mercoledì 21 luglio 2021

Ljagavyj - Gorstkin





 

LIBRO QUINTO -  capitolo VII

FEDOR TENTA DI MANDARE IVAN A Èermašnja.


 Dopo aver affabilmente salutato il padre ed essersi premurosamente informato sulla sua salute - senza aspettare tuttavia che il padre finisse di rispondere - egli gli annunciò che sarebbe partito per Mosca di lì a un'ora, per sempre, e gli chiese di mandare a prendere i cavalli al più presto. Il vecchio ascoltò la notizia senza manifestare la minima meraviglia, e dimenticò, in modo a dir poco sconveniente, di rammaricarsi per la partenza del caro figliolo. Invece si mise subito in agitazione, come ricordando, a proposito, un suo affare personale della massima importanza. 

 «Che tipo che sei! Potevi dirmelo ieri... ma non fa niente, sistemeremo ogni cosa lo stesso. Fammi un grande favore, ragazzo mio, passa da Èermašnja. Devi soltanto svoltare a sinistra alla stazione di Volov'ja, in tutto una dozzina di verste e sei arrivato a Èermašnja». 

 «Spiacente, ma non posso: è a ottanta verste dalla ferrovia e il treno per Mosca parte dalla stazione alle sette di sera, faccio appena in tempo a prenderlo». 

 «Lo prenderai domani o dopodomani, ma oggi svolta a Èermašnja. Che ti costa far contento tuo padre? Se non avessi degli affari che mi trattengono, ci sarei andato io stesso da un pezzo, perché lì ho un affare urgente e della massima importanza, ma adesso non ne ho il tempo...

Vedi, ho un boschetto da quelle parti, diviso in due appezzamenti, uno a Begièevo e l'altro a Djaèkino, fra terreni incolti. 

I Maslov, il vecchio mercante e suo figlio, vogliono darmi soltanto ottomila rubli per il taglio del bosco, mentre solo l'anno scorso mi è sfuggito un acquirente che me ne avrebbe dati dodicimila, ma lui non è di queste parti, ecco il problema. Tra la gente di qui non ce n'è molta che voglia comprarlo: i Maslov, padre e figlio, fanno il bello e il cattivo tempo, quelli posseggono centomila rubli, devi prenderti quello che dicono loro, e fra la gente locale nessuno ha il coraggio di mettersi contro di loro. 

Il curato di Il'inskoe mi ha scritto inaspettatamente giovedì scorso, che è arrivato Gorstkin, un mercantuccio pure lui, lo conosco io; quello che ha di buono però è di non essere di queste parti, ma di Pogrebovo, quindi non teme i Maslov, perché non è di queste parti. 

Dice che mi darà undicimila rubli per il boschetto, capisci? E il prete mi scrive che resterà solo un'altra settimana. Quindi se tu ci andassi e ti mettessi d'accordo con lui...» 

 «Scrivete al curato che si metta d'accordo lui». 

 «Non lo saprebbe fare, questo è il problema. Non ha fiuto per gli affari. È un vero tesoro, gli darei ventimila rubli da amministrare da parte mia senza chiedere alcuna ricevuta, ma non ha fiuto per gli affari, è come un bambino, lo prenderebbe in giro anche un corvo. Eppure è un uomo istruito, ci crederesti? 

Questo Gorstkin ha l'aspetto di un contadino, porta una poddëvka azzurra, ma di carattere è un mascalzone, di questo si lamentano tutti: mente spudoratamente, ecco qual è il guaio. A volte inventa di quelle bugie che la gente si domanda perché lo faccia. Due anni fa mi disse che la moglie era morta e lui si era risposato, e non era vero affatto, immagina un po': la moglie non era morta, è viva e vegeta e adesso lo picchia un paio di volte alla settimana. Quindi, quello che devi scoprire è se sta mentendo o dicendo la verità quando sostiene di voler comprare e di essere disposto a pagare undicimila rubli». 

 «Ma anche io non posso farci nulla, neppure io ho fiuto per gli affari». «No, aspetta! Tu sarai utilissimo perché io ti dirò tutti i segnali per capire quel Gorstkin, è un pezzo che faccio affari con lui. 

Vedi, devi guardargli la barba, ha una brutta barbetta rossiccia e rada. Se la barbetta sobbalza, mentre lui parla e si altera, va bene, vuol dire che sta dicendo la verità e vuole concludere l'affare; se si liscia la barba con la mano sinistra e ridacchia, significa che sta tentando di metterti nel sacco, sta imbrogliando. Non guardarlo mai negli occhi, dagli occhi non ti ci raccapezzi, è un tipo losco, un imbroglione, guardagli la barba, invece. Ti darò un biglietto e tu glielo mostrerai. Si chiama Gorstkin, ma lo chiamano Ljagavyj, ma tu non lo chiamare Ljagavyj, altrimenti si offende. Se giungi a un accordo con lui e vedi che è tutto a posto, scrivimi subito. Scrivimi soltanto: "Non sta mentendo". 

Insisti per undicimila, puoi scendere di un migliaio, ma non di più. 

Pensa un po': otto contro undicimila, tremila di differenza. È come se li avessi trovati quei tremila rubli, e dove lo trovi su due piedi un acquirente? E invece io ho disperatamente bisogno di soldi. Fammi solo sapere se fa sul serio, per il resto farò un salto io da qui e concluderò, lo troverò il tempo in qualche modo. Ma a che serve che mi precipiti adesso se si tratta solo di un'invenzione del curato? Allora, ci vai o no?» 

 «Non ho tempo, lasciatemi in pace». «Oh, fa un favore a tuo padre, me ne ricorderò! Siete tutti senza cuore voi, ecco che vi dico! Che cosa conta un giorno o due? Dove hai intenzione di andare? A Venezia? Non crollerà mica la tua Venezia per un paio di giorni. Avrei mandato Alëška, ma che può combinare Alëška in affari del genere? Mando te perché sei un uomo intelligente, credi che non me ne renda conto? Non sei pratico di legname, ma hai fiuto, e in questo caso devi soltanto appurare se quell'uomo sta parlando seriamente oppure no. Te lo ripeto: guardagli la barba: se sobbalza, vuol dire che fa sul serio». 

 «Siete voi stesso a spingermi ad andare in quella maledetta Èermašnja, eh?», proruppe Ivan Fëdoroviè con un sorriso maligno. 

 Fëdor Pavloviè non colse la malignità, o forse non volle coglierla, ma sfruttò il sorrisetto: «Vuol dire che ci vai, ci vai? Adesso butto giù due righe». 

 «Non so se ci andrò, deciderò durante il tragitto». 

 «Che stupidaggine, decidi adesso. Su, caro, decidi! Se giungi a un accordo, mi scrivi due righe, le dai al curato e lui mi farà recapitare subito il tuo bigliettino. E poi non ti tratterrò più, va' pure a Venezia. Il curato ti darà i suoi cavalli per raggiungere la stazione di Volov'ja...» 

 Il vecchio era semplicemente in un brodo di giuggiole, scrisse il biglietto, mandò a prendere i cavalli, servirono uno spuntino e del cognac. 

 Quando il vecchio era contento, diventava sempre espansivo, ma quella volta sembrava che si contenesse. Sul conto di Dmitrij Fëdoroviè, per esempio, non disse una parola. Non era affatto commosso per la partenza, anzi sembrava che non avesse niente da dire e Ivan Fëdoroviè se ne accorse molto bene: "Devo essergli venuto a noia, però", pensò fra sé e sé. Solo mentre accompagnava il figlio giù per la scaletta d'ingresso della casa, il padre cominciò ad agitarsi un po', sembrava che volesse baciarlo. Ma Ivan Fëdoroviè si affrettò a tendergli la mano con la palese intenzione di evitare i baci. Il vecchio lo capì subito e si fermò all'istante. «Be', va' con Dio, va' con Dio!», gli ripeteva dal terrazzino. «Tornerai ancora, una volta o l'altra nella vita? Cerca di venire, ne sarò sempre felice. Be', che Cristo ti accompagni!» Ivan Fëdoroviè salì in carrozza. «Addio, Ivan, non mi biasimare troppo!», gli gridò il padre per ultimo.


LIBRO OTTAVO

«Rispettabilissimo Kuz'ma Kuz'miè, probabilmente avrete sentito parlare più di una volta delle mie dispute con mio padre, Fëdor Pavloviè Karamazov, che mi ha derubato dell'eredità lasciatami da mia madre... giacché la città intera spettegola su questo... perché qui tutti spettegolano su ciò che non dovrebbero... Inoltre, potreste averne avuto notizia da Grušen'ka... chiedo scusa: da Agrafena Aleksandrovna... da Agrafena Aleksandrovna che io stimo e rispetto in sommo grado...», 

così esordì Mitja, interrompendosi sin dalla prima parola. Ma non staremo a riportare il suo discorso per filo e per segno, ne faremo soltanto un riassunto. 

Egli raccontò che tre mesi prima egli si era consultato con esplicita intenzione (disse proprio "con esplicita intenzione" e non intenzionalmente) con un avvocato della capitale del distretto, "un avvocato di chiara fama, Kuz'ma Kuz'miè, Pavel Pavloviè Korneplodov, vossignoria l'avrà sentito nominare. Un uomo di vaste conoscenze, un cervello da statista... egli vi conosce... parla di voi con la massima considerazione..." si interruppe un'altra volta Mitja. Ma le interruzioni non gli impedivano di andare avanti, le scavalcava e proseguiva. 

Raccontò che proprio questo Korneplodov, dopo averlo interrogato nei dettagli e aver esaminato i documenti che Mitja era stato in grado di presentargli (sui documenti Mitja fu piuttosto vago e particolarmente precipitoso), aveva concluso che, riguardo alla tenuta di Èermašnja - che avrebbe dovuto appartenere a lui, a Mitja, come parte dell'eredità della madre - si poteva intentare un'azione legale e così prendere alla sprovvista il vecchio spudorato..."giacché non tutte le porte erano chiuse e la giustizia avrebbe individuato la fessura dalla quale penetrare". 

Insomma, avrebbe potuto sperare su una somma aggiuntiva di ben seimila rubli da parte di Fëdor Pavloviè, di settemila persino, dal momento che Èermašnja valeva non meno di venticinquemila, e forse anche ventottomila, «trentamila, trentamila, Kuz'ma Kuz'miè, e io, immaginate, non ho avuto nemmeno diciassettemila rubli da quell'uomo spietato! 

Ma io, Mitja», diceva, «ho lasciato stare la faccenda giacché ho poca dimestichezza con la giustizia: però, una volta giunto in città, sono rimasto di stucco a causa di una controquerela sporta contro di me» (a questo punto Mitja si confuse ancora una volta e fece nuovamente un grosso balzo in avanti nel suo discorso): 

«Quindi, non vorreste voi, rispettabilissimo Kuz'ma Kuz'miè, assumervi tutti i miei diritti contro quel mostro, versando a me la somma di soli tremila rubli..

In nessun caso potreste venire a perderci, lo giuro sul mio onore, sul mio onore, anzi potreste guadagnarne sei o settemila rubli invece di tre... Quel che conta è concludere oggi stesso. Concluderei l'affare da un notaio o come vorrete... Insomma, sono disposto a tutto, vi darò tutti i documenti che vorrete, firmerò tutto... potremmo stendere il documento ora, e se fosse possibile, se solo fosse possibile, questa mattina stessa. Voi mi dareste quei tremila rubli... dal momento che non esiste in questa cittaduzza un capitalista che possa stare alla pari con voi... e così mi salvereste da... insomma, salvereste la mia povera testa per una nobilissima causa, per una causa elevata, potrei dire... giacché nutro i più nobili sentimenti per una certa persona che conoscete benissimo e per la quale siete come un padre. Altrimenti non sarei venuto, se voi non foste stato come un padre per lei. 

E infatti, questo è uno scontro a tre, giacché il destino è una cosa terribile, Kuz'ma Kuz'miè! La vita reale, Kuz'ma Kuz'miè, la vita reale! E dal momento che voi siete fuori combattimento da un pezzo, allora è uno scontro a due: mi esprimo goffamente, forse, ma non sono uomo di lettere io. 

Cioè, uno sono io e l'altro è Fëdor Pavloviè, quel mostro. Quindi sta a voi scegliere: me oppure il mostro? È tutto nelle vostre mani adesso: tre destini e la felicità di due persone... Scusate, ho perduto il filo, ma voi capirete... vedo dai vostri rispettabili occhi che avete capito... E se non avete capito, oggi stesso sarò perduto, ecco!» 

 Mitja interruppe il suo sgraziato discorso con quell'"ecco" e scattò in piedi, in attesa di una risposta alla sua stupida offerta. Mentre pronunciava l'ultima frase, egli aveva sentito, con disperazione, di aver fatto un buco nell'acqua e, soprattutto, di aver detto delle terribili sciocchezze. 

"Strano, mentre venivo qui mi sembrava che il discorso filasse alla perfezione, e invece si è ridotto a un cumulo di sciocchezze". Fu questo il pensiero che si affacciò alla sua mente disperata. Per tutto il tempo che Mitja aveva parlato, il vecchio era rimasto seduto, immobile e lo aveva osservato con uno sguardo glaciale. Dopo averlo tenuto un po' in sospeso, Kuz'ma Kuz'miè disse con il tono più deciso e sconfortante: 

 «Scusate, signore, ma noi non intraprendiamo affari del genere». Mitja si sentì di colpo mancare la forza nelle gambe. «Che cosa mi resta da fare, allora, Kuz'ma Kuz'miè?», mormorò con un pallido sorriso. «Adesso sono perduto, voi che ne dite?» «Scusate, signore». Mitja rimaneva in piedi a fissarlo immobile, quando notò un repentino guizzo sul viso del vecchio. Egli trasalì. 

«Vedete, signore, affari di questo genere non ci piacciono molto», spiegò lentamente il vecchio. «Si ha a che fare con giudici, avvocati, una vera rovina! 

Ma se volete, qui c'è una persona alla quale potreste rivolgervi...» «Dio mio, e chi è?... Voi mi resuscitate, Kuz'ma Kuz'miè», balbettò Mitja. 

  «Non è di qui, ma in questo momento si trova da queste parti. È di origine contadina e commercia in legna, si chiama Ljagavyj di soprannome. È in trattative da un anno intero con Fëdor Pavloviè per quel vostro boschetto a Èermašnja, si dice che non si mettano d'accordo sul prezzo, forse l'avrete sentito. Adesso è ritornato e sta presso il curato di Il'inskoe, a una dozzina di verste dalla stazione di Volov'ja, cioè nel villaggio di Il'inskoe. Ha scritto anche a me a proposito dello stesso affare per chiedermi consiglio in merito al boschetto. Fëdor Pavloviè stesso ha intenzione di andarci a parlare. Quindi, se voi anticipaste Fëdor Pavloviè e proponeste a Ljagavyj quello che avete proposto a me, forse sarebbe possibile...» 

 «Idea geniale!», lo interruppe entusiasta Mitja. « È l'uomo che fa per me, andrò dritto da lui! È in trattative, gli chiederanno una cifra alta, e invece avrà in mano il documento che gli intesterà la proprietà stessa, ah, ah, ah!», e Mitja scoppiò a ridere della sua secca risatina legnosa, del tutto inattesa, tanto che Samsonov stesso sussultò con il capo. 

 «Come posso ringraziarvi, Kuz'ma Kuz'miè?», gridò Mitja con calore. 

 «Ma vi pare, signore», rispose Samsonov abbassando il capo. «Ma voi non sapete, voi mi avete salvato. Oh, è stato un presentimento a portarmi sino a voi... E così, adesso andrò da qual pope!» «Non occorre che mi ringraziate, signore». «Andrò lì di volata. Ho abusato della vostra salute. Non lo dimenticherò mai, è un uomo russo che ve lo dice, Kuz'ma Kuz'miè, un uomo r-russo!» «Sicuro». Mitja era sul punto di afferrare la mano del vecchio per stringerla, quando un'espressione maligna balenò negli occhi dell'altro. 

Mitja ritirò la mano, ma si rimproverò immediatamente per la propria volubilità. "Sarà stanco..." pensò. «È per lei! Per lei, Kuz'ma Kuz'miè! Voi lo capite che è per lei!», ruggì per tutta la sala, poi si inchinò, girò rapidamente sui tacchi, e si diresse verso l'uscita a passi lunghi e veloci come prima, senza più voltarsi. Tremava per l'eccitazione. 

"Sembrava che fosse tutto perduto ed ecco che l'angelo custode mi ha salvato", gli venne in mente. 

"E se un uomo d'affari come quel vecchio (un vecchio rispettabilissimo, e che dignità!) mi ha indicato quella via, allora...allora il successo è assicurato. Partirò immediatamente. Tornerò prima di notte, tornerò anche stanotte, ma la faccenda sarà felicemente conclusa. Oppure quel vecchio ha voluto prendersi gioco di me?", esclamava Mitja mentre si recava al suo appartamento. Ed egli, invero, non poteva pensarla diversamente, cioè: o si trattava di un consiglio pratico (da parte di un uomo d'affari di quel calibro) che conosceva l'affare in questione e conosceva quel Ljagavyj (che strano cognome!) oppure il vecchio si prendeva gioco di lui! 

Ahimè! Questa seconda alternativa era quella giusta. 

In seguito, molto tempo dopo, quando la catastrofe si era già compiuta, il vecchio Samsonov stesso ammetteva ridendo che allora si era preso gioco del "capitano". 

Era un vecchio perfido, freddo e sarcastico, soggetto per di più a violente antipatie. Forse l'aspetto esagitato del capitano o la stupida convinzione di quello "scialacquatore e dissipatore" che lui, Samsonov, avrebbe accettato una corbelleria come quel suo "piano" o ancora, forse, la gelosia nei confronti di Grušen'ka, in nome della quale "quello scapestrato" si era recato da lui con quella stupida idea di ottenere denaro - non so precisamente quale di questi motivi avesse stuzzicato particolarmente il vecchio, ma nel momento in cui Mitja gli stava dinanzi, sentendo che gli veniva meno la forza nelle gambe e gridando cose prive di senso a proposito della sua rovina, in quell'istante il vecchio gli aveva gettato uno sguardo di sconfinata malignità e gli era saltato in mente di prenderlo in giro. 

Quando Mitja fu uscito, Kuz'ma Kuz'miè, pallido di rabbia, ordinò al figlio di prendere provvedimenti che quello straccione non si presentasse mai più e che non fosse mai più ammesso nemmeno in cortile, altrimenti... Egli non espresse ad alta voce che cosa gli avrebbe fatto in caso contrario, ma persino il figlio, che lo aveva visto spesso adirato, tremò dalla paura. Dopo, per un'ora intera, il vecchio rimase tremante per la rabbia, e verso sera si sentì tanto male che mandarono a chiamare il dottore. 

A  Èermašnja.

In primo luogo, egli perse molto tempo dopo aver imboccato la strada vicinale dalla stazione di Volov'ja. 

Quella strada risultò lunga non dodici, ma diciotto verste. 

In secondo luogo, non trovò il curato di Il'inskoe in casa, giacché questi si trovava in un villaggio vicino. Partì per quel villaggio con gli stessi cavalli esausti e, mentre lo cercava, si fece quasi notte




Il curato, un ometto dall'aspetto timido e cortese, gli spiegò subito che quel Ljagavyj, sebbene si fosse davvero fermato da lui inizialmente, in quel momento si trovava a Suchoj Posëlok, dove avrebbe pernottato nell'izba del guardaboschi, dal momento che anche lì commerciava in legna. 

Alle pressanti richieste di Mitja di accompagnarlo immediatamente da Ljagavyj - "in questo modo l'avrebbe salvato" - il curato, dopo i tentennamenti iniziali, alla fine accettò di condurlo a Suchoj Posëlok, evidentemente incuriosito; ma sfortunatamente consigliò che si andasse a piedi, dal momento che si trattava di una versta "o poco più". 

 Mitja, naturalmente, fu d'accordo e si avviò con il suo lungo passo, tanto che il povero curato fu quasi costretto a corrergli dietro. Era un uomo non ancora vecchio e molto prudente. Anche con lui Mitja si mise a parlare dei suoi progetti, con ardore, chiedendogli nervosamente consigli riguardo a Ljagavyj; parlò per tutto il tragitto. I

Il curato ascoltava con attenzione, ma dette ben pochi consigli. Alle domande di Mitja rispondeva evasivamente: «Non so, oh, non so, come faccio a saperlo?», e così via. Quando Mitja si mise a parlare dei propri contrasti con il padre riguardo all'eredità, allora il curato si spaventò persino, dal momento che con Fëdor Pavloviè egli si trovava in un rapporto quasi di dipendenza. 

Poi si informò sulla ragione per la quale egli chiamasse Ljagavyj quel contadino commerciante che in realtà si chiamava Gorstkin e fu costretto a spiegare a Mitja che Ljagavyj era e non era il vero nome di quell'uomo, nessuno lo chiamava mai così perché si sarebbe seriamente offeso e quindi doveva assolutamente chiamarlo Gorstkin, altrimenti non avrebbe combinato un bel nulla con lui; quello non gli avrebbe nemmeno dato retta, concluse il curato. 

Mitja ne fu un po' stupito all'inizio e spiegò che era stato Samsonov a chiamarlo così. 

 Sentendo questo fatto, il curato lasciò subito cadere l'argomento, anche se avrebbe fatto meglio a mettere a parte Dmitrij Fëdoroviè del suo dubbio: se Samsonov stesso lo aveva mandato da quel contadino chiamandolo Ljagavyj, forse aveva l'intenzione di prendersi gioco di lui e, quindi, la faccenda poteva prendere una brutta piega. Ma Mitja non aveva tempo di soffermarsi su "quei dettagli". 

Egli procedeva a passo sostenuto e soltanto quando arrivò a Suchoj Posëlok, si rese conto che avevano camminato non per una versta e nemmeno per una versta e mezza, ma per ben tre verste, a occhio e croce, e questo lo irritò, ma mantenne il controllo. 

Entrarono nell'izba. 

Il guardaboschi, un conoscente del curato, viveva in una metà dell'izba mentre nell'altra metà, quella migliore, dall'altra parte dell'andito, alloggiava Gorstkin. 

Essi entrarono in questa seconda parte e la illuminarono con una candela di sego. 

L'izba era surriscaldata. Sul tavolo di pino c'erano il samovar spento, un vassoio con alcune tazze, una bottiglia vuota di rum, un'altra bottiglia di vodka quasi vuota e degli avanzi di pane di frumento. 

L'ospite se ne stava sdraiato lungo lungo su una panca, con il soprabituccio arrotolato sotto la testa a mo' di cuscino, e russava pesantemente. 

Mitja rimase perplesso. «Naturalmente, dovremo svegliarlo: il mio affare è troppo importante, mi sono precipitato qui e voglio tornare in città al più presto», disse Mitja allarmato; ma il curato e il guardaboschi rimanevano in silenzio, senza esprimere la propria opinione. 

 Mitja si avvicinò e cercò di svegliarlo da sé, lo fece persino con una certa energia, ma il dormiente non reagiva. «È ubriaco», concluse Mitja


«Padre, io resterò qui al lume di candela e coglierò il momento buono. Quando si sveglierà comincerò a... Ti pagherò per la candela...», disse rivolgendosi al guardaboschi, «e anche per il pernottamento, ti ricorderai di Dmitrij Karamazov. Ecco, solo che non so come farete voi, padre: dove dormirete?» 

 «No, io tornerò a casa, signore. Prenderò la sua cavalla», disse indicando il guardaboschi. «E ora vi dico addio, vi auguro il pieno successo dei vostri progetti». 

 Fu deciso così. Il curato partì sulla cavalla, contento di essersi finalmente sbarazzato di quel fastidio, continuando tuttavia a scuotere il capo mentre valutava se fosse il caso di informare, l'indomani, per tempo, di quel curioso episodio il suo benefattore Fëdor Pavloviè: "altrimenti se malauguratamente lo venisse a sapere, se la prenderebbe con me e mi toglierebbe il suo favore". 

Il guardaboschi tornò nella sua parte di izba, grattandosi e senza dire una parola, mentre Mitja si sedette sulla panca per cogliere "il momento buono", come aveva detto lui stesso. 

Una profonda angoscia avvolse, come una densa nebbia, la sua anima. Una profonda, terribile angoscia! Egli stava seduto a pensare, ma non riusciva a venire a capo di nulla. La candela ardeva, un grillo si mise a frinire, la stanza surriscaldata stava diventando insopportabilmente soffocante. 

All'improvviso gli venne in mente il giardino, il passaggio dietro al giardino, la porta della casa del padre che si apre misteriosamente, e in quella porta si intrufola Grušen'ka... Balzò in piedi. «Una tragedia!», disse digrigando i denti, poi si avvicinò macchinalmente al dormiente e prese a esaminargli il volto. 

Era un contadino segaligno, di mezza età, con un viso molto allungato, i capelli ricci castani e una lunga barbetta sottile e rossiccia; indossava una camicia di indiana e un panciotto nero: dalla tasca del panciotto spuntava la catenella dell'orologio d'argento. Mitja guardava quella fisionomia con indicibile odio; gli era particolarmente odioso il fatto che avesse i capelli ricci, chissà perché. Ma quello che più gli sembrava intollerabile era il fatto che lui, Mitja, stava lì con il suo affare improrogabile, dopo aver fatto tanti sacrifici, aver abbandonato ogni cosa, patito tanti tormenti, mentre quel parassita "dal quale in quel momento dipendeva tutto il mio destino, russava come se niente fosse, come se stesse su tutt'altro pianeta"

«Oh, ironia del destino!», esclamò Mitja e all'improvviso, quasi perdendo la testa, tentò di nuovo di svegliare il contadino ubriaco. Lo scrollava con una specie di ferocia, lo scuoteva, lo spingeva, lo batteva persino; ma dopo cinque minuti di vani tentativi, tornò alla sua panca e si risedette disperato

«Che stupido, che stupido!», esclamò Mitja. «E... che vergogna tutto questo!», soggiunse all'improvviso, chissà per quale ragione. Cominciò a dolergli terribilmente il capo: "Dovrei forse lasciar perdere? Andare via?", gli venne in mente. "No, rimarrò sino al mattino, rimarrò apposta, rimarrò apposta! Per quale motivo sono venuto? E poi non ho mezzi per andare via di qui adesso, oh, che idiozia!"

Intanto la testa gli doleva sempre di più. Sedeva immobile e, senza rendersene conto, si assopì e si addormentò lì sulla panca. 

Dormì un paio d'ore, forse di più. Si svegliò per un terribile dolore alla testa, tanto intollerabile da farlo urlare. Gli battevano le tempie, e il vertice del capo gli doleva, ci mise molto tempo prima di svegliarsi del tutto e capire quello che gli stava accadendo. Finalmente capì che la stanza surriscaldata era satura di anidride carbonica e che così avrebbe potuto morire.

ARIA AVVELENATA

Il contadino ubriaco, invece, continuava a stare sdraiato e a russare; la candela si era consumata e stava per spegnersi del tutto. Mitja lanciò un urlo e si precipitò, barcollando, attraverso l'andito nella stanza del guardaboschi. Quello si svegliò di soprassalto, ma quando sentì che l'altra stanza era satura di gas, con grande sorpresa e irritazione di Mitja, accolse la notizia con strana indifferenza, e comunque si alzò per prendere provvedimenti. «Ma se è morto, se è morto... che ne sarà di me?», gridò Mitja davanti a lui, preso dalla frenesia. Spalancarono le porte, aprirono le finestre, aprirono il fumaiolo. Mitja trascinò dall'andito un secchio d'acqua, e prima si inumidì la testa, poi, avendo trovato uno straccio, lo immerse nell'acqua e lo poggiò sulla fronte di Ljagavyj. Il guardaboschi continuava a comportarsi in maniera quasi sprezzante e, aprendo una finestra, disse cupamente: «Va bene anche così», e tornò a dormire, lasciando a Mitja una lanterna di ferro accesa. Mitja si dette da fare un buona mezz'ora con l'ubriaco asfissiato, continuava ad inumidirgli la testa ed era già seriamente intenzionato a non chiudere occhio per tutta la notte, quando, esausto, si sedette un attimo per riprendere fiato e chiuse gli occhi per un momento; senza rendersene conto, si allungò sulla panca e si addormentò di sasso.

Quando si alzò, era terribilmente tardi. Dovevano essere le nove di mattina. 

 Il sole risplendeva attraverso le due finestrelle dell'izba. 

Il contadino ricciuto del giorno prima sedeva sulla panca con la poddëvka indosso. Davanti a lui c'era un altro samovar e un'altra bottiglia di vodka. Quella di ieri se l'era già scolata, e quella appena stappata era vuota più che a metà. Mitja fece un balzo e capì subito che il maledetto contadino era di nuovo ubriaco, irreparabilmente ubriaco fradicio. Mitja lo guardò per un minuto strabuzzando gli occhi.

Il contadino invece lo osservava in silenzio con un'aria furba e una pacatezza quasi offensiva, anzi persino con una certa alterigia sprezzante, così parve a Mitja. Si scagliò contro di lui. «Scusatemi, vedete... io... voi, forse l'avrete sentito dal guardaboschi che vive in questa izba: io sono il tenente Dmitrij Karamazov, figlio del vecchio Karamazov, dal quale state comprando il boschetto...» «Tu stai mentendo!», replicò con pacata fermezza il contadino. «Come, mentendo? Conoscete Fëdor Pavloviè?» «Non conosco nessun Fëdor Pavloviè», disse il contadino articolando pesantemente la lingua.

 «Il boschetto, state contrattando per il suo boschetto; ma svegliatevi, tornate in voi. Padre Pavel di Il'inskoe mi ha condotto qui... Avete scritto anche a Samsonov ed è stato lui a mandarmi da voi...», disse Mitja trafelato.

 «Stai mentendo!», ripetè Ljagavyj scandendo le sillabe. Mitja si sentì raggelare le gambe. 

 «Per l'amor del cielo, questo non è mica uno scherzo! Forse siete un po' brillo. Tuttavia potete almeno parlare, capire... altrimenti... altrimenti io non ci capisco niente!» «Sei un tintore!» 

 «Per l'amore del cielo, sono Karamazov, Dmitrij Karamazov, ho una proposta da farvi... una proposta vantaggiosa... molto... vantaggiosa... proprio riguardo a quel boschetto». 

 Il contadino si accarezzava la barba con aria grave. 

 «No, tu hai preso l'appalto e ti sei rivelato un mascalzone. Sei un mascalzone!» 

 «Vi assicuro che vi sbagliate!», disse Mitja, tormentandosi le mani disperato.

 Il contadino continuava ad accarezzarsi la barba e ad un tratto aguzzò gli occhi con aria furba. «No, adesso mi devi mostrare, mi devi mostrare quale legge mai consente di fare delle canagliate, hai capito? Sei un mascalzone, hai capito?»