LIBRO IX




1. L'inizio della carriera dell'impiegato Perchotin


Il capo della polizia

2. L'allarme



Il capo della polizia

Il nostro capo della polizia, Michail Makaroviè Makarov, tenente
colonnello a riposo, ora nominato consigliere di tribunale, era un
brav'uomo, vedovo. Era venuto dalle nostre parti solo tre anni prima, ma si
era già conquistato la stima generale soprattutto per il fatto che sapeva
"tenere unita la società mondana". Riceveva ospiti in continuazione, anzi
sembrava che senza di essi non sarebbe riuscito a vivere.
Immancabilmente aveva qualcuno a pranzo, anche solo un paio di ospiti,
anche solo uno, ma senza ospiti non si sedeva neanche a tavola. Dava
anche pranzi di gala con pretesti di ogni genere, a volte anche inattesi. Le
pietanze non erano ricercate, ma abbondanti, si servivano eccellenti
pasticci di pesce, mentre i vini compensavano con la quantità la qualità,
non delle migliori. Nella camera d'ingresso aveva il biliardo inserito in un
arredamento molto decoroso, cioè addirittura con stampe di cavalli da
corsa inglesi in cornici nere lungo le pareti, il che, com'è noto, costituisce
un ornamento indispensabile nelle sale da biliardo di ogni scapolo. Ogni
sera si giocava a carte, foss'anche ad un tavolo solo. Ma molto spesso si
riuniva da lui la crema della nostra società, con tanto di mamme e figliole,
per fare quattro salti. Nonostante fosse vedovo, Michail Makaroviè
conduceva vita di famiglia, dal momento che in casa con lui abitava la
figlia, anche lei vedova da molto tempo, a sua volta madre di due ragazze,
le nipoti di Michail Makaroviè. Le ragazze erano già adulte e avevano
terminato i loro studi, erano di aspetto gradevole, di carattere allegro e,
sebbene fosse noto a tutti che non avevano dote, tuttavia attiravano a casa
del nonno uno stuolo di giovanotti del bel mondo. Nel lavoro Michail
Makaroviè non era proprio una cima, però adempiva ai suoi doveri non
peggio di tanti altri. A dirla tutta, era un uomo di cultura abbastanza
limitata e persino indolente nel comprendere i limiti del suo potere
amministrativo. Non si poteva dire che non cogliesse il senso di alcune
riforme adottate durante il regime vigente, però commetteva errori, a volte
anche molto grossolani, nella loro interpretazione e questo non già a causa
di qualche particolare incapacità da parte sua, ma semplicemente per via
della sua negligenza, perché aveva sempre troppa fretta per approfondire
qualcosa. «Ho un'anima più da soldato che da civile, io», soleva dire di sé.
Non si era nemmeno formato un'idea precisa e definitiva dei principi
fondamentali delle riforme connesse con l'emancipazione dei servi, ma ne
apprendeva qualcosa, diciamo così, di anno in anno, moltiplicando le
proprie conoscenze senza volerlo, con la pratica, e dire che anche lui era
un proprietario terriero.

Il medico

in quel momento si trovavano a casa sua a
giocare a eralaš il procuratore, il medico del nostro distretto, Varvinskij,
un giovanotto appena arrivato dalla facoltà di medicina di Pietroburgo,
dove si era laureato a pieni voti.

In seguito la gente commentò molto
e si stupì del fatto che tutti quei gentiluomini si trovassero, come a farlo
apposta, riuniti tutti insieme a casa della massima autorità esecutiva
proprio la sera del "delitto". 

E invece la cosa era andata molto
semplicemente e nel più naturale dei modi: 

la moglie di Ippolit Kirilloviè
aveva mal di denti da due giorni ed egli aveva bisogno di un posto dove
fuggire per sottrarsi ai suoi lamenti; 

il dottore, per sua stessa natura, non
era capace di trascorrere le sue serate altrimenti che al tavolo da gioco.

Il procuratore

Il procuratore invece - che in realtà era il
sostituto procuratore ma tutti da noi lo chiamavano procuratore - 
Ippolit Kirilloviè, 

era un uomo piuttosto singolare: era giovane, aveva solo
trentacinque anni, ma molto predisposto alla tisi, era sposato a una donna
molto grassa e non aveva figli, era ambizioso e suscettibile, eppure dotato
di solida intelligenza e anche di buon cuore. 

Si sarebbe detto che il suo
problema fosse quello di avere un concetto di sé molto più alto di quanto
gli consentissero le sue vere qualità. Ecco perché aveva sempre un aspetto
inquieto. 

Per di più aveva anche delle velleità di ordine superiore,
addirittura di natura artistica, per esempio tendeva a fare della psicologia,
si atteggiava a profondo conoscitore dell'animo umano, credeva di essere
particolarmente dotato nella comprensione del criminale e del suo crimine.

A questo riguardo egli si considerava piuttosto danneggiato e maltrattato
nel lavoro, ed era sempre stato convinto che là, nelle alte sfere, non
sapessero apprezzarlo e che molti gli fossero nemici. Nei momenti neri,
minacciava persino di lasciare il suo posto per darsi alla professione di
penalista. L'imprevedibile caso del parricidio dei Karamazov lo scosse
profondamente: «Un caso del quale si sarebbe molto parlato nella Russia
intera». Ma sto correndo troppo.

Il giovane giudice istruttore

Nikolaj Parfenoviè Neljudov, il nostro giovane giudice istruttore,
arrivato da Pietroburgo soltanto due mesi prima, si trovava nella camera
attigua in compagnia delle signorine. In seguito la gente commentò molto
e si stupì del fatto che tutti quei gentiluomini si trovassero, come a farlo
apposta, riuniti tutti insieme a casa della massima autorità esecutiva
proprio la sera del "delitto".

Quanto a Nikolaj Parfenoviè Neljudov, erano tre giorni che intendeva
capitare casualmente, diciamo così, a casa di Michail Makaroviè per tirare
un colpo mancino alla nipote maggiore, Ol'ga Michajlovna, dicendole che
conosceva il suo segreto, cioè che quel giorno era il suo compleanno e che
lei intendeva tenerlo nascosto di proposito in società per non essere
costretta a dare un ballo. Prevedeva un sacco di risate e di allusioni alla sua
età, che ella aveva sempre temuto che scoprissero, ma ora che lui era a
conoscenza del suo segreto, l'avrebbe riferito a tutti, l'indomani stesso e
così via. Il caro giovanotto era un gran birichino in queste cose e le nostre
signore lo soprannominavano proprio così, "birichino", e questo sembrava
piacergli molto. Egli apparteneva alla crema della società, proveniva da
una buona famiglia, aveva ricevuto una buona educazione, era di buoni
sentimenti e, sebbene fosse un buontempone, rimaneva sempre un
giovanotto bravo e ammodo. 

Era bassino, di costituzione debole e delicata.
Alle ditina bianche e sottili gli brillavano sempre alcuni anelli
eccezionalmente massicci. 

Mitja fu improvvisamente
incuriosito, così ricordava in seguito, dagli enormi anelli di quello, uno con
un'ametista, e l'altro con una pietra giallo chiaro, trasparente e di stupenda
lucentezza. 

Nell'adempimento del proprio dovere, si faceva
eccezionalmente grave, come se considerasse addirittura sacre la propria
posizione e le proprie funzioni. Aveva la particolare capacità di
sconcertare gli assassini, e i malfattori in genere, quelli di umili origini,
durante gli interrogatori e riusciva a suscitare in loro se non rispetto,
almeno stupore.

«Voi non immaginate neppure quanto ci incoraggiate con la vostra
disponibilità, Dmitrij Fëdoroviè...», cominciò a dire Nikolaj Parfenoviè
con aria animata e un'evidente soddisfazione che risplendeva 

nei suoi grandi occhi sporgenti color grigio chiaro, molto miopi, 
dai quali proprio qualche minuto prima aveva tolto gli occhiali.


3. Un'anima attraverso le tribolazioni. Tribolazione prima

Accanto e dietro di lui
c'erano gli uomini con le placche. 

Di fronte a lui, dalla parte opposta del
tavolo, sedeva Nikolaj Parfenoviè, il giudice istruttore del tribunale, che
cercava di convincerlo a bere un po' d'acqua dal bicchiere che stava sul
tavolo: «Vi darà refrigerio, vi calmerà, non abbiate paura, non vi
preoccupate», gli diceva con estrema gentilezza. 




Mitja fu improvvisamente
incuriosito, così ricordava in seguito, dagli enormi anelli di quello, uno con
un'ametista, e l'altro con una pietra giallo chiaro, trasparente e di stupenda
lucentezza. E per molto tempo, in seguito, egli ricordò con stupore come
quegli anelli lo avessero attirato irresistibilmente nel corso di tutte quelle
terribili ore di interrogatorio, tanto che, per qualche ragione, non riusciva a
distogliere lo sguardo da essi e a ignorarli, sebbene essi non avessero
assolutamente niente a che fare con la sua situazione.




A sinistra, di fianco
a Mitja, nel posto in cui all'inizio della serata era seduto Maksimov, adesso
era seduto il procuratore, mentre a destra, dove prima stava Grušen'ka,
aveva trovato posto un giovanotto rubicondo che indossava una specie di
giacca da caccia molto logora: davanti a lui c'erano carta e calamaio.
Questi risultò essere il segretario che si era portato appresso il giudice
istruttore. Il capo della polizia, invece, in quel momento si trovava presso
la finestra, nell'altro angolo della stanza, accanto a Kalganov che pure
stava seduto su una sedia presso quella stessa finestra.

appena
arrivato in città, Mitja era stato accolto molto cordialmente a casa del capo
della polizia, ma in seguito, soprattutto nell'ultimo mese, Mitja non lo
aveva frequentato quasi per nulla, e il capo della polizia, quando lo
incontrava per strada, per esempio, assumeva un'espressione visibilmente
accigliata e rispondeva al suo saluto solo per cortesia, come Mitja aveva
notato molto bene. La sua amicizia con il procuratore era ancora meno
intima, sebbene Mitja alle volte si recasse in visita di cortesia a sua moglie,
una signora nervosa e piena di strane idee, senza sapere egli stesso perché
ci andasse; ella dal canto suo lo accoglieva con gentilezza e si era
interessata a lui, per qualche ragione, fino agli ultimi giorni. Non aveva
fatto in tempo a fare conoscenza con il giudice istruttore, tuttavia lo aveva
incontrato e aveva persino scambiato due parole con lui un paio di volte, e
tutte e due le volte l'argomento di conversazione era stato il gentil sesso.

«Dmitrij Fëdoroviè, ascolta, batjuška», esordì Michail Makaroviè
rivolto a Mitja, mentre il suo volto agitato esprimeva una calda, paterna
compassione per quel disgraziato, «ho condotto io stesso la tua Agrafena
Aleksandrovna al piano di sotto e l'ho affidata alle cure delle figlie del
padrone e poi quel vecchietto, Maksimov, non la lascia un attimo, l'ho
convinta, hai capito? L'ho convinta e calmata, le ho fatto capire che adesso
tu devi dare una spiegazione e che lei non deve dare fastidio, non deve
rattristarti, altrimenti tu potresti perdere la testa e dire cose sbagliate nella
tua deposizione, capisci? Insomma, le ho parlato e lei ha capito. È una
donna intelligente, fratello, è buona, stava per inginocchiarsi a baciare le
mie mani di vecchio per implorare che ti aiutassi. Mi ha mandato lei stessa
qui da te per dirti di stare tranquillo per lei, e io devo andare, caro, io devo
andare a riferirle che anche tu sei tranquillo, che anche tu ti sei calmato e ti
sei consolato riguardo a lei. E così devi stare calmo, cerca di capire questo.
Sono stato ingiusto con lei, ella è un'anima cristiana, sì, signori, è un'anima
gentile e non è colpevole di nulla. E allora che cosa devo dirle, Dmitrij
Fëdoroviè, starete calmo o no?»
Quel brav'uomo aveva parlato anche troppo, ma il dolore di
Grušen'ka, il dolore di una creatura umana, aveva toccato il suo buon cuore
ed egli aveva persino le lacrime agli occhi. Mitja saltò in piedi e si slanciò
verso di lui:
«Perdonatemi, signori, permettete, oh, permettete!», gridò. «Avete
l'anima di un angelo, di un angelo, Michail Makaroviè, vi ringrazio per lei!
Starò calmo, calmo, starò allegro, ditele, nell'infinita bontà del vostro
cuore, che sono allegro, allegro, adesso comincerò persino a ridere
sapendo che con lei c'è un angelo custode come voi. Ben presto finirò e
non appena mi sarò liberato andrò subito da lei, vedrà, che mi aspetti!


4. Tribolazione seconda








Noterò una volta per tutte che Nikolaj Parfenoviè, arrivato solo di
recente nella nostra città, aveva nutrito sin dall'inizio una stima speciale
nei confronti di Ippolit Kirilloviè, il procuratore, e si era persino molto
affezionato a lui. Egli era praticamente l'unica persona a credere
fermamente nello straordinario talento, sia di psicologo sia di oratore, del
nostro Ippolit Kirilloviè "danneggiato nei suoi meriti di servizio", ed era
l'unico a credere ciecamente che quello fosse stato danneggiato sul serio.
Aveva sentito parlare di lui sin da quando studiava a Pietroburgo. In
compenso, il giovane Nikolaj Parfenoviè, dal canto suo sembrava l'unica
persona al mondo al quale il nostro procuratore "danneggiato" volesse
veramente bene. Durante il tragitto i due avevano fatto in tempo a mettersi
d'accordo e a raggiungere un'intesa riguardo al presente caso e adesso, a
tavolino, l'intelligenza sveglia di Nikolaj Parfenoviè coglieva al volo e
interpretava ogni indicazione, ogni movimento nel viso del suo collega più
anziano: gli bastava una mezza parola, uno sguardo, un ammiccamento.

"Questo ragazzo, Nikolaj
Parfenoviè, con il quale solo qualche giorno fa ho scambiato sciocchi
commenti sulle donne e questo procuratore malato non meritano di
ascoltare quello che gli sto raccontando", pensò con tristezza. "Che
vergogna!" "Sii paziente, umile, taci", concluse con questo verso i suoi
pensieri, ma cercò di farsi forza per proseguire il suo racconto.


5. Tribolazione terza


SMERDIAKOV

«E nessun altro sapeva di quei segnali a parte il vostro defunto
genitore, voi e il servo Smerdjakov? Nessun altro?», si informò ancora una
volta Nikolaj Parfenoviè.
«Sì, il servo Smerdjakov e poi il Cielo. Verbalizzate anche il Cielo:
potrebbe sempre tornare utile. E poi anche voi potreste trovarvi ad avere
bisogno di Dio».
Quelli ovviamente avevano già cominciato a verbalizzare, ma mentre
verbalizzavano, il procuratore, all'improvviso, come se si fosse d'un tratto
imbattuto in una nuova idea, disse:
«E allora, se anche Smerdjakov sapeva di quei segni e voi negate
nella maniera più assoluta ogni responsabilità nell'omicidio di vostro
padre, non potrebbe essere stato lui a indurre vostro padre ad aprire la
porta, dopo aver bussato quei segnali convenzionali e poi... avere
commesso il delitto?»
Mitja rivolse verso di lui uno sguardo ironico e allo stesso tempo
carico d'odio. Il suo sguardo silenzioso durò così a lungo che il procuratore
cominciò a battere le palpebre.
«Avete catturato la volpe un'altra volta!», disse infine Mitja. «Avete
agguantato quella canaglia per la coda, eh, eh! Leggo da parte a parte
dentro di voi, procuratore! Voi naturalmente pensavate che sarei saltato su
e mi sarei appigliato al vostro suggerimento per gridare a squarciagola:
"Ahi, è stato Smerdjakov, è lui l'assassino!" Ammettetelo che pensavate
questo, ammettetelo, e allora continueremo».
Ma il procuratore non lo ammise. Taceva e aspettava.
«Vi siete sbagliato, io non griderò contro Smerdjakov!», disse Mitja.
«E non sospettate minimamente di lui?»
«E voi sospettate di lui?»
«Abbiamo sospettato anche di lui».
Mitja fissò lo sguardo sul pavimento.
«Scherzi a parte», disse lui cupamente, «ascoltate: sin dall'inizio,
quasi sin dal momento in cui vi sono balzato davanti da dietro la tenda, mi
è balenato in testa questo pensiero: "Smerdjakov!" Mentre sedevo qui, a
questo tavolo, e gridavo di essere innocente di quel sangue, non facevo che
pensare e ripensare: "Smerdjakov!" E Smerdjakov non mi usciva
dall'anima. E infine adesso di punto in bianco: "Smerdjakov!", ma solo per
un attimo, poi, immediatamente dopo, ho pensato: "No, non è stato
Smerdjakov!" Non è opera sua, signori!»
«C'è qualcun altro sul quale nutrite sospetti in questo caso?», fece per
domandargli con cautela Nikolaj Parfenoviè.
«Non so chi potrebbe aver fatto una cosa del genere, la mano del
Cielo o Satana, ma... non Smerdjakov!», tagliò corto bruscamente Mitja.
«Ma cosa vi induce a dichiarare con tanta fermezza e insistenza che
non è stato lui?»
«È una mia convinzione. Un'impressione. Perché Smerdjakov è una
persona abietta per natura ed è un codardo. Anzi, non è un codardo, è il
concentrato ambulante di tutta la codardia del mondo messa insieme. È
stato generato da una gallina. Quando parlava con me tremava sempre per
la paura che io lo ammazzassi, sebbene io non abbia mai alzato un dito
contro di lui. Cadeva ai miei piedi e piangeva, baciava questi miei stivali,
letteralmente, supplicandomi di "non spaventarlo". Avete sentito? "Non
spaventarlo": ma sono queste cose da dirsi? E io che gli davo pure delle
mance. Quello è una gallina malata di mal caduco, debole di cervello, uno
che si farebbe battere da un ragazzetto di otto anni. È forse un carattere
capace di commettere un simile delitto? Non è stato Smerdjakov, signori, e
poi quello non è nemmeno attaccato ai soldi, non accettava mai le mie
mance... E poi che motivo avrebbe avuto di uccidere il vecchio? Con ogni
probabilità è suo figlio, suo figlio naturale, lo sapete questo, vero?»
«Abbiamo sentito di questa leggenda. Ma anche voi siete figlio di
vostro padre, eppure avete dichiarato a destra e a manca che volevate
ucciderlo».
«Questo è un brutto tiro! Un tiro abietto! Ma io non ho paura!
Signori, non pensate che sia troppo meschino da parte vostra dirmi
rinfacciarmi queste cose? Meschino proprio perché sono stato io stesso a
dirvelo. Non solo volevo ammazzarlo, ma avrei potuto farlo e per di più mi
sono accusato volontariamente dicendo di essere stato vicinissimo ad
ucciderlo! Ma poi non l'ho ucciso, evidentemente mi ha salvato il mio
angelo custode, ecco che cosa voi non avete preso in considerazione...
Ecco perché è meschino, meschino da parte vostra! Perché io non ho
ucciso, non ho ucciso, non ho ucciso! Mi sentite, procuratore: non ho
ucciso!»
A momenti soffocava. Da quando era iniziato l'interrogatorio non era
mai stato così agitato.
«E lui che cosa vi ha detto, signori - Smerdjakov, intendo?»,
concluse poi dopo un breve silenzio. «Se è lecito porvi la domanda».
«Voi potete farci qualsiasi domanda», rispose il procuratore in tono
freddo e severo, «qualsiasi domanda che riguardi i fatti inerenti al caso, e
noi, dal nostro canto, ve lo ripeto, siamo quasi obbligati a darvi
soddisfazione per ogni vostra domanda. Abbiamo trovato il servo
Smerdjakov che giaceva privo di conoscenza nel suo letto, in preda a un
gravissimo attacco epilettico, che si ripeteva forse per la decima volta di
seguito. Il dottore che era con noi, dopo averlo visitato, ci ha detto che
forse non avrebbe passato la notte».
«Be', in tal caso è stato il diavolo ad uccidere mio padre!», proruppe
Mitja come se fino a quel momento non avesse fatto altro che domandarsi:
"È stato Smerdjakov oppure no?"
6. Il procuratore confonde Mitia









Dopo averlo costretto a spogliarsi e a rivestirsi coll'abito prestato da Kalganov [...]


«Che pietra è quella del vostro anello?», lo interruppe all'improvviso
Mitja, come risvegliandosi da un momento di intensa riflessione e
indicando con il dito uno dei tre grossi anelli che ornavano la manina
destra di Nikolaj Parfenoviè.
«L'anello?», ripeté stupito Nikolaj Parfenoviè.
«Sì, quello là... al medio, quella con le venature che pietra è?»,
insisté Mitja capricciosamente come un bambino testardo.
«È un topazio color fumo», sorrise Nikolaj Parfenoviè, «se volete
dargli un'occhiata, me lo tolgo...»

SMERDIAKOV

Il procuratore si rivolse a Nikolaj Parfenoviè e gli disse con aria
grave:
«Mostrate pure».
«Riconoscete questo oggetto?». Di punto in bianco Nikolaj
Parfenoviè poggiò sul tavolo una voluminosa busta di carta spessa, di
formato da ufficio, sulla quale erano ancora impressi tre sigilli. Ma la busta
era vuota ed era stata lacerata da un lato. Mitja stralunò gli occhi nel
vederla.
«Questa... è questa dunque la busta di mio padre», mormorò, «quella
che conteneva tremila rubli... e se la scritta, permettete: "alla mia
gallinella"... ecco: tremila», esclamò, «tremila, vedete? »
«Certo che vediamo, ma non abbiamo trovato i soldi, era vuota, era
stata gettata per terra, vicino al letto, dietro al paravento».
Per qualche secondo Mitja restò come impietrito.
«Signori, è Smerdjakov!», gridò all'improvviso con tutta la forza che
aveva. «È stato lui ad ammazzare, lui a derubare! Soltanto lui conosceva il
nascondiglio di quella busta... È stato lui, adesso è chiaro!»
«Ma sapevate anche voi dell'esistenza di quella busta e del fatto che
veniva conservata sotto il cuscino».
«Non l'ho mai saputo: non l'avevo mai vista, questa è la prima volta
che la vedo, prima ne avevo sentito parlare solo da Smerdjakov... Solo lui
sapeva dove la teneva nascosta il vecchio, io non lo sapevo...», diceva
Mitja affannato.








«Eppure voi stesso poco fa avete testimoniato che la busta il defunto
la teneva sotto il cuscino. Avete detto proprio che si trovava sotto il
cuscino, dunque sapevate dove si trovava».
«Risulta dal verbale!», confermò Nikolaj Parfenoviè.
«È un'assurdità, non ha senso! Io non sapevo affatto dicendo che
fosse sotto il cuscino. Anzi, può essere che non si trovasse affatto sotto il
cuscino... Ho tirato a indovinare dicendo che fosse sotto il cuscino... Che
cosa dice Smerdjakov? Gli avete domandato dove si trovava la lettera?
Che cosa dice Smerdjakov? Questo è l'importante... Io ho calunniato me
stesso... Mi è scappato senza pensare che si trovasse sotto il cuscino,
mentre voi adesso... Ma, sapete, alle volte capita di dire le cose per caso ed
ecco che ti ritrovi a mentire. Ma lo sapeva soltanto Smerdjakov, soltanto
lui, Smerdjakov, e nessun altro!... Non lo aveva rivelato neanche a me
dove si trovava! Ma è stato lui, è stato lui; è stato sicuramente lui a
uccidere, adesso mi è chiaro come il sole», gridava con frenesia crescente
Mitja, ripetendosi in maniera incoerente, sempre più esasperato e accanito.
«Dovete capirlo questo e arrestarlo presto, al più presto... È stato proprio
lui a uccidere mentre io stavo fuggendo e Grigorij giaceva privo di
conoscenza, adesso è chiaro... Ha fatto i segnali e mio padre gli ha aperto...
Perché soltanto lui conosceva quei segnali, e senza segnali mio padre non
avrebbe aperto a nessuno...»
«Ma dimenticate ancora una volta la circostanza», osservò il
procuratore parlando sempre con la stessa discrezione, ma con aria quasi
trionfante, «che non c'era bisogno di dare i segnali se la porta era già
aperta quando voi eravate lì, quando vi trovavate nel giardino...»



7. Il grande segreto di Mitia. Viene fischiato

8. Le deposizioni dei testimoni. Il "marmocchio"

9. Portano via Mitia


«Aspettate», lo interruppe d'un tratto Mitja e, mosso da un
sentimento incontenibile, rivolgendosi a tutti i presenti nella stanza, disse:
«Signori, siamo tutti crudeli, siamo tutti dei mostri, tutti noi costringiamo a
piangere la gente, le madri, i neonati, ma fra tutti - che sia stabilito qui in
questo momento - fra tutti io sono il rettile più abietto! Che sia così! Ogni
giorno della mia vita, battendomi il petto, ho promesso di fare ammenda e
ogni giorno ho commesso sempre le stesse turpitudini. Adesso lo capisco,
ma a quelli come me occorre una batosta, una batosta del destino che li
catturi come al laccio e li sottometta con una forza esteriore. Non mi sarei
mai, mai sollevato da solo! Ma il tuono ha rimbombato. Accetto il
tormento dell'accusa e la pubblica ignominia, voglio soffrire e dal
tormento sarò purificato. Forse potrò purificarmi, signori, non è vero?
Tuttavia ascoltatemi per l'ultima volta: sono innocente del sangue di mio
padre! Accetto la punizione non per il fatto di averlo ucciso, ma per averlo
voluto uccidere e, forse, l'avrei davvero ucciso... Comunque ho intenzione
di combattere contro di voi e di questo vi avverto. Combatterò contro di
voi sino all'ultimo, e l'esito lo deciderà Dio! Addio, signori, non provate
rancore perché ho urlato contro di voi nel corso dell'interrogatorio, ero
ancora così sciocco allora... Tra un momento sarò un carcerato, ma adesso,
per l'ultima volta, Dmitrij Karamazov, in qualità di uomo libero, vi tende
la mano. Congedandomi da voi, mi congedo dagli uomini!

KALGANOV

«Addio, Dmitrij Fëdoroviè, addio!», si levò all'improvviso la voce di
Kalganov, saltato fuori all'improvviso da qualche parte. Giunto di corsa
presso il carro, egli tese la mano a Mitja. Era senza berretto e Mitja fece
appena in tempo ad afferrare e stringere la sua mano.
«Addio, uomo buono, non dimenticherò la vostra magnanimità!»,
gridò con fervore. Ma il carro si mise in cammino e le loro mani si
separarono. La campanella cominciò a tintinnare - portarono via Mitja.
Kalganov corse nell'andito, si sedette in un angolo, abbassò la testa,
si coprì il volto con le mani e scoppiò a piangere; rimase un bel pezzo lì
seduto a piangere, piangeva come un bambino, e non come un uomo di
vent'anni. Egli non aveva quasi dubbi sulla colpevolezza di Mitja! «Che
uomini sono questi? Che cosa possono essere gli uomini dopo questo?»,
gridava queste frasi prive di senso in uno stato di profonda afflizione,
quasi di disperazione. In quel momento non aveva nemmeno più voglia di
vivere. «Ne vale la pena? Ne vale la pena?», si domandava il giovane nella
sua amarezza.