LIBRO II

PREMESSA: L'IDEA DELLA RIUNIONE DALLO STAREC 

CAPITOLO PRECEDENTE







Fu proprio in quel periodo che ebbe luogo l'incontro o, per meglio dire, 

la riunione fra tutti i membri di quella dissestata famiglia nella cella dello starec, riunione che doveva avere una portentosa influenza su Alëša. 


 Il pretesto di quella riunione in realtà era inconsistente. 

In quel periodo il disaccordo tra Dmitrij Fëdoroviè e Fëdor Pavloviè, in merito all'eredità e alla valutazione dei beni, era arrivato a un livello intollerabile. 

I loro rapporti si erano inaspriti ed erano diventati insostenibili. 

Pare che Fëdor Pavloviè avesse lanciato per primo, e per scherzo, l'idea che tutti si riunissero nella cella dello starec Zosima, allo scopo, se non proprio di ricorrere alla sua diretta intermediazione, almeno di giungere ad un accordo in maniera più decorosa, sotto l'influenza ispiratrice e riappacificatrice della dignità e della persona dello starec. 

Dmitrij Fëdoroviè, che non aveva mai visitato né visto lo starec, pensò ovviamente che il padre in quel modo lo volesse spaventare, ma poiché si era più volte rimproverato in cuor suo di molti suoi recenti scatti d'ira nella disputa con il padre, accettò l'invito. Noteremo a proposito che egli non viveva in casa del padre, come Ivan Fëdoroviè, ma per conto proprio, all'altro capo della città. 


Accadde che anche Pëtr Aleksandroviè Miusov, che in quel periodo viveva nella nostra città, si attaccasse in modo particolare a quella idea di Fëdor Pavloviè. Liberale degli anni '40 e '50, libero pensatore e ateo, egli, forse per noia o forse per frivolo passatempo, ebbe un ruolo eccezionale in quella vicenda. Gli venne improvvisamente voglia di vedere il monastero e il "santo". Dal momento che ancora si protraevano le vecchie dispute con il monastero ed andava per le lunghe la causa sul confine fondiario dei suoi possedimenti, sui diritti di taglio nel bosco e di pesca nel fiume e via dicendo, egli si affrettò a sfruttare la situazione con la scusa di volersi mettere d'accordo di persona con il padre igumeno per vedere se fosse possibile ricomporre i loro contrasti in maniera pacifica. Avrebbero certo accolto con maggiore attenzione e considerazione un visitatore animato da tali lodevoli intenzioni, piuttosto che un semplice curioso.


 In seguito a tutte queste considerazioni, si poté organizzare una specie di pressione interna al monastero sullo starec malato che, negli ultimi tempi, non abbandonava quasi mai la cella e, a causa della malattia, non riceveva neanche i visitatori abituali. Andò a finire che lo starec dette il suo consenso e si fissò la data. 

«Chi mi ha messo a fare da giudice fra di loro?»

si limitò a commentare con un sorriso ad Alëša. 

Quando Alëša venne a sapere dell'incontro, ne fu molto turbato.


Egli capiva che, in mezzo a quei litiganti e contendenti, l'unico che potesse prendere sul serio quel convegno era senza dubbio il fratello Dmitrij

tutti gli altri sarebbero venuti con propositi fatui e forse anche offensivi nei confronti dello starec. Il fratello Ivan e Miusov sarebbero venuti mossi dalla curiosità, e probabilmente della specie più volgare, mentre suo padre sarebbe venuto forse allo scopo di recitare qualcuna delle sue farse. 

Oh, anche se non parlava, Alëša conosceva a fondo suo padre! Lo ripeto: quel ragazzo non era affatto così ingenuo come molti lo consideravano. Attendeva con apprensione la data prefissata. Senza dubbio egli si preoccupava molto, nel profondo del suo cuore, di come potessero concludersi quei disaccordi familiari. 

Nondimeno era più di tutto preoccupato per lo starec: egli trepidava per lui, per la sua fama, temeva gli oltraggi alla sua persona, soprattutto l'ironia sottile e garbata di Miusov e le mezze reticenze sprezzanti del colto Ivan: ecco come prevedeva che sarebbe andata a finire. Egli voleva quasi azzardarsi a mettere in guardia lo starec, anticipargli qualcosa sulle persone che sarebbero potute venire, ma ci ripensò e tacque.

MISSIVA A DMITRIJ

Mandò soltanto a dire al fratello Dmitrij, attraverso un conoscente, alla vigilia dell'incontro che gli voleva molto bene, e che si aspettava che lui mantenesse la promessa. 

Dmitrij stette lì a pensare, perché non riusciva assolutamente a ricordare quale promessa gli avesse fatto e rispose per lettera che avrebbe fatto del suo meglio per resistere «davanti alla bassezza», ma per quanto rispettasse profondamente lo starec e il fratello Ivan, era convinto che quell'incontro sarebbe stato un tranello per lui oppure un'indegna farsa. 

«Tuttavia, ingoierei la lingua piuttosto che mancare di rispetto a quel santo uomo che tu stimi tanto»: così concluse Dmitrij la sua missiva. Alëša non ne fu gran che sollevato. 





 I • Giungono al monastero 


 Era una magnifica giornata, mite e luminosa. Si era alla fine di agosto. L'incontro con lo starec era fissato per le undici e mezza circa, subito dopo l'ultima messa.

I nostri visitatori comunque non si degnarono di partecipare alla messa, ma arrivarono direttamente quando stavano spegnendo i lumi





LSA CARROZZA DI MIUSOV

 Giunsero in due vetture: nella prima, una lussuosa carrozza tirata da una pariglia di costosi cavalli, arrivò Pëtr Aleksandroviè Miusov in compagnia di un lontano parente, un uomo molto giovane, sui vent'anni, Pëtr Fomiè Kalganov. 

RITRATTO DI KALKANOV

Questo giovanotto stava per entrare all'Università; Miusov, presso il quale viveva in quel periodo, lo voleva indurre a seguirlo all'estero, per iscriversi all'Università di Zurigo o Jena e completare lì gli studi. 

Il giovanotto non si decideva. Egli era pensieroso e come distratto. 


Aveva un viso gradevole, una corporatura robusta ed era di statura piuttosto alta. 


Nel suo sguardo si notava una strana immobilità: al pari di tutte le persone distratte, a volte fissava a lungo le persone, senza vederle affatto.

Era taciturno e alquanto goffo, ma a volte - ma solo quando si trovava a quattr'occhi con qualcuno - egli diventava all'improvviso terribilmente loquace, infervorato e gaio e rideva a sproposito. 

Ma la sua animazione svaniva con la stessa rapidità con la quale era sopraggiunta. Era sempre vestito impeccabilmente, persino con ricercatezza; aveva già acquisito un certo patrimonio che lo rendeva indipendente e si aspettava di migliorare ancora la sua posizione. Era amico di Alëša.

LA CAROZZA DI FEDOR


In una carrozza presa a nolo, malandata, traballante ma spaziosa, tirata da una coppia di vecchi cavalli bigi a chiazze chiare, che seguiva a molta distanza la carrozza di Miusov, arrivarono Fëdor Pavloviè e il suo figliolo Ivan Fëdoroviè. Dmitrij Fëdoroviè era in ritardo, sebbene gli avessero comunicato l'ora dell'incontro il giorno prima. 

INGRESSO AL MONASTERO

I visitatori lasciarono le carrozze fuori dal recinto, alla foresteria, ed entrarono a piedi nel portone del monastero. Tranne Fëdor Pavloviè, nessuno della compagnia aveva mai visitato un monastero; Miusov non entrava in una chiesa che erano più o meno trent'anni. Egli si guardava intorno con una certa curiosità, non priva di affettata disinvoltura. Ma per la sua mente osservatrice, oltre agli edifici religiosi e di servizio, per altro abbastanza ordinari, all'interno del monastero non c'era niente da vedere. 

FEDELI E MENDICANTI




Gli ultimi fedeli stavano uscendo dalla chiesa, levandosi il berretto e segnandosi. In mezzo alla gente del popolo si notavano anche fedeli appartenenti ai ceti più alti della società: due o tre signore, un generale molto anziano; alloggiavano tutti alla foresteria. I mendicanti attorniarono subito i nostri visitatori, ma nessuno dette loro niente. Soltanto Petruša Kalganov trasse dal suo portamonete una moneta da dieci copeche e, nervoso e imbarazzato Dio solo sa perché, la allungò in tutta fretta a una vecchia, dicendo in fretta: «Dividetela equamente». Nessuno commentò questo suo gesto, quindi non c'era motivo di sentirsi in imbarazzo, eppure, notando questo, si confuse ancora di più. 







FASTIDIO DI MIUSOV PER MANCATA ACCOGLIENZA

 Una cosa era molto strana: la loro visita doveva essere attesa, e persino con una certa deferenza, infatti uno dei visitatori aveva appena fatto una donazione di mille rubli, un altro era un proprietario ricchissimo e coltissimo, dal quale, diciamo cosí, chi più chi meno, dipendevano un po' tutti per la questione della pesca nel fiume, in conseguenza della svolta che avrebbe potuto prendere il processo. Eppure non c'era nessuna personalità ufficiale ad accoglierli. Miusov guardava distrattamente le pietre sepolcrali intorno alla chiesa e avrebbe voluto commentare che quelle tombette dovevano essere costate piuttosto care ai parenti dei defunti per il privilegio di sepoltura in un posto così "sacro", ma se ne stette zitto: la sua ironia liberale stava per trasformarsi in rabbia. 

 «A chi diavolo dobbiamo rivolgerci in questa gabbia di matti?... Dobbiamo pur scoprirlo, qui il tempo passa», disse all'improvviso come parlando fra sé.


Il proprietario Maksimov

 



Ad un tratto si avvicinò loro 

un signore di mezz'età, leggermente calvo, 

con un largo soprabito estivo e gli occhietti dolci. 

Questi si levò il berretto e con un balbettio mielato si presentò a tutti come 

Maksimov, proprietario di Tula. 

Egli immediatamente si preoccupò di aiutare i nostri visitatori: 

 «Lo starec Zosima vive nell'eremo, nell'eremo isolato, a circa quattrocento passi dal monastero, oltre il boschetto, oltre il boschetto...»  

«Lo so che è oltre il boschetto», gli rispose Fëdor Pavloviè, «ma non ci ricordiamo la strada, è un bel pezzo che non ci veniamo». 

«Ecco, entrate da quel portone e poi dritto per il boschetto...per il boschetto. Venite. Se volete... anch'io... Ecco, da questa parte, da questa parte...» 

 Essi uscirono dal portone e si avviarono per il boschetto.


Il proprietario Maksimov, un uomo sulla sessantina, più che camminare correva, e si girava di sbieco per guardarli tutti con una curiosità convulsa, quasi inverosimile. 

Sembrava che gli occhi gli schizzassero fuori dalle orbite. 

 «Vedete, noi andiamo dallo starec per una faccenda nostra», osservò severamente Miusov. «Quella personalità ci ha concesso un'udienza, diciamo così, quindi, per quanto grati di averci indicato la strada, non possiamo invitarvi ad entrare insieme a noi». 

 «Io ci sono stato, ci sono stato, ci sono già stato... Un chevalier parfait!», e il proprietario schioccò le dita in aria. 

 «Chi sarebbe questo chevalier?», domandò Miusov. 

 «Lo starec, l'esimio starec, lo starec... L'onore e la gloria del monastero, Zosima. È uno starec così...» 


INVITO A PRANZO DELL'IGOUMENO

 Ma il suo discorso sconclusionato venne interrotto dal sopraggiungere di un monacello con il cappuccio sulla testa, di bassa statura, molto pallido ed emaciato. Fëdor Pavloviè e Miusov si fermarono. Il monaco, con un inchino estremamente cortese e profondo, annunciò: 

 «Dopo la visita all'eremo, il padre igumeno prega umilmente voi tutti di recarvi a pranzo da lui. All'una, non più tardi. Anche voi», disse rivolgendosi a Maksimov.

«Non mancherò!», gridò Fëdor Pavloviè contentissimo dell'invito. 

«Senz'altro. E, sapete, abbiamo tutti dato la parola di comportarci come si deve qui... E voi, Pëtr Aleksandroviè, favorirete?» 

 «Perché no? E per quale altro motivo sarei venuto qui se non per osservare tutte le loro abitudini? L'unica cosa che mi è di impiccio è proprio trovarmi in vostra compagnia, Fëdor Pavloviè...» 

 «Ma Dmitrij Fëdoroviè ancora non si vede». «E sarebbe un'ottima cosa se non venisse affatto, pensate forse che mi faccia piacere tutto questo pasticcio, e in vostra compagnia per giunta? Allora verremo a pranzo, ringraziate il padre igumeno», si rivolse al monacello. 

IL MONACO LI ACCOMPAGNA DALLO STAREC E

MAKSIMOV TORNA DALL'IGOUMENO

 «No, è mio dovere adesso condurvi dallo starec», replicò il monaco. «In questo caso, dal padre igumeno ci andrò io, dal padre igumeno», balbettò il proprietari0.

CONSIDERAZIONI IRONICHE SU MAKSIMOV

«Un vecchietto molto appiccicoso», notò Miusov a voce alta, mentre il proprietario Maksimov correva indietro alla volta del monastero. 

 «Somiglia a von Sohn», disse all'improvviso Fëdor Pavloviè. 

«Voi solo queste cose sapete... In che cosa somiglierebbe a von Sohn? L'avete forse visto con i vostri occhi, von Sohn?» 

 «Ho visto un suo ritratto. Anche se non per i lineamenti del viso, ma per qualcosa di indefinibile. È proprio la copia esatta di von Sohn. Sono sempre in grado di riconoscere le persone dalla sola fisionomia». 

 «Ah, certo, in questo siete un esperto. Soltanto che, Fëdor Pavloviè, voi stesso avete appena ricordato che abbiamo dato la nostra parola di comportarci come si deve, ricordate? Quindi vi consiglio di controllarvi. Se comincerete a fare il buffone, sappiate che non voglio assolutamente essere accomunato a voi in questa sede...Vedete che tipo è?», disse rivolgendosi al monaco. «Mi fa paura andare a far visita a gente per bene in sua compagnia».



 Sulle labbra pallide, esangui, del monacello affiorò un sorrisetto sottile e discreto, a suo modo non privo di malizia; era sin troppo evidente che egli taceva per un senso di dignità personale. 

Miusov si accigliò ancora di più. "Oh, che il diavolo li pigli tutti quanti, una facciata costruita nel corso di secoli, ma sotto sotto nient'altro che ciarlataneria e assurdità!", gli passò per la mente.


EREMITAGGIO

 «Ecco l'eremo, siamo arrivati!», gridò Fëdor Pavloviè. 

«Ma il recinto e il portone sono chiusi». E si mise a fare ampi segni di croce davanti ai santi dipinti sopra e ai lati del portone. 

 «Paese che vai, usanze che trovi», commentò. 

«Nell'eremo ci sono venticinque santi in tutto a far penitenza, si guardano l'un l'altro e mangiano cavoli. Le donne non possono oltrepassare questa soglia, ecco cosa c'è di notevole. Ed è proprio così. Solo, com'è che ho sentito che lo starec riceve le signore?», e si rivolse all'improvviso al monaco. 

DONNE IN ATTESA DELL'UDIENZA

 «Ci sono donne del popolo anche adesso qui, eccole lì vicino al portico che aspettano. E per le signore di alto rango sono state costruite proprio qui sul portico, ma al di fuori del recinto, due camerette, ecco le finestre, e lo starec, quando si sente bene, si reca a trovarle attraverso un passaggio interno, quindi oltrepassa sempre il recinto. Ecco, anche adesso, una proprietaria di Char'kov, la signora Chochlakova, lo sta aspettando con la figlia malata. Probabilmente ha promesso che sarebbe uscito per incontrarle, anche se di recente si è così indebolito che si mostra di rado anche al popolo». 

 «Così c'è una piccola scappatoia che conduce dall'eremo dritto alle signore. Non pensiate, padre santo, che voglia dire qualcosa di male, dico solo per dire. Ma sapete, sul Monte Athos, forse lo avete già sentito, non solo non sono ammesse le donne, ma non sono ammesse le creature femminili di nessun genere, galline, tacchine, vitelline...»

BATTIBECCO FRA FEDOR E MIUSOV

 «Fëdor Pavloviè, girerò sui miei tacchi e vi lascerò qui solo, e, una volta che me sarò andato io, vi sbatteranno fuori di qui, ve lo dico in anticipo». 

 «Ma che fastidio vi do, Pëtr Aleksandroviè? 


UNA VALLE DI ROSE

Guardate!», esclamò ad un tratto avanzando all'interno del recinto dell'eremo. «Guardate in che valle di rose vivono costoro!» E difatti, anche se non c'erano rose in quel momento, vi fiorivano una miriade di rari e stupendi fiori autunnali dappertutto, dovunque vi fosse un po' di spazio per piantarli. Evidentemente li curava una mano esperta. C'erano aiuole intorno alle chiese e tra le tombe. Anche la casetta di legno, ad un piano, con un portico davanti all'ingresso, nella quale si trovava la cella dello starec, era circondata da fiori. «Era tutto così con lo starec di prima, con Varsonofij? Dicono che quello non amasse l'eleganza, che saltava su e bastonava persino le signore», osservò Fëdor Pavloviè salendo sul terrazzino d'ingresso. «Lo starec Varsonofij a volte si comportava davvero in maniera strana, ma si raccontano molte fandonie sul suo conto. E poi non ha mai bastonato nessuno», replicò il monacello. «Adesso, signori, aspettate un minuto, andrò ad annunciarvi». «Fëdor Pavloviè, vi ricordo per l'ultima volta i nostri patti, mi sentite? Comportatevi bene, altrimenti ve la faccio pagare», fece in tempo a mormorargli Miusov.

«Non capisco affatto perché vi scaldiate tanto», osservò sarcasticamente Fëdor Pavloviè. «Temete per i vostri peccatucci? Infatti dicono che quello capisca dagli occhi ciò che ciascuno ha commesso. E in che gran conto tenete la loro opinione, voi, un parigino, un cittadino evoluto: mi sorprendo di voi, ecco cosa vi dico!» Ma Miusov non fece in tempo a rispondere al sarcasmo di Fëdor Pavloviè poiché furono invitati ad accomodarsi. Entrò piuttosto irritato... "Be', mi conosco, adesso sono irritato e perderò la pazienza... comincerò ad alterarmi e umilierò me stesso e le mie idee", gli passò per la mente.



2. Un vecchio buffone

LA CELLA DELLO STAREC ZOSIMA E LA PRIMA PARTE DELLA RIUNIONE


Entrarono nella stanza quasi ad un tempo con lo starec che, al loro arrivo, si era subito affacciato dalla sua cameretta. 




ACCOMPAGNATORI DELLO STAREC






Nella cella c'erano due ieromonaci dell'eremo che aspettavano lo starec da prima di loro, 
uno era il padre bibliotecario, 
l'altro era padre Paisij, 
uomo delicato di salute, sebbene non vecchio, e, come si diceva, molto colto. 
Inoltre, in piedi, in un angoletto (e così rimase per tutto il tempo della visita), era in attesa 
RAKITIN



un giovanotto sui ventidue anni, in abiti borghesi, seminarista e futuro teologo, che viveva per qualche ragione sotto la protezione del monastero e della confraternita. Era piuttosto alto, con un viso fresco, zigomi larghi, con due stretti occhi castani, intelligenti e vigili. Il suo viso esprimeva una deferenza perfetta, ma dignitosa, priva di visibile adulazione. Egli non si inchinò nemmeno a salutare gli ospiti che entravano, come se non fosse un loro pari, ma, al contrario, si trovasse in una posizione subalterna e dipendente.

 Lo starec Zosima entrò nella stanza accompagnato da un novizio e da Alëša.




SALUTI E INCHINI 

Gli ieromonaci si alzarono e lo salutarono con un inchino molto profondo, sino a sfiorare il pavimento con le dita, poi, ricevuta la benedizione, gli baciarono la mano. Dopo averli benedetti, lo starec rispose con un inchino altrettanto profondo, sfiorando anche lui il pavimento con le dita, e chiese a ciascuno di loro di essere benedetto a sua volta. L'intera cerimonia fu eseguita nella massima serietà, nient'affatto come un rito quotidiano, ma con intensa partecipazione. 

Tuttavia, Miusov ebbe l'impressione che tutto fosse fatto con l'intenzione di suggestionare. Egli stava alla testa della compagnia con la quale era entrato. Avrebbe dovuto - ci aveva pensato addirittura dalla sera prima - indipendentemente da qualunque idea, ma per semplice cortesia (poiché lì si usava fare in quel modo), avvicinarsi per ricevere la benedizione dello starec, almeno quello, se non proprio baciargli la mano. Ma, vedendo tutte quelle riverenze e quei baciamano degli ieromonaci, cambiò idea in un batter d'occhio: con aria seria e grave fece un inchino abbastanza profondo, da un uomo di mondo, e si allontanò verso una sedia. 

Nello stesso modo si comportò Fëdor Pavloviè, questa volta imitando Miusov punto per punto. Ivan Fëdoroviè si inchinò con gravità e cortesia, ma tenendo anche lui le mani ai lati del corpo, 

mentre Kalganov si confuse a tal punto che non si inchinò affatto. Lo starec abbassò la mano che stava alzando per impartire la benedizione e, inchinandosi verso di loro un'altra volta, invitò tutti ad accomodarsi. Ad Alëša affluì il sangue alle guance: provava vergogna. I suoi cattivi presentimenti si stavano avverando.



Lo starec si sedette su un divanetto di mogano, ricoperto di cuoio, di
foggia molto antica, e fece accomodare gli ospiti, eccetto i due ieromonaci,
lungo la parete opposta, tutti e quattro uno accanto all'altro, su quattro
sedie di mogano rivestite di cuoio nero molto consunto. 






Gli ieromonaci si
sedettero ai lati, uno presso la porta, l'altro vicino alla finestra. Il
seminarista, Alëša e il novizio rimasero in piedi. 




LA CELLA

La cella era molto
angusta e aveva un'aria alquanto sbiadita. Gli oggetti e i mobili, lo stretto
indispensabile, erano rozzi e miseri. Due vasi di fiori alla finestra, molte
icone in un angolo - una di esse, di enormi dimensioni, rappresentava la
Madonna e risaliva presumibilmente a un'epoca di molto anteriore allo
scisma. Dinanzi ad essa ardeva una piccola lampada. Vicino a quella
c'erano altre due icone in rivestimenti sfavillanti, e poi piccoli cherubini
scolpiti, uova di porcellana, una croce cattolica di avorio con una Mater
dolorosa che l'abbracciava, alcune incisioni straniere di grandi pittori
italiani dei secoli passati. Accanto a quelle incisioni, raffinate e di valore,
facevano bella mostra di sé alcune fra le più dozzinali litografie russe di
santi, martiri, prelati e così via, di quelle che si comprano a poche copeche
in qualsiasi fiera. C'erano anche, ma sulle altre pareti, alcuni ritratti in
litografia di vescovi russi del presente e del passato. 







Miusov lanciò una
rapida occhiata a tutta quellla "paccottiglia" e poi fissò lo sguardo dritto
sullo starec. Egli teneva in gran conto le proprie opinioni, aveva questa
debolezza, in ogni caso perdonabile se si tiene conto che aveva già
cinquant'anni - età nella quale un uomo di mondo, intelligente e agiato,
comincia sempre, a volte persino involontariamente, a nutrire un po' più di
rispetto nei confronti di se stesso.



Lo starec non gli piacque sin dal primo istante. Infatti, c'era qualcosa
nel viso dello starec che a molti, oltre che a Miusov, poteva riuscire
sgradita.[...]
DESCRIZIONNE FISICA DELLO STAREC
Infatti, c'era qualcosa nel viso dello starec che a molti, oltre che a Miusov, poteva riuscire sgradita. Era di bassa statura, curvo, con le gambe molto deboli; aveva solo sessantacinque anni ma, a causa della malattia, sembrava molto più anziano, almeno di una decina d'anni. Il suo viso rinsecchito era tutto solcato da rughette minute, particolarmente fitte intorno agli occhi. Gli occhi erano piccoli, chiari, mobili, scintillanti, come due punti luminosi. Gli erano rimasti solo alcuni ciuffetti di capelli canuti sulle tempie, la barbetta era rada e minuscola, a punta, e le labbra, che sorridevano spesso, erano sottili come due cordicelle. Il naso non era tanto lungo quanto affilato, come il becco di un uccellino.
GIUDIZIO DI MIUSOV  
"Secondo tutte le apparenze, un'animuccia perfida e piena di bieca
alterigia", venne in mente a Miusov. In generale era molto insoddisfatto
della situazione in cui si trovava.
I rintocchi dell'orologio aiutarono a cominciare la conversazione. Il
piccolo e modesto orologio a pendolo batté rapido le dodici

ORA DELL'APPUNTAMENTO - RITARDO DI MITJA


«È l'ora dell'appuntamento, esatta esatta», gridò Fëdor Pavloviè, «e mio figlio Dmitrij Fëdoroviè non si è ancora visto. Chiedo scusa per lui, santo starec!» Alëša trasalì tutto nel sentire "santo starec". «Io invece sono sempre puntuale, spacco il minuto e tengo a mente che la puntualità è la cortesia dei re...»


ALTERCO FRA FEDOR E MIUSOV

«Eppure voi non siete un re, se non mi sbaglio», borbottò Miusov, perdendo subito la pazienza. 
«Sì, questo è vero, non sono un re. Pensate, Pëtr Aleksandroviè, che questo lo sapevo da me, quant'è vero Iddio! Ma ecco che dico sempre la cosa sbagliata! Reverendo!», esclamò con repentino fervore. «Dinanzi a voi vedete un autentico buffone! Mi presento così. È una vecchia abitudine, ahimè! E se alle volte parlo a sproposito, lo faccio con uno scopo, lo scopo di divertire ed essere piacevole. Bisogna pur riuscire piacevoli, non è vero? Un sette anni fa arrivo in una cittaduzza, avevo dei piccoli affari da sbrigare, avevo formato una piccola società con certi mercantucci. Andiamo dall'ispravnik, perché dovevamo chiedergli una cosa e invitarlo a pranzare con noi. Esce l'ispravnik, un uomo alto, grasso, biondo e tetro - i soggetti più pericolosi in simili casi: è per il fegato che sono così, sì, per il fegato. Io gli dico direttamente e, sapete, con la disinvoltura dell'uomo di mondo: "Signor ispravnik, siate il nostro, per così dire, Napravnik!" "Ma quale Napravnik?", replica lui. E io mi rendo conto, dal primo mezzo secondo, di aver fatto cilecca. Lui se ne sta lì serio serio, tutto d'un pezzo e io gli dico: "L'ho detto per scherzare un po', per stare tutti allegri, siccome il signor Napravnik è il nostro famoso direttore d'orchestra russo, e noi abbiamo appunto bisogno, per l'armonia della nostra impresa, di qualcosa di simile a un direttore d'orchestra..." Diedi una spiegazione molto ragionevole del mio paragone, non vi pare? "Scusate, io sono un ispravnik e non permetto che si facciano giochi di parole sul mio titolo", dice lui, poi si gira e va via. Io lo seguo e gli urlo dietro: "Sì, è vero, siete un ispravnik, non un Napravnik!" "No, una volta che l'avete detto, ormai sono un Napravnik!", dice lui. E figuratevi che quel nostro affare andò in fumo proprio per questo! E sono proprio così, sono sempre così. Puntualmente danneggio me stesso con la mia stessa affabilità! Una volta, molti anni fa, dissi a un personaggio influente: "La vostra consorte è   
una donna molto sensibile": mi riferivo all'onestà, sapete, alle qualità morali, e lui, a bruciapelo, mi fa: "Perché, le avete fatto il solletico?" Non riuscii a trattenermi e così all'improvviso pensai di dire qualcosa di carino: "Sì, le ho fatto il solletico", ma a quel punto fu lui a farmi il solletico... Solo che è successo tanto tempo fa, e non ho più vergogna a raccontarlo: io danneggio costantemente me stesso in questo modo!» 

 «Lo state facendo anche in questo momento», borbottò Miusov con disgusto. 

 Lo starec guardava in silenzio ora l'uno ora l'altro. 

 «Davvero? Pensate, sapevo anche questo, Pëtr Aleksandroviè, e addirittura, sapete, ho avuto il presentimento che l'avrei fatto non appena avessi cominciato a parlare e, sapete, ho avuto addirittura il presentimento che sareste stato voi il primo a farmelo notare. Il momento in cui mi rendo conto che lo scherzo non mi riesce, reverendo, tutt'e due le guance cominciano ad attaccarsi alle gengive inferiori, come se avessi un crampo; questo mi accade sin dalla giovinezza, quando facevo il parassita presso i nobili e mi procuravo il pane a ufo. Io sono un buffone incallito, dalla nascita, reverendo, praticamente un puro folle; non discuto che in me possa annidarsi, reverendo, uno spirito impuro, non di grande calibro però, un spirito più importante avrebbe scelto un altro alloggio, certo nemmeno il vostro, Pëtr Aleksandroviè, visto che neanche il vostro alloggio è un gran che. In compenso credo, credo fermamente in Dio. Soltanto di recente sono stato assalito dai dubbi, ma in compenso adesso sono in attesa di sublimi parole. 

Io, reverendo, sono come il filosofo Diderot. 

Avete mai sentito, santissimo padre, di quella volta che il filosofo Diderot si presentò al metropolita Platon all'epoca dell'imperatrice Caterina? Entra e dice su due piedi: 
"Dio non esiste". Al che il grande prelato alza il dito e risponde: 
"Dice lo stolto in cuor suo: Dio non esiste!" 
Quello allora, in un batter d'occhio, scatta in piedi e grida: 
"Credo e accolgo il battesimo". E così lo battezzarono lì per lì. La principessa Daškova fece da madrina e Potëmkin da padrino...» 

 «Fëdor Pavloviè, è una cosa inammissibile! Eppure sapete benissimo che state mentendo e che questo stupido aneddoto non corrisponde al vero; perché fate il pagliaccio?», gridò Miusov con voce tremante, perdendo completamente il controllo.

«Per tutta la vita ho avuto il presentimento che non fosse vero!», esclamò con trasporto Fëdor Pavloviè. «A voi, signori, però, dirò tutta la verità - grande starec! - perdonatemi, l'ultima parte dell'aneddoto, quella sul battesimo di Diderot, l'ho inventata lì per lì, nel momento stesso in cui la raccontavo, prima non mi era mai venuta in mente. L'ho inventata per rendere l'aneddoto più piccante. 
Pëtr Aleksandroviè, io mento per riuscire più simpatico. 
Ma del resto non so neanch'io a volte perché lo faccio. 
Quanto a Diderot, ho sentito quel "dice lo stolto" una ventina di volte dai proprietari locali quand'ero giovane e vivevo a loro spese; l'ho sentito dire, fra l'altro, anche dalla vostra zietta, Pëtr Aleksandroviè, da Mavra Fominišna. Essi sono a tutt'oggi convinti che il miscredente Diderot sia andato dal metropolita Platon a disputare su Dio...» 
COLLERA DI MIUSOV
 Miusov si alzò adirato, addirittura come fuori di sé. 
Era furioso e conscio di rendersi ridicolo per questo. In realtà quello che stava avvenendo nella cella era assolutamente inaudito. 

Per quaranta o cinquanta anni, dai tempi dei primi starcy, nessun visitatore era mai entrato in quella cella senza provare un sentimento di profondissima venerazione. Nel momento stesso in cui entravano nella cella, quasi tutti gli ammessi si rendevano conto che veniva loro concesso un grande favore. Molti si gettavano in ginocchio e non si alzavano sino alla fine della visita. Molti fra i visitatori più altolocati, e anche fra i più colti, addirittura alcuni liberi pensatori, spinti dalla curiosità o da altri motivi, quando entravano in quella cella, insieme a tutti gli altri o in udienza particolare, ritenevano loro dovere primario, tutti, nessuno escluso, manifestare il più profondo rispetto e la massima delicatezza per tutto il tempo della visita, tanto più che in quel luogo il denaro non contava, ma c'erano solo da una parte amore e pietà, dall'altra pentimento e brama di risolvere qualche difficile questione dell'anima o qualche difficile momento nella vita del proprio cuore. 

Quindi la buffoneria che Fëdor Pavloviè aveva tirato fuori, così irriverente nei confronti del luogo nel quale ci si trovava, produsse negli astanti, se non altro in alcuni di loro, sconcerto e stupore. 

REAZIONI DEGLI ASTANTI

Gli ieromonaci, la cui fisionomia era rimasta inalterata, aspettavano, seri e vigili, quello che avrebbe detto lo starec, ma sembravano pronti ad alzarsi come Miusov. 

Alëša era sul punto di piangere e stava in piedi a testa bassa. 

La cosa più strana di tutte per lui era che suo fratello, Ivan Fëdoroviè, l'unico sul quale egli avesse riposto le sue speranze e l'unico che avesse una tale influenza sul padre da essere in grado di fermarlo, se ne stava seduto immobile al suo posto, con gli occhi bassi e sembrava addirittura che aspettasse, molto incuriosito, come sarebbe andata a finire la faccenda, quasi fosse uno spettatore completamente estraneo ad essa. 

Alëša non riusciva a guardare in faccia neanche Rakitin (il seminarista), che pure egli conosceva molto bene e del quale era quasi intimo: conosceva le sue idee (sebbene in tutto il monastero fosse l'unico a conoscerle).

MIUSOV SI SCUSA CON LO STAREC

 «Perdonatemi...», prese a dire Miusov rivolto allo starec, «forse anche io vi sembrerò complice di questo ignobile scherzo. Il mio errore è stato quello di credere che persino un tipo come Fëdor Pavloviè, in occasione della visita a un persona così venerabile, si rendesse conto dei propri doveri... Non immaginavo che avrei dovuto scusarmi per il fatto di essere venuto in sua compagnia...  



INTERVENTO DELLO STAREC FRA I DUE LITIGANTI

Pëtr Aleksandroviè non finì di parlare e, tutto confuso, fece per uscire dalla stanza. 

«Non inquietatevi, vi prego», lo starec si alzò all'improvviso dal suo posto sulle gambe malferme e, prendendo Pëtr Aleksandroviè per entrambe le mani, lo fece risedere al suo posto. 

«State tranquillo, vi prego. Chiedo a voi, in modo particolare, di rimanere mio ospite». Fece un inchino, si girò e si sedette di nuovo sul suo divanetto.

REPLICA DI FEDOR

 «Grande starec, ditemi: vi sto forse offendendo con la mia vivacità?», gridò ad un tratto Fëdor Pavloviè afferrando con entrambe le mani i braccioli della sedia come sul punto di fare un balzo a seconda della risposta. 

«Prego caldamente anche voi di non inquietarvi e di non sentirvi in imbarazzo», gli disse lo starec con tono suadente. «Non sentitevi in imbarazzo, ma fate come se foste a casa vostra. E, soprattutto, non vergognatevi tanto di voi stesso, giacché è da questo che deriva tutto»
«Come se fossi a casa mia? Cioè nel mio aspetto naturale? Oh, questo è molto, davvero troppo, ma l'accetto commosso! Sapete, padre benedetto, non dovreste invitarmi ad assumere il mio aspetto naturale, vi consiglio di non rischiare... non ci arrivo nemmeno io al mio aspetto naturale. Vi avviso per il vostro stesso bene. Be', il resto è ancora avvolto nelle tenebre dell'ignoto, anche se ci sono persone a cui farebbe piacere farvi una mia descrizione. Sto parlando di voi, Pëtr Aleksandroviè; quanto a voi, santissima creatura, ecco quello che vi dico: sto traboccando dall'estasi!» Si alzò e alzando le braccia in alto, recitò: «Beato il ventre che ti ha portato e le mammelle che ti hanno allattato, le mammelle soprattutto! Ora voi, con la vostra osservazione: "Non vergognatevi tanto di voi stesso perché è da questo che deriva tutto" - voi, ora, con questa osservazione mi avete trafitto da parte a parte e mi avete letto dentro. Io ho proprio l'impressione, quando sono in mezzo alla gente, di essere il più meschino di tutti e che tutti mi prendano per buffone, e così mi dico "allora lo faccio per davvero il buffone, non temo la vostra opinione perché siete tutti, dal primo all'ultimo, più meschini di me!" Ecco perché sono un buffone, per la vergogna, grande starec, per la vergogna. È solo per diffidenza che attacco briga. Infatti, se nel presentarmi alla gente mi convincessi di essere accolto da tutti come il più bravo e il più simpatico degli uomini - Signore! - che brava persona sarei! Maestro!», cadde di colpo in ginocchio. «Che cosa devo fare per conquistare la vita eterna?» Anche adesso era difficile stabilire se stesse scherzando o fosse davvero commosso. Lo starec alzò gli occhi verso di lui e disse con un sorriso: «Voi stesso da molto tempo sapete quello che dovete fare, di intelligenza ne avete a sufficienza: non abbandonatevi all'ubriachezza e al turpiloquio, non abbandonatevi alla lussuria, e soprattutto all'idolatria del denaro, chiudete le vostre bettole; se non potete chiuderle tutte, almeno due o tre. E soprattutto, sopra ogni altra cosa: non mentite». 

MENTIRE A SE STESSI

 «Vi riferite al fatto di Diderot, vero?» 
 «No, non al fatto di Diderot. La cosa più importante è che non mentiate a voi stesso. Colui che mente a se stesso e dà ascolto alla propria menzogna arriva al punto di non saper distinguere la verità né dentro se stesso, né intorno a sé e, quindi, perde il rispetto per se stesso e per gli altri. Costui, non avendo rispetto per nessuno, cessa di amare e, incapace di amare, per distrarsi e divertirsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari e nei suoi vizi tocca il fondo della bestialità, e tutto questo a causa dell'incessante menzogna nei confronti degli altri e di se stesso. Colui che mente a se stesso è più suscettibile degli altri all'offesa. Offendersi a volte è molto piacevole, non è vero? Eppure egli sa che nessuno gli ha arrecato offesa, ma che egli stesso si è inventato l'offesa e ha mentito per mettersi in mostra, ha esagerato egli stesso per creare un quadretto pittoresco, ha tratto spunto da una parola e ha fatto di un sassolino una montagna: egli sa benissimo tutto questo, tuttavia è il primo a offendersi, a offendersi per provare piacere, per assaporare una grande soddisfazione, e così finisce per nutrire autentico rancore... Ma alzatevi di lì e mettetevi seduto, ve ne prego caldamente, giacché anche questi sono gesti pieni di menzogna...»

«Uomo beato! Datemi la manina da baciare», saltò su Fëdor Pavloviè e baciò al volo la mano scarna dello starec. «È proprio piacevole offendersi, proprio così. L'avete detto così bene come non l'ho mai sentito. Proprio così, per tutta la vita non ho fatto che offendermi proprio per provare piacere, mi sono offeso per godimento estetico, perché essere offeso a volte non solo è piacevole, ma persino raffinato - ecco che cosa avete dimenticato, grande starec: raffinato! Ne prenderò nota in un quadernetto! Ho mentito, mentito spudoratamente per tutta la mia vita, ogni giorno, ogni ora. In verità sono la menzogna e il padre della menzogna! Del resto pare che non esista il padre della menzogna, mi confondo sempre con i testi, ma mi sta bene anche essere solo il figlio della menzogna. Solo che... angelo mio... su Diderot si può mentire di tanto in tanto! Diderot non fa male a nessuno, mentre altre paroline possono fare male. Grande starec, a proposito, stavo per dimenticarmene, eppure erano tre anni che mi riproponevo di venire qui a chiedere informazioni, al preciso scopo di ottenere una risposta a una certa domanda, però non permettete a Pëtr Aleksandroviè di interrompermi. 


IL SANTO DECAPITATO CHE SE NE ANDO' CON LA TESTA SOTTOBRACCIO

La domanda è questa: è vero, grande padre, che nei Èet'i-Minei si racconta, in un punto, di un santo taumaturgo che fu torturato per la fede, e, quando alla fine gli fu tagliata la testa, quello si alzò, si prese la sua testa e "baciandola amorevolmente" se ne andò, portandosela in mano e camminò a lungo, "baciandola amorevolmente". È vero o no, venerandi padri?»


 «No, non è vero», rispose lo starec. «Non esiste niente di simile in tutti i Èet'i-Minei. 
INTERVENTO DEL PADRE BIBLIOTECARIO
Di quale santo, secondo voi, si scrive questo?», domandò uno dei due ieromonaci, il padre bibliotecario. 

«Non so neanch'io di quale santo. Non ne ho la minima idea. Mi hanno tratto in inganno, me l'hanno raccontato. L'ho sentito dire e sapete chi me l'ha raccontato? 
Ecco, Pëtr Aleksandroviè Miusov, quello che or ora si è tanto alterato per Diderot, è stato proprio lui a raccontarmelo». 
TIRA IN BALLO DI NUOVO MIUSOV

«Non vi ho mai raccontato una cosa simile, anzi, io con voi non parlo mai di niente».

«È vero: non lo avete raccontato a me, ma lo avete raccontato a un gruppo di persone fra le quali mi trovavo anche io, tre anni fa. E l'ho ricordato perché con quella ridicola storia voi avete fatto vacillare la mia fede, Pëtr Aleksandroviè. Voi non lo potevate sapere né immaginare, ma io me ne ne tornai a casa sconvolto nella mia fede e da allora sono stato sempre più scosso. Sì, Pëtr Aleksandroviè, voi siete stato la causa di una grande caduta! Altro che Diderot!» Fëdor Pavloviè si era infervorato in modo patetico, sebbene ormai fosse chiaro a tutti che egli stava di nuovo recitando. Eppure Miusov era offeso a morte da quelle parole. «Che assurdità, sono tutte assurdità», borbottava, «potrei pure averlo detto una volta... ma certo non a voi. Mi è stato raccontato a mia volta. L'ho sentito a Parigi, un francese diceva che, pare, leggano questo da noi nei Èet'i-Minei, durante la messa... Era una persona molto colta, che aveva condotto uno studio specialistico sulle statistiche russe... e aveva vissuto a lungo in Russia... Io non ho letto di persona i Èet'i-Minei... e non li leggerò... Che importanza volete che abbia quello che si dice durante un pranzo?... E noi allora stavamo pranzando...» «Sì, voi pranzavate, mentre io perdevo la fede!», lo stuzzicò Fëdor Pavloviè. 

 «Che cosa volete che me ne importi della vostra fede!», gridò Miusov, ma poi si trattenne e disse con disprezzo: «Voi sporcate letteralmente tutto quello che toccate».

L'UDIENZA

Lo starec si alzò all'improvviso dal suo posto: 

«Perdonatemi, signori, se vi lascio per qualche minuto», disse rivolto a tutti gli ospiti, «ma mi aspettavano ancora prima che voi arrivaste. E voi cercate lo stesso di non mentire», soggiunse rivolgendosi a Fëdor Pavloviè con un'espressione allegra. 

Egli si mosse per uscire dalla cella, Alëša e il novizio si affrettarono ad aiutarlo a scendere dalle scale.

GRANDE DISAGIO DI ALESA 

 Alëša era senza fiato, era contento di uscire, ma era pure contento che lo starec non si fosse offeso e fosse allegro. Lo starec fece per dirigersi verso il portico per benedire quanti lo stavano aspettando. 


Ma Fëdor Pavloviè lo fermò sulla soglia della cella. 

 «Uomo santissimo!», esclamò con sentimento. «Permettete che vi baci la mano ancora una volta! No, con voi è ancora possibile parlare, è possibile vivere! Voi pensate che io menta sempre e faccia sempre il buffone in questo modo? Sappiate che l'ho fatto di proposito, per mettervi alla prova, ho fatto finta. Vi ho sottoposto ad esame per tutto il tempo per vedere se si può vivere con voi. Per vedere se, dinanzi alla vostra fierezza, c'era posto per la mia umiliazione. Vi conferisco un attestato di lode: con voi si può vivere! E adesso taccio, starò zitto per tutto il tempo. Starò seduto al mio posto, zitto zitto. Adesso, Pëtr Aleksandroviè, tocca a voi parlare, adesso siete rimasto voi la persona più importante... per una decina di minuti». 





".........

"Signori, 
c'è chi ha il cuore di Alessandro il Macedone 
e chi quello della cagnetta Fidel'ka. 
Io ho quello della cagnetta Fidel'ka".

"






L'UDIENZA

PELLEGRINE FEDELI



LE CONTADINE

Egli comprendeva benissimo che per l'anima umile del
popolo russo, estenuato dalla fatica e dal dolore, e soprattutto dalle eterne
angherie e dal costante peccato, proprio e del resto dell'umanità, non ci
poteva essere esigenza e consolazione più grandi di trovare un oggetto
sacro o un santo, cadere in ginocchio e prostrarsi davanti ad esso: «Da noi
c'è il peccato, l'ingiustizia, la tentazione, tuttavia esiste un posto sulla terra
dove c'è un santo, un essere superiore. In compenso da lui c'è giustizia, in
compenso egli conosce la verità; quindi esse non si estinguono sulla terra e
un giorno verranno anche da noi e regneranno su tutta la terra, come ci è
stato promesso». Alëša sapeva che il popolo pensa e ragiona proprio in
questo modo, egli questo lo comprendeva, e sul fatto che lo starec fosse un
santo, il difensore della giustizia divina agli occhi del popolo - egli non
aveva il minimo dubbio al pari di quei contadini in lacrime e delle loro
donne malate che protendevano i figli verso lo starec.






Nikolay Karazin, Illustratore de I fratelli Karamazov
Nikolay Karazin (1842-1908)

LE POSSIDENTI

Da "Pellegrine fedeli", Libro II, Capitolo III.
"Anche le possidenti della famiglia
Chochlakov, che pure aspettavano lo starec, erano uscite sul portico, ma in
un posto separato, destinato agli ospiti appartenenti alla nobiltà.
Erano due:
madre e figlia.


LA SIGNORA CHOCHLAKOVA

La madre, la signora Chochlakova, una signora ricca e
sempre vestita con gusto, era ancora giovane e molto avvenente, un po'
pallida, con gli occhi molto vivaci quasi perfettamente neri. 
Non aveva più
di trentatré anni, ed era vedova già da cinque.[...]
ANSIA DI MADRE E GRATITUDINE
Allo starec: "...Voi avete guarito la
mia Liza, l'avete guarita completamente, è stato quando avete pregato
accanto a lei giovedì, imponendole le mani. Siamo corse a baciare queste
mani, a esprimere i nostri sentimenti e la nostra gratitudine!»
«Come, l'ho guarita? Ma se è ancora sulla sua sedia!».
«Ma le febbri notturne sono cessate del tutto, sono già due giorni,
esattamente da giovedì», si affrettò a dire la signora nervosamente.
«E poi
le gambe sono più forti. Quando si è alzata stamattina si sentiva bene, ha
dormito tutta la notte, guardate che bel colorito che ha, guardate che
occhietti splendenti. Prima non faceva che piangere, mentre ora ride, è
allegra, felice. Oggi ha voluto assolutamente che la lasciassi stare un po' in
piedi ed è restata così un minuto intero senza alcun sostegno. Scommette
con me che tra due settimane ballerà la quadriglia.
Ho chiamato il dottore
del posto, Gercenštube, egli ha stretto le spalle e ha detto: "Sono stupito,
non mi capacito". E voi volevate che non vi disturbassimo, che non
corressimo qui a ringraziarvi? Lise, su, ringrazia, ringrazia!»

Il'ja Efimovič Repin, Portrait Of Nadezhda Repina, 1900,


5. E così sia !







6. Perché vive un tale uomo ?






https://www.mariinsky.ru/en/playbill/playbill/2013/12/3/1_1900/
spettacolo teatrale dicembre 2013 St Petersburg, Mariinsky Theatre



8. Uno scandalo