mercoledì 7 dicembre 2016

LO STAREC ZOSIMA








Era di bassa statura, curvo, con le gambe molto deboli;
aveva solo sessantacinque anni
ma, a causa della malattia, sembrava molto più
anziano, almeno di una decina d'anni.

Il suo viso rinsecchito era tutto
solcato da rughette minute, particolarmente fitte intorno agli occhi.

Gli occhi erano piccoli, chiari, mobili, scintillanti, come due punti luminosi.

Gli erano rimasti solo alcuni ciuffetti di capelli canuti sulle tempie, la
barbetta era rada e minuscola, a punta, e le labbra, che sorridevano spesso,
erano sottili come due cordicelle.

Il naso non era tanto lungo quanto
affilato, come il becco di un uccellino.



CASA DI KATJA

CASA DI KATJA






Erano già le sette e il sole stava tramontando, quando Alëša arrivò da
Katerina Ivanovna, che abitava in una casa molto spaziosa e confortevole
nella via Bol'šaja.

Alëša sapeva che la donna viveva con due zie.



[...]

Quando Alëša entrò
nell'anticamera e chiese alla cameriera, che gli aveva aperto la porta, di
essere annunciato in salotto, evidentemente, erano già al corrente del suo
arrivo (forse lo avevano visto dalla finestra), ma Alëša sentì soltanto un
certo trambusto, frettolosi passi femminili, un fruscio di sottane: due o tre
donne dovevano essere scappate via dalla stanza. Ad Alëša sembrò strano
che il suo arrivo potesse provocare una simile agitazione.

Comunque fu
subito introdotto in salotto.

IL SALOTTO 

Era una stanza spaziosa, arredata con dovizia
di mobili eleganti, tutt'altro che provinciali. 
C'era un gran numero di
divani, sofà, divanetti, tavoli piccoli e grandi; c'erano quadri alle pareti,
vasi e lampade sui tavoli, fiori in abbondanza, c'era persino un acquario
vicino alla finestra. 

La stanza era piuttosto scura per via del crepuscolo.
Alëša intravide sul divano, sul quale evidentemente fino a qualche
momento prima era seduto qualcuno, una mantella di seta abbandonata e
sul tavolo, davanti al divano, due tazze di cioccolata mezze piene, dei
biscotti, un piatto di cristallo con uvetta passa azzurrina e un altro con dei
cioccolatini. 

C'era stato qualche ospite. Alëša capì di essere capitato in un
momento in cui c'erano visite e si accigliò.

CASA KARAMAZOV

CASA KARAMAZOV



ESTERNO

La casa di Fëdor Pavloviè Karamazov sorgeva piuttosto distante dal
centro della città, anche se non proprio in periferia.

Era una casa vecchia,
ma piacevole a vedersi:
ad un piano, con un attico, le pareti dipinte di un
colore grigiognolo e il tetto rosso di ferro.
Era spaziosa e confortevole e
poteva reggere ancora molti anni.
Aveva una miriade di sgabuzzini e
nascondigli di vario genere e scalette a sorpresa.
Era infestata di ratti, ma
Fëdor Pavloviè non era molto contrariato per questo:
"Se non altro si sente
meno la noia, quando la sera si rimane soli soletti".
Infatti era sua
abitudine mandare a dormire i servi nella dipendenza e chiudersi a chiave
da solo in casa per tutta la notte.
La dipendenza si trovava in cortile, era
ampia e solida.
Fëdor Pavloviè aveva disposto che essa avesse anche una
cucina, sebbene in casa ce ne fosse già una;
egli non amava l'odore della
cucina e, sia d'inverno sia d'estate, gli portavano i cibi passando per il
cortile.
La casa era stata concepita per una famiglia numerosa, avrebbe

potuto ospitare il quintuplo della gente che vi abitava, fra padroni e servitù.


INTERNO




Trovò per davvero suo padre ancora a tavola.
Secondo una vecchia
consuetudine, la tavola era apparecchiata in salone,
anche se nella casa
c'era una sala da pranzo vera e propria.

Quella era la stanza più grande
della casa, arredata con una certa ostentazione vecchia maniera.

I mobili
erano decrepiti, bianchi, imbottiti di una vetusta tappezzeria rossa in misto
seta.

Sulle pareti comprese tra le finestre c'erano specchi dalle cornici
elaborate di antico intaglio, anch'esse bianche con decorazioni dorate.
Sulle pareti tappezzate di carta da parato bianca, in molti punti già frusta,
facevano bella mostra di sé due grandi ritratti: uno di un certo principe, che
una trentina di anni prima era stato generale-governatore del distretto
locale, e l'altro di un arcivescovo, anche quello deceduto da tempo.

Nell'angolo d'onore, presso l'ingresso, erano collocate alcune icone,
davanti alle quali di notte si accendeva una lampada... non tanto per
devozione quanto per illuminare l'ambiente per la notte.

Fëdor Pavloviè si
coricava molto tardi, verso le tre, le quattro del mattino e fino a quell'ora si
aggirava per la stanza oppure sedeva in poltrona a meditare. Era diventata
un'abitudine per lui. Non di rado dormiva completamente solo in casa e
mandava la servitù nella dipendenza, ma di solito anche il servo
Smerdjakov si tratteneva per la notte, dormiva su una panca in anticamera.

Quando entrò Alëša, il pranzo era già terminato, ma erano appena stati
serviti il caffè e la marmellata. Fëdor Pavloviè amava i dolci con il cognac
dopo pranzo.

Anche Ivan Fëdoroviè era seduto a tavola e prendeva il suo
caffè.

I servi Grigorij e Smerdjakov erano in piedi presso la tavola. Sia i
signori sia i servitori si trovavano in uno stato di insolita e vivace
animazione. Fëdor Pavloviè rideva e sghignazzava rumorosamente; sin
dall'andito Alëša aveva sentito la risata stridula che gli era tanto familiare,
e concluse immediatamente, dal suono di quella risata, che il padre era ben
lungi dall'essere ubriaco, ma che per il momento aveva raggiunto soltanto

lo stadio dell'ilarità.

CASA DI SAMSONOV

LA CASA DI SAMSONOV



La casa era vecchia, cupa, molto spaziosa, a due piani, con dipendenze e un'ala annessa. Al piano inferiore vivevano i due figli sposati di Samsonov con le loro famiglie, l'anziana sorella e una figlia zitella. Nella dipendenza erano sistemati i suoi due commessi, uno dei quali con famiglia numerosa. Sia i figli sia i commessi stavano molto stretti nelle loro abitazioni, eppure il vecchio riservava a sé tutto il piano superiore della casa e non permetteva neanche alla figlia, che lo accudiva, di vivere con lui, tanto che quella era costretta a correre su da lui a orari prestabiliti e ogni volta che il padre la chiamava, nonostante la sua asma di vecchia data. 

Il piano superiore constava di una moltitudine di grandi camere di rappresentanza

arredate secondo il vecchio stile dei mercanti, con lunghe e monotone file di sgraziate sedie e poltroncine di mogano lungo le pareti, lampadari di cristallo ricoperti da fodere, e cupi specchi alle pareti fra le finestre. Tutte quelle stanze rimanevano completamente vuote e disabitate, poiché il vecchio malato si era ormai ridotto in un'unica stanza, la sua piccola e remota stanza da letto, dove era servito da una vecchia cameriera, con i capelli raccolti sotto un fazzoletto, e da un "garzone" che di solito sedeva su una panca dell'ingresso. Il vecchio non era quasi più in grado di camminare a causa del gonfiore alle gambe, solo di rado si alzava dalla sua poltrona di pelle, e la vecchia che lo sorreggeva sotto braccio lo accompagnava su e giù per la stanza

CASA DI GRUSHENKA

CASA DI GRUSHENKA





Grušen'ka viveva nella zona più animata della città, nei pressi della piazza della Cattedrale, in casa della vedova del mercante Morozov, da cui aveva preso in affitto una piccola dipendenza in legno che dava sul cortile.

La casa dei Morozov invece era grande, in muratura, a due piani, vecchia e d'aspetto oltremodo sgradevole; ci viveva la padrona di casa, una vecchia signora, che conduceva vita isolata insieme a due nipoti, anch'esse zitelle molto avanti negli anni.

La vedova non aveva necessità di affittare la dipendenza, ma era noto a tutti che aveva accettato di prendere Grušen'ka come inquilina (quattro anni prima) solo per far piacere al mercante Samsonov, suo parente, generalmente riconosciuto come protettore di Grušen'ka.

Si diceva che nel sistemare la sua "favorita" dalla Morozova, lo scopo primario del vecchio geloso fosse stato quello di far sorvegliare la condotta della nuova inquilina dall'occhio vigile della vecchia. Ma l'occhio vigile di questa si era ben presto rivelato completamente inutile ed era andata a finire che la Morozova si vedeva molto di rado con Grušen'ka e non la importunava più con alcun tipo di sorveglianza.


Grušen'ka viveva molto modestamente e la sua casa era tutt'altro che lussuosa.

Nella dipendenza occupava tre camere in tutto, arredate dalla padrona di casa con mobili in mogano, secondo lo stile degli anni '20.

Quando Rakitin e Alëša entrarono in casa sua, il crepuscolo era già avanzato, ma le camere non erano ancora illuminate.


Grušen'ka era in salotto, sdraiata su un ampio e sgraziato divano con lo schienale in mogano, duro e rivestito di un cuoio logoro e bucato da tempo. Poggiava il capo su due cuscini bianchi e soffici che aveva preso dal letto. Stava sdraiata supina, immobile, con le braccia sotto il capo.

giovedì 20 ottobre 2016

KATJA: prima apparizione e flash back

KATJA 

(Katerina Ivanovna)



Martin Mendgen, (1893-1970), Lady in mourning, 1930

http://vangoyourself.com/paintings/lady-in-mourning/



(vista con gli occhi di Aliosha)

Tre settimane prima
"[..] La bellezza di Katerina Ivanovna 

aveva già in precedenza colpito Alëša 
quando il fratello Dmitrij, 
tre settimane prima circa, 
lo aveva condotto da lei la prima volta, 
secondo il vivissimo desiderio di Katerina Ivanovna in persona, 
per presentarlo alla fanciulla. 

Durante quell'incontro i due non avevano conversato. 
Supponendo che Alëša fosse molto imbarazzato,
Katerina Ivanovna lo aveva, 
in un certo senso, risparmiato, 
e per quella volta aveva parlato tutto il tempo con Dmitrij Fëdoroviè.
 Alëša aveva taciuto, 
ma aveva osservato molte cose con attenzione. 
Lo avevano colpito l'imperiosità, la fiera disinvoltura, 
la sicurezza in se stessa dell'altera ragazza. 
E tutto questo era indubbio. Alëša sentiva di non esagerare. 

Egli trovò che 

i suoi grandi e ardenti occhi neri 
fossero bellissimi 
e si adattassero in particolar modo al suo viso pallido, 
quasi olivastro, e piuttosto lungo. 
Ma in quegli occhi, 
come anche nel disegno delle magnifiche labbra, 
c'era qualcosa di particolare 
del quale certo il fratello aveva potuto innamorarsi 
sino a perdere la testa, 
ma che, forse, non era possibile amare a lungo.
LibroIII, capitolo X, L'una e l'altra insieme



IL RACCONTO DI MITJA


LA SUA FAMIGLIA - PADRE E SORELLA

IL PADRE

«In quel battaglione di linea, sebbene fossi alfiere, ero sempre sotto controllo, diciamo cosí, come una specie di forzato. La cittadina, però, mi aveva accolto benissimo. Gettavo al vento un mucchio di denaro, credevano che fossi ricco e lo credevo anche io. E del resto, penso che andassi loro a genio anche per qualcos'altro. Sebbene a volte scuotessero il capo in segno di disapprovazione, in realtà mi volevano bene. 

Invece, il mio tenente colonnello, un vecchio, mi prese subito in antipatia. Ce l'aveva sempre con me, ma io avevo i miei appoggi, e poi tutta la città era dalla mia parte, quindi non poteva nuocermi molto. Ma anch'io avevo la mia parte di colpa perché mi rifiutavo di comportarmi con il dovuto rispetto. Facevo l'altezzoso. Quel vecchio testardo - per altro persona molto buona, generosa e ospitale - aveva avuto due mogli, entrambe decedute. 

LA FIGLIA DELLA PRIMA MOGLIE: Agaf'ja Ivanovna. 


La prima, una donna ordinaria, gli aveva lasciato una figlia, anche lei ordinaria. 
Era una zitella di ventiquattro anni quando io stavo lì, viveva con il padre e la zia, la sorella della madre defunta. 
La zia era una sempliciotta taciturna; la nipote, la figlia maggiore del tenente colonnello, era una sempliciotta vivace. Quando ricordo le persone, mi piace dire delle cose buone sul loro conto: non ho mai trovato nella vita, caro mio, una donna con un carattere così delizioso come quello della ragazza in questione, che si chiamava Agaf'ja, pensa un po', Agaf'ja Ivanovna. E non era neanche brutta, secondo il nostro gusto russo: alta, robusta, tonda, con occhi bellissimi, ma con un viso un po' rozzo, direi. Non si era sposata, sebbene un paio di proposte gliele avessero fatte, ma lei aveva rifiutato senza abbattersi per questo. 

 Diventai suo amico, ma non in quel senso, no, era un rapporto pulito, da semplici amici. Mi è capitato spesso di avere relazioni assolutamente innocenti con le donne, da veri amici. Con lei parlavo con una tale franchezza, uh! ma lei non faceva che ridere. Molte donne amano la franchezza, tienilo a mente, e lei, per giunta, era ancora una ragazza da marito e la cosa mi divertiva molto. Ed ecco un altro particolare: era assolutamente impossibile chiamarla signorina. 

Lei e la zia vivevano dal padre, e in un certo modo si mettevano spontaneamente su un piano d'inferiorità, senza competere con le persone che frequentavano. Tutti le volevano bene e ricorrevano a lei, perché era una sarta eccellente: aveva talento, non chiedeva mai soldi per il suo lavoro, lo faceva per gentilezza, ma quando le donavano qualcosa non rifiutava. Il tenente colonnello, quello era un altro paio di maniche! Era una delle maggiori personalità della città. Viveva nell'agiatezza, riceveva la città intera, dava cene, balli. 


LA FIGLIA DELLA SECONDA MOGLIE: Katerina Ivanovna

All'epoca in cui arrivai per arruolarmi nel battaglione, per tutta la cittadina si era diffusa la notizia che presto avremmo ricevuto la visita della seconda figlia del tenente colonnello, la più bella fra le belle, appena uscita da un collegio aristocratico della capitale. 

La secondogenita era Katerina Ivanovna in persona, cioè la figlia della seconda moglie del tenente colonnello. La seconda moglie, anche lei defunta, apparteneva ad una illustre e importante famiglia di generali, anche se, come mi è noto per certo, non aveva portato neanche un soldo in dote al tenente colonnello. Insomma, aveva parenti illustri, ma niente di più, forse c'era stata qualche speranza, ma niente di concreto. 

Tuttavia, quando la collegiale arrivò (solo per una visita, non per sempre), sembrò che la cittadina intera si rianimasse; le dame più distinte della città - due erano mogli di eccellenze, un'altra moglie di un colonnello - e tutte le altre dietro a loro, si dettero subito da fare, la presero sotto la loro protezione e giù a dare ricevimenti in suo onore. Ella diventò la reginetta dei balli, dei picnic; abborracciarono persino dei quadri viventi a favore di qualche istitutrice in disgrazia. Io me ne stavo zitto, continuavo a fare baldoria, ma proprio in quel periodo ne combinai una che fece clamore in tutta la città. 

Una volta mi ero accorto che lei mi stava squadrando, eravamo a casa del comandante di batteria, ma non mi avvicinai, come se disdegnassi di conoscerla. Mi avvicinai a lei in seguito, sempre a un ballo, attaccai discorso e lei mi degnò appena di uno sguardo con un'espressione sprezzante sulle labbruzze. 

Allora io pensai: aspetta che mi vendico! In quel periodo, il più delle volte, mi comportavo da prepotente villano e me ne rendevo conto io stesso. Il peggio era che mi rendevo pure conto che "Katen'ka" non era semplicemente un'ingenua collegiale, ma una persona di carattere, orgogliosa e virtuosa allo stesso tempo, e, soprattutto una persona dotata di intelligenza e cultura, mentre a me mancavano sia l'una sia l'altra. 

Pensi che le volessi fare una proposta di matrimonio? Nient'affatto, volevo solo vendicarmi del fatto che, nonostante io fossi così in gamba, lei sembrasse non accorgersene. Ma per il momento continuavo a gozzovigliare e a far baccano. Alla fine, il tenente colonnello mi mise agli arresti per tre giorni. 

LA CADUTA DEL PADRE


Proprio in quel periodo, nostro padre mi aveva appunto spedito seimila rubli dopo che io gli avevo fatto pervenire la rinuncia formale al resto del patrimonio, come a dire che avevamo "pareggiato i conti" e non avrei preteso più nulla. A quel tempo non avevo capito niente: io, fratello, sino al giorno del mio arrivo qui, persino sino a questi ultimi giorni e forse, sino ad oggi, non avevo mai capito niente di tutti questi conflitti di interesse con nostro padre. Ma, al diavolo, di questo parleremo dopo. Intanto, dopo aver ricevuto quei seimila pezzi, avevo appreso da una letterina di un amico una certa notizia molto interessante per me, e cioè che erano scontenti del nostro tenente colonnello, che lo sospettavano di non avere le mani pulite, insomma, i suoi nemici gli stavano preparando un tiro mancino. 

Di lì a poco arrivò il comandante della divisione e piantò una grana che non finiva più. Poco tempo dopo gli ordinarono di rassegnare le dimissioni. Non starò qui a raccontarti come andò la faccenda nei particolari: egli aveva sicuramente dei nemici e in città cominciarono a manifestare un'improvvisa freddezza nei confronti suoi e della sua famiglia, tutti avevano preso le distanze. 

Ed ecco che in quel momento io feci la mia prima mossa: mi incontrai con Agaf'ja Ivanovna, con la quale ero sempre rimasto in rapporti di amicizia, e le dissi: "E così al vostro paparino mancano quattromila e cinquecento rubli di denaro dello Stato". "Ma come vi viene in mente? Che cosa ve lo fa pensare? Di recente è venuto qui il generale, i soldi c'erano tutti..." "Allora c'erano, ma adesso no". 

Lei era terrorizzata oltre ogni dire: "Non mi spaventate, vi prego, da chi lo avete saputo?" "Non vi preoccupate, non lo dirò a nessuno e voi sapete che so essere una tomba in questi casi, ma ecco quello che volevo dirvi a questo proposito, per 'qualunque evenienza', diciamo così: se dovessero chiedere al vostro papà quei quattromila e cinquecento rubli e lui non dovesse averli, certo dovrebbe subire un processo e poi essere degradato in vecchiaia, a meno che voi non mi mandiate in segreto la vostra collegiale. Sapete, mi hanno appena spedito dei soldi, ed io le darò quei quattromila e cinquecento rubli e manterrò devotamente il segreto". 

 "Ah, che mascalzone che siete!" (disse proprio così); "Siete un perfido mascalzone! Ma come osate?" Se ne andò terribilmente indignata, ed io le gridai dietro un'altra volta che avrei devotamente mantenuto il segreto. 

Le due donne, cioè Agaf'ja e sua zia - te lo anticipo - in tutta quella storia si rivelarono due veri angeli, avevano una vera adorazione per l'altra sorella, quella orgogliosa, si umiliavano dinanzi a lei, le facevano da cameriere... Subito dopo la mia mossa, cioè la conversazione che avevamo avuto, Agaf'ja le riferì ogni cosa. In seguito venni a sapere tutto nei minimi particolari. Non si tenne nulla per sé, ed ovviamente era proprio quello che volevo.

All'improvviso giunse un nuovo maggiore a prendere il comando del battaglione. 

L'AMMANCO

Il vecchio tenente colonnello si ammalò da un giorno all'altro, non era in grado di lasciare la sua stanza; per due giorni non uscì di casa e non poté consegnare il denaro della cassa. Il dottor Kravèenko garantiva che era davvero malato. Ma c'era qualcos'altro che io conoscevo fin nei minimi dettagli, soltanto io, in segreto, e anche da molto tempo: la somma, subito dopo l'ispezione del comando, spariva regolarmente per un certo periodo ed erano quattro anni di fila che questo avveniva. Il tenente colonnello la dava in prestito ad un uomo fidatissimo, un mercante delle nostre parti, un vecchio vedovo, Trifonov, un tipo con la barba e gli occhiali d'oro. Quello andava alla fiera, concludeva la transazione che gli interessava e restituiva immediatamente l'intera somma al tenente colonnello e, insieme a quella, gli portava un regalo e gli interessi. Solo che l'ultima volta (avevo appreso ogni cosa del tutto casualmente dal figlio di Trifonov, un adolescente bavoso, suo figlio ed erede, il ragazzaccio più dissoluto mai venuto al mondo), l'ultima volta, dicevo, di ritorno dalla fiera, Trifonov non restituì nulla. Il tenente colonnello si precipitò da lui: "Non ho mai ricevuto un soldo da voi, e non avrei neanche potuto farlo": questa fu la sua risposta. E così il nostro tenente colonnello si chiude in casa, si fascia la testa con un asciugamano, e tutte e tre le donne si danno da fare a mettergli il ghiaccio sulla testa; all'improvviso arriva un soldato con un registro e un ordine: 


"Consegnare la somma della cassa, seduta stante, immediatamente: entro due ore". Egli firma - vidi io stesso la firma nel registro -, si alza, dice di andare a mettersi la divisa, corre in camera da letto, prende il suo fucile da caccia a due canne, lo carica, ci mette dentro una pallottola militare, si toglie lo stivale destro, poggia il fucile al petto e con il piede comincia a cercare il grilletto. 

Ma Agaf'ja ha già dei sospetti, si ricorda delle mie parole di allora, si avvicina quatta quatta e vede tutto in tempo: piomba nella stanza, gli si slancia alle spalle, lo stringe fra le braccia, il fucile spara un colpo al soffitto; nessuno è ferito; poi accorrono gli altri, lo afferrano, gli tolgono il fucile, lo bloccano per le braccia... Venni a sapere tutto quanto per filo e per segno, in seguito. 

LA VISITA DI KATIA

In quel momento mi trovavo a casa, era il tramonto, e mi accingevo a uscire, mi ero vestito, pettinato, avevo profumato il fazzoletto, avevo preso il cappello, 

quando si spalanca la porta all'improvviso e, davanti a me, nel mio appartamento, compare Katerina Ivanovna. 

Accadono a volte cose molto strane: nessuno per strada l'aveva vista venire, tanto che in città la cosa passò del tutto inosservata. Io poi avevo preso in affitto l'appartamento da due vecchiette decrepite, mogli di impiegati, che si prendevano cura di me, due donne rispettose che mi ubbidivano in tutto e, al mio ordine, riguardo all'accaduto rimasero mute come pesci. Naturalmente compresi immediatamente la situazione. 

Ella entrò e mi guardò dritto in faccia, i suoi occhi scuri avevano uno sguardo deciso, persino insolente, ma sulle labbra e intorno alle labbra era visibile la sua indecisione. 

"Mi ha detto mia sorella che voi mi avreste dato quattromila e cinquecento rubli se fossi venuta a prenderli... da voi di persona. Sono venuta... datemi il denaro!" Non resse, le mancò il respiro, era spaventata, la voce si incrinò e le estremità delle labbra, e i tratti intorno alle labbra, ebbero un tremito. 

«Alëša, mi stai ascoltando o stai dormendo?» «Mitja, io so che mi dirai tutta la verità», disse Alëša agitato. 

 «Te la sto dicendo. Se devo dire tutta la verità, ecco come andarono le cose, non mi risparmierò. Il mio primo pensiero fu da Karamazov. Una volta, fratello, fui morsicato da una tarantola e rimasi a letto con la febbre alta per due settimane: ecco, anche in quel momento ebbi la sensazione che mi avesse morsicato il cuore una tarantola, un insetto cattivo, capisci? 

 La avvolsi nel mio sguardo. Tu l'hai vista? È proprio uno splendore. Ma in quel momento non era splendida soltanto in quel senso. In quell'istante era splendida in quanto mi era riconoscente, mentre io ero un mascalzone, perché lei era sublime nella sua generosità e nel sacrificio che affrontava per suo padre, mentre io ero una cimice. Ed ecco che da me, da una cimice, da un mascalzone lei dipendeva interamente, interamente, così com'era, anima e corpo. Ella era accerchiata. Te lo dirò francamente: questo pensiero, il pensiero della tarantola, possedeva il mio cuore a tal punto che esso quasi veniva meno per la sofferenza. Sembrava poi che non avrei trovato nessuna resistenza: avrei dovuto agire proprio come una cimice, una tarantola cattiva, senza alcuna pietà... mi mancava persino il respiro. Ascolta: ovviamente l'indomani stesso sarei andato a chiedere la sua mano per porre fine a tutto nella maniera più onorevole, e in modo che nessuno lo sapesse e lo potesse mai venire a sapere. Infatti, anche se sono un uomo dai bassi appetiti, ho pur sempre il mio onore. 

Ed ecco che in quello stesso istante una voce mi sussurrò all'orecchio: "Se domani vai a proporre di sposarla, una donna simile non esce neppure a riceverti e ordina al cocchiere in cortile di cacciarti via. 'Vantati pure per tutta la città, io non ho paura di te', ti dirà!" Gettai uno sguardo alla ragazza, quella voce non mentiva: certo sarebbe andata a finire così. Mi avrebbe fatto prender per la collottola e cacciare via, potevo già prevederlo dalla faccia che aveva in quel momento. Mi sentii ribollire di perfidia, mi venne voglia di giocarle il più abietto dei tiri, una vera porcheria, un tiro da mercante: guardarla con aria beffarda, e lì, mentre stava lì davanti a me, sbalordirla con l'intonazione che soltanto un mercantuccio sa usare: 

"Ah, quei quattromila rubli! Ma io stavo scherzando, che cosa dite? Siete stata troppo credulona, signorina. Un duecento rubletti, quelli sì, con piacere, volentieri, ma quattromila, quella non è cifra da buttar via con tanta leggerezza, signorina. Vi siete data disturbo inutilmente". 

Vedi, chiaramente avrei perduto tutto, lei sarebbe scappata via, ma sarebbe stata una vendetta infernale che mi avrebbe ricompensato di tutto il resto. Mi sarei tormentato poi tutta la vita per il rimorso, ma che gusto combinare quel tiro! Ci credi, non mi era mai capitato con nessuno, con nessuna donna, di provare tanto odio come nel momento in cui guardavo lei, ecco, te lo giuro: io per tre, cinque secondi guardai quella donna con un terribile odio, con quello stesso odio che dista dall'amore, dall'amore più folle, di un solo capello! 

Mi avvicinai alla finestra, poggiai la fronte sul vetro ghiacciato, ricordo che a contatto con la superficie gelata la sentii bruciare come fuoco. Non esitai a lungo, non temere, mi girai, andai alla scrivania, aprii il cassetto e estrassi un titolo al portatore del valore di cinquemila rubli al cinque per cento (lo tenevo nel vocabolario di francese). 

Poi glielo mostrai, in silenzio, lo piegai, glielo diedi, le aprii io stesso la porta che dava nell'andito e, arretrando di un passo, le feci il più rispettoso, il più devoto degli inchini, credimi! Lei trasalì tutta, mi fissò per un secondo, si fece bianca come un lenzuolo, e d'un tratto, senza dire una parola neanche lei, né fare alcun movimento brusco, si prostrò ai miei piedi con un inchino dolce, profondo, quieto, fino a toccare per terra con la fronte, non come insegnano al collegio, ma alla russa! Poi saltò in piedi e corse via. 






Dopo che fu andata via, io mi trovai vicino alla spada; estrassi la spada e avrei voluto sgozzarmi, a che scopo, non so, era una sciocchezza madornale, naturalmente, ma doveva essere per l'entusiasmo. Lo capisci, vero, che ci si possa ammazzare per l'entusiasmo? 

Ma non mi sgozzai, mi limitai a baciare la spada e riporla nel fodero, cosa che potevo benissimo evitare di dirti. Vedi, anche adesso, che ti raccontavo dei miei conflitti interiori, mi sono dilungato un po' per incensare me stesso. 

Ma lascia pure che sia così e che il diavolo si porti tutti quelli che spiano nell'animo umano! 

Ecco dunque l'"episodio" del passato che mi lega a Katerina Ivanovna. Adesso lo sapete tu e il fratello Ivan, soltanto voi!»
 

giovedì 22 settembre 2016

ILLUSTRATORI: William Sharp (1900 - 1961)


William Sharp

13 giugno 1900 in Lemberg, Galizien - 1. April 1961 in Queens, New York

Ha illustrato una serie di edizioni de "I Fratelli Karamazov" fra il 1943 e il 1945 per la

Modern Library, New York


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MADONNA SISTINA DI DRESDA

I QUADRI CHE DOSTOEVKIJ AMAVA:
RAFFAELLO, MADONNA SISTINA DI DRESDA, 1513-14








Anna Grigor'evna, la moglie di Dostoevskij,

nelle sue memorie 
racconta della sosta a Dresda
durante il viaggio fatto insieme al marito nel 1867:
«Fedor amava molto Dresda, per la sua famosa galleria d’arte e i magnifici giardini.
[...] Discendemmo in uno dei migliori alberghi, cambiammo d’abito, e andammo a visitare il museo, che mio marito volle farmi vedere prima di ogni altra cosa.
[...] Mio marito percorse tutte le sale senza fermarsi e mi condusse direttamente dinanzi alla Madonna Sistina.
Egli considerava questo quadro come il più grande capolavoro creato dal genio umano.
In seguito lo vidi fermo per ore intere davanti a quella visione di bellezza impareggiabile, che egli ammirava con tenerezza e trasporto».


 Gianlorenzo Pacini nel suo "Dostoevskij"(Paravia, Milano 2002) nel Dizionario, 
alla voce "Madonna Sistina" aggiunge che, sempre secondo la testimonianza della moglie, 
D."... trovava nel volto della Vergine di Raffaello un'espressione sofferente." (p. 137)

ETA' DELL'ORO

I QUADRI CHE DOSTOEVKIJ AMAVA:
CLAUDE LORRAIN,
PAESAGGIO MARINO CON ACI E GALATEA, 1657
Dostoevskij lo chiama "ETA' DELL'ORO"









Nella pinacoteca di Dresda
c'è un quadro di Claude Lorrain che, 

secondo il catalogo,
mi pare si chiami "Aci e Galatea", 

ma io l'ho sempre chiamato,
non so perché, "L'età dell'oro".

L'avevo visto altre volte e anche tre giorni prima,
nel mio ultimo passaggio da Dresda.
Questo quadro appunto mi apparve in sogno,
ma non come quadro, ma come qualcosa di vivo.


Era un angolo dell'arcipelago greco;
tenere onde azzurrine, 

isole e rocce, 
rive fiorite,
un incantato panorama 

in lontananza,
un sole invitante 

al tramonto;
con le parole non si può rendere.
Qui l'umanità europea ricorda la sua culla,
qui sono le prime scene della mitologia, 

il suo paradiso terrestre... 

Qui vissero uomini bellissimi!
Essi si alzavano e 

si addormentavano felici e innocenti;
i boschi risuonavano 

delle loro allegre canzoni,
la sovrabbondanza di forze intatte 

si spandeva 
nell'amore
e nella candida gioia.
Il sole inondava con i suoi raggi 

queste isole e questo mare, 
rallegrandosi dei suoi bellissimi figli.
Sogno prodigioso, illusione sublime!
Il sogno più incredibile di quanti ce ne siano mai stati,
ma a cui tutta l'umanità, per tutta la vita, dava la sua forza,
per cui ha sacrificato ogni cosa,
per cui sono morti in croce e sono stati uccisi i suoi profeti;
sogno senza il quale i popoli non vorrebbero vivere
e non potrebbero morire.
Tutta questa sensazione mi parve di provarla in quel sogno:
non so cosa precisamente sognassi,
ma gli scogli, il mare e i raggi obliqui del sole morente
mi pareva ancora di vederli
quando mi svegliai e aprii gli occhi,
per la prima volta in vita mia letteralmente bagnati dalle lacrime. 

Una sensazione di felicità a me ignota
mi attraversò il cuore fino a farmi male.

I Demoni - seconda parte - Cap. 9 - Confessione di Stavrogin
 — presso https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/03/Claude_Lorrain_001.jpg.
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