lo portava in giro senza
vederlo».
«E voi...vedete?», domandò il monacello.
«Sto dicendo che vedo, vedo dentro di loro da parte a parte. Mentre
me ne andavo via dal padre igumeno, ne vidi uno che si nascondeva alla
mia vista dietro la porta, era una bestia enorme, alta un metro circa, e
anche più, con una codaccia grossa, marrone, lunga, aveva infilato la punta
della coda nella fessura della porta, e io, ben accorto, chiusi la porta di
colpo e gli schiacciai dentro la coda. Come strillò, cominciò a dimenarsi e
io a fargli il segno della croce, per ben tre volte gli feci il segno della
croce. Quello perì come un ragno schiacciato. Adesso deve essere ancora lì
a marcire in un angolo, a puzzare, ma quelli non vedono, non sentono
l'odore. È un anno che non mi reco da loro. Questo l'ho rivelato solo a te
giacché tu sei forestiero».
«Sono terribili le vostre parole! Padre santo e beato», il monacello si
faceva sempre più ardito, « è vero, secondo quanto si dice di voi persino in
terre remote, che siete in perpetua comunicazione con il santo spirito,
corrisponde al vero questo?»
«Esso vola da me. Alle volte accade».
«Come, vola da voi? Sotto quale forma?»
«Quella di uccello».
«Il santo spirito sotto forma di colomba?» «C'è il santo spirito e lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è ben altra
cosa, esso può scendere anche sotto forma di altro uccello: una volta di
rondine, un'altra di beccaccino, o ancora di cinciallegra».
«Come fate a distinguerlo da una cinciallegra vera?»
«Esso parla».
«Come, parla? In che lingua?»
«In linguaggio umano».
«E che cosa vi dice?»
«Oggi mi ha annunciato che uno stolto mi avrebbe fatto visita e mi
avrebbe posto domande oziose. Monaco, vuoi sapere troppo».
«Sono parole tremende le vostre, padre beatissimo e santissimo»,
scosse il capo il monacello. Ma nei suoi occhietti impauriti trapelava anche
incredulità.
«Codesto albero lo vedi?», domandò padre Ferapont dopo una breve
pausa.
«Lo vedo, padre beatissimo».
«Ai tuoi occhi è un olmo, ai miei rappresenta un'altra forma».
«E quale?», domandò il monacello dopo una pausa di trepidante
attesa.
«Accade di notte. Li vedi quei due rami? Di notte il Cristo protende
le Sue mani verso di me e con quelle braccia mi cerca, lo vedo
chiaramente e sono colto da tremore. È terribile, oh, terribile!».
«Che c'è di terribile, se è Cristo?»
«Mi afferra e mi porta in Cielo».
«Così, da vivo?»
«E nello spirito e nella gloria di Elia; che, non l'hai mai sentito? Egli
mi prenderà fra le Sue braccia e mi porterà via...»
Sebbene il monacello di Obdorsk, dopo quella conversazione, avesse
fatto ritorno nella cella assegnatagli - che avrebbe diviso con un
confratello - in uno stato di profonda perplessità, tuttavia il suo cuore
propendeva decisamente più per padre Ferapont che per padre Zosima. In
primo luogo, il monacello era favorevole al digiuno, e non c'era tanto da
meravigliarsi se un digiunatore così eccezionale come padre Ferapont
"vedesse mirabili cose". Le sue parole, ovviamente, erano un po' assurde,
ma solo Dio sapeva che cosa si racchiudeva in quelle parole, e poi le
parole e gli atti di tutti gli stolti in Cristo non erano forse simili a quelli di
padre Ferapont? Quanto alla coda schiacciata del demonio, era pronto a
crederci, devotamente, non solo in senso figurato, ma anche in senso letterale. A parte questo, anche in precedenza, prima del suo arrivo al
monastero, egli nutriva forti pregiudizi sull'istituto dello starèestvo, che
conosceva solo per sentito dire, e lo considerava, sulla scia di molti altri,
decisamente un'innovazione perniciosa. Dopo aver girato il monastero in
lungo e in largo, aveva già avuto modo di notare i mormorii segreti di
alcuni fatui fratelli della comunità, contrari allo starèestvo. Tanto più che,
per natura, egli era un monaco indiscreto, indagatore, uno che metteva il
naso dappertutto. Ecco perché la grande notizia sul nuovo "miracolo"
compiuto dallo starec Zosima lo aveva turbato profondamente. Alëša
ricordò in seguito che, fra i monaci che si accalcavano presso lo starec e
intorno alla sua cella, più volte era balenata davanti ai suoi occhi
la
figuretta del curioso ospite di Obdorsk, che indagava da un gruppetto
all'altro, ascoltando e facendo domande. Ma allora Alëša ci prestò poca
attenzione, se ne ricordò soltanto in seguito...
LIBRO SETTIMO

Fra la folla stipata nella cella del defunto, egli notò con
repulsione interiore (che si rimproverò immediatamente) la presenza, per
esempio, di Rakitin
e di quel monaco venuto in visita dalla lontana
Obdorsk, e che ancora si tratteneva nel monastero, e la presenza di
entrambe quelle persone gli sembrò ad un tratto, e chissà per quale
ragione, molto sospetta - sebbene, invero, avrebbe potuto provare la stessa
cosa per altre persone.
Il monaco di Obdorsk spiccava come il più esaltato
in quella folla eccitata; lo si vedeva dappertutto, da tutte le parti; faceva
domande dappertutto, dappertutto origliava, e non faceva altro che
sussurrare di qua e di là con aria particolarmente misteriosa. Il suo viso
esprimeva la più grande impazienza e persino una certa irritazione che non
si avverasse quello che si aspettava.
[...]
"Non si atteneva rigorosamente alla regola del
digiuno, si concedeva dolci, prendeva la marmellata di amarene con il tè -
gli piaceva moltissimo, gliela mandavano le signore. È ammissibile che un
asceta beva il tè?", si sentiva dire da alcuni invidiosi. "Sedeva pieno di
superbia", dichiaravano con crudeltà i più maligni, "si considerava un
santo, accettava come cosa dovuta che ci si inginocchiasse davanti a lui".
"Abusava del sacramento della confessione", aggiungevano in un perfido
sussurro i più accesi avversari dello starèestvo, e tra questi c'erano alcuni
dei monaci più anziani e severi nella loro devozione, autentici campioni
del digiuno e del silenzio, che avevano taciuto quando il defunto era in
vita, ma che all'improvviso avevano dissuggellato le loro labbra, il che era
formidabile giacché le loro parole esercitavano un potente effetto sui
monaci più giovani e dalle convinzioni non ancora salde.
L'ospite venuto
da Obdorsk, il monacello di San Silvestro, ascoltava tutto avidamente,
sospirava forte e scuoteva il capo: "No, evidentemente padre Ferapont
giudicava correttamente ieri", pensava tra sé e sé, quando ad un tratto fece
la sua comparsa padre Ferapont in persona; quest'apparizione sembrava
fatta apposta per aumentare la confusione generale.
Ho già ricordato in precedenza che egli usciva molto di rado dalla
sua celletta nell'apiario, persino in chiesa non si faceva vedere per lunghi
periodi, e gli altri glielo concedevano come a un puro folle, senza
pretendere che si attenesse alla regola che valeva per tutti. A dire proprio
tutta la verità, glielo concedevano anche perché non avrebbero avuto
scelta. Giacché sarebbe stato persino vergognoso persistere nel voler
imporre anche il peso della regola comune a un campione del digiuno e del
silenzio come lui, che pregava giorno e notte (si addormentava persino in
ginocchio), se non era egli stesso a volersi di sua volontà sottomettere a
quella regola. "Egli è il più santo di tutti noi e segue una regola più rigida
della nostra", avrebbero detto i monaci, "e se non viene in chiesa, vuol dire
che lo sa lui quando ci deve andare, lui ha regole tutte sue". Anche per
evitare la tentazione di questi mormorii, lasciavano in pace padre Ferapont.
Come tutti sapevano, padre Ferapont non nutriva grande affetto per lo
starec Zosima; ed ecco che ora anche nella sua celletta era sopraggiunta
l'improvvisa notizia che "il giudizio di Dio è cosa diversa dal giudizio
degli uomini" e che era avvenuto qualcosa che "aveva persino precorso la
natura". È presumibile che uno dei primi ad accorrere per recargli la
notizia fosse stato proprio l'ospite di Obdorsk, che gli aveva fatto visita il giorno prima e che aveva lasciato la sua cella atterrito. Ho anche
menzionato il fatto che padre Paisij, che nel frattempo continuava,
irremovibilmente e fermamente, a portare avanti la lettura del Vangelo in
piedi accanto alla bara, sebbene non potesse sentire né vedere quello che
stava accadendo fuori dalla cella, aveva ben intuito l'essenziale, in cuor
suo, giacché conosceva quell'ambiente come il palmo delle proprie mani.
Comunque non ne era turbato, ma attendeva l'evolversi degli eventi senza
timore, seguendo con sguardo indagatore l'esito di quell'agitazione, che già
si profilava all'occhio della sua mente. Tutt'a un tratto un frastuono
straordinario, proveniente dall'andito - e che ormai decisamente
contravveniva alle norme della decenza - colpì il suo orecchio. La porta si
spalancò e padre Ferapont comparve sulla soglia.
Dietro di lui, come si
intuiva, anzi, si vedeva chiaramente dall'interno della cella, si affollavano
molti monaci che lo scortavano, presso il terrazzino d'ingresso; c'erano
anche dei fedeli. Gli accompagnatori, tuttavia, non salirono nemmeno sul
terrazzino d'ingresso, ma rimasero in attesa di quello che avrebbe detto e
fatto padre Ferapont, giacché avevano il presentimento, e persino un certo
timore, a dispetto della loro audacia, che egli non si fosse recato là senza
motivo. Rimanendo sulla soglia, padre Ferapont sollevò le braccia;
da
sotto il suo braccio destro sbirciavano gli occhietti aguzzi e indagatori
dell'ospite di Obdorsk, l'unico che, mosso da incontenibile curiosità, non
aveva esitato a salire di corsa su per la scaletta d'ingresso al seguito di
padre Ferapont.
Tutti gli altri invece, non appena si era spalancata la porta,
si erano tirati indietro, colti da improvviso timore:
«Cacciando i demoni, li ricaccerò!», e girandosi in tutte le direzioni,
egli fece il segno della croce su tutte e quattro le pareti e tutti e quattro gli
angoli della cella in successione. Tutti quelli che avevano scortato padre
Ferapont compresero all'istante che cosa stesse facendo. Sapevano infatti
che compiva quel gesto dovunque egli andasse, e che non si sarebbe
accomodato né avrebbe detto una parola prima di aver ricacciato gli spiriti
maligni.
«Satana va' via, Satana va' via!», ripeteva ad ogni segno di croce.
«Cacciando i demoni, li ricaccerò!», gridò un'altra volta. Indossava la sua
rozza tunica stretta in vita da una corda. Attraverso la camiciola di canapa
si intravedeva il petto nudo coperto dalla peluria canuta. I piedi erano
completamente scalzi. Quando cominciò ad agitare le braccia, le impietose
catene che portava sotto la tunica all'improvviso si scossero e sferragliarono. Padre Paisij interruppe la lettura, si fece avanti e rimase in
attesa dinanzi a lui.
«Perché sei venuto, venerabile padre? Perché infrangi il decoro?
Perché turbi la pace del gregge?», disse infine guardandolo severamente.