lunedì 5 luglio 2021

IVAN IN TRATTORIA: RIBELLIONE

 IV • Ribellione 







IMPOSSIBILE AMARE IL PROSSIMO

 «Devo farti una confessione», esordì Ivan, «non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. Secondo me, è impossibile amare proprio quelli che ti stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano. 

ANEDDOTO DI GIOVANNI IL LISERICORDIOSO

 Una volta ho letto da qualche parte la storia di "Giovanni il misericordioso", un santo: un viandante affamato e infreddolito andò da lui e gli chiese di riscaldarlo e quello lo fece coricare nel letto insieme a lui, lo abbracciò e prese a soffiargli nella bocca, putrida e puzzolente a causa di una terribile malattia. Io sono convinto che egli lo facesse per una lacerazione piena di falsità, per il dovere di amare che gli era stato imposto, per una penitenza che si era inflitto. 

Perché si possa amare una persona, è necessario che essa si celi alla vista, perché non appena essa mostrerà il suo viso, l'amore verrà meno». 

 «Più di una volta, lo starec Zosima ha parlato di questo», osservò Alëša; «ha anche detto che spesso il viso di un uomo, per chi è inesperto in amore, diventa un ostacolo per l'amore. Tuttavia, c'è anche molto amore nell'umanità, amore quasi comparabile a quello di Cristo, questo l'ho visto io stesso, Ivan...» 

 «Be', io non ne so niente di questo per ora e non posso capire, e, come me, una moltitudine innumerevole di uomini. La questione è se questo è dovuto alle cattive qualità degli uomini o se tale è la loro natura. Secondo me, l'amore di Cristo per gli uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero è che egli era Dio. Ma noi non siamo dèi. 

IMPOSSIBILITA' DI IMMEDESIMARSI NELL'ALTRO

 Supponiamo, per esempio, che io soffra profondamente: un'altra persona non potrà mai sapere fino a che punto io soffra, perché lui è un'altra persona e non è me, e, soprattutto, è raro che un uomo sia disposto a riconoscere in un altro un uomo che soffre (come se si trattasse di un'onorificenza). Perché non è disposto a farlo, tu che ne pensi? Perché, ad esempio, ho un cattivo odore, perché ho una faccia stupida, o perché una volta gli ho pestato un piede. E poi c'è sofferenza e sofferenza: una sofferenza degradante, umiliante come la fame, per esempio, il mio benefattore me la può ancora concedere, forse, ma quando la sofferenza è a uno stadio superiore, quando, per esempio, si soffre per un'idea, quella non me la accetterà, perché, diciamo, dandomi un'occhiata, ha visto che non ho affatto la faccia che, secondo la sua immaginazione, dovrebbe avere una persona che soffre per un'idea. E quindi egli mi priva immediatamente dei suoi favori, e non si può dire che lo faccia per cattiveria. I mendicanti, soprattutto quelli nobili, non dovrebbero mai mostrarsi, ma dovrebbero chiedere l'elemosina rimanendo nascosti dietro i giornali. 

AMARE IL PROSSIMO IN ASTRATTO

Si può amare il prossimo in astratto, a volte anche da lontano, ma da vicino è quasi sempre impossibile. Se tutto fosse come a teatro, nei balletti, dove, quando appaiono mendicanti, essi indossano stracci di seta e pizzi lacerati e chiedono l'elemosina danzando leggiadramente, be', in tal caso, li si potrebbe ancora ammirare. Ammirare, ma non amare. Ma finiamola con questo argomento. Volevo soltanto esporti il mio punto di vista. 

Volevo parlare delle sofferenze dell'umanità in generale, ma è meglio se ci soffermiamo solo sulle sofferenze dei bambini. Questo riduce le mie argomentazioni ad un decimo della loro portata, ma è meglio parlare solo dei bambini, sebbene questo non vada a mio vantaggio. 

In primo luogo, i bambini si possono amare anche da vicino, anche se sono sporchi, brutti di viso (anche se a me pare che i bambini non siano mai brutti). 

Il secondo motivo per cui non voglio parlare degli adulti è che, oltre ad essere disgustosi e incapaci di meritarsi l'amore, per loro si tratta anche della giusta punizione: hanno mangiato la mela, conoscono il bene e il male, e sono divenuti "come Dio". E continuano a mangiarla anche adesso. 

I bambini invece non hanno mangiato niente e per ora non sono colpevoli di nulla. Tu ami i bambini, Alëša? So che li ami e certo capirai per quale motivo voglio parlare solo di loro. E se anche loro soffrono terribilmente su questa terra, è ovviamente per colpa dei loro padri, sono puniti a causa dei loro padri che hanno mangiato la mela; ma questo ragionamento appartiene ad un altro mondo, ed è incomprensibile per il cuore umano qui sulla terra. Gli innocenti non devono soffrire per le colpe degli altri, soprattutto se sono innocenti come i bambini! Forse ti meraviglierò, Alëša, ma anch'io amo moltissimo i bambini. E nota bene che le persone crudeli, passionali, sensuali - la gente tipo i Karamazov, insomma - non di rado amano molto i bambini. 

I bambini, finché rimangono piccoli, diciamo fino all'età di sette anni, sono molto diversi dagli adulti: sembrano degli esseri a sé stanti, con una natura tutta propria. 

Il criminale e i bambini

Conoscevo un criminale che stava in prigione: nella sua carriera gli era capitato di sterminare intere famiglie, si introduceva nelle loro case di notte per rubare, aveva anche trucidato alcuni bambini. Eppure, mentre si trovava in prigione, nutriva uno strano attaccamento ai bambini. Non faceva altro che guardare dalla finestra della prigione i bambini che giocavano nel cortile del carcere. Ad uno di essi insegnò a salire fino alla sua finestra e così divennero grandi amici... 

Sai a quale scopo ti sto dicendo tutto questo, Alëša? Non so, ho mal di testa e sono triste». 

 «Parli con un'aria strana», notò preoccupato Alëša, «come se non fossi in te». 

VIOLENZE DI TURCHI E CIRCASSI

 «A proposito, un bulgaro che ho incontrato a Mosca di recente mi ha raccontato», proseguì Ivan Fëdoroviè, come se non avesse sentito la battuta del fratello, «delle malefatte che commettono insieme turchi e circassi da loro, in Bulgaria, per paura di una rivolta generale degli slavi: incendiano, uccidono, violentano donne e bambini, inchiodano i prigionieri agli steccati delle case per le orecchie e li lasciano lì sino al mattino successivo, e il mattino successivo li impiccano, e così via, cose inimmaginabili. La gente spesso parla di crudeltà "bestiale" dell'uomo, ma questo è terribilmente ingiusto e offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in maniera così artistica e creativa. La tigre azzanna e dilania, ma sa fare solo quello. Non le verrebbe mai in mente di prendere le persone e farle restare inchiodate per le orecchie per un'intera nottata, nemmeno se fosse in grado di fare una cosa simile. Quei turchi, fra l'altro, si divertono pure a torturare i bambini: cominciano dal recidere i feti dall'utero materno fino a lanciare in aria i neonati e infilzarli alle baionette davanti agli occhi delle madri. Anzi, fare tutto questo proprio davanti agli occhi delle madri costituisce il loro maggiore godimento. Ma ecco un'altra scena che ritengo molto interessante: un neonato in braccio alla madre tremante, tutt'intorno gli invasori turchi. Avevano escogitato un diversivo: accarezzano il bambino, ridono per farlo ridere. Ci riescono: il bambino si mette a ridere. A quel punto un turco punta la pistola a una ventina di centimentri di distanza dalla faccia del bambino. Il bambino ride allegro, allunga le manine per afferrare la pistola e ad un tratto l'artista preme il grilletto dritto in faccia al bambino e gli fa saltare la testolina. Una trovata artistica, non è vero? A proposito, si dice che i turchi amino molto i dolci». 

 «Fratello, dove vuoi andare a parare?», domandò Alëša. «Io credo che se il diavolo non esiste e se, quindi, è stato l'uomo ad inventarlo, questi l'ha creato a sua immagine e somiglianza». 

 «Proprio come ha fatto con Dio, allora». «È stupefacente il modo in cui riesci a rigirare le parole, come dice Polonio nell'Amleto», scoppiò a ridere Ivan. «Mi hai preso proprio in parola, ne sono contento. 

Il tuo deve essere un buon Dio, se l'uomo l'ha creato a sua immagine e somiglianza. Poco fa mi hai domandato dove volevo andare a parare: vedi, io sono un appassionato collezionista di certi fatterelli e, tu non ci crederai, dai giornali, dai racconti che sento, da dove capita, prendo nota e colleziono aneddoti di un certo tipo, ho già messo insieme una discreta collezione. Anche i turchi ovviamente sono entrati nella mia collezione, ma quelli sono stranieri. Ho anche delle cosucce nostrane, persino migliori di quelle turche. Sai, noi preferiamo le percosse, la verga o la frusta: sono un'istituzione nazionale. Da noi le orecchie inchiodate sono inconcepibili, siamo pur sempre europei, ma la verga e la frusta sono proprio strumenti nostrani e nessuno ce li può togliere. All'estero ormai non si usa quasi più picchiare, forse perché i costumi sono più umani o forse perché sono entrate in vigore leggi tali che nessuno osa più picchiare un altro; in compenso, però, hanno fatto ricorso ad altri mezzi nazionali, come da noi, ma, anzi, nazionali al punto tale che da noi sarebbero impensabili, sebbene credo che stiano mettendo radici anche qui, soprattutto da quando il movimento religioso ha preso piede anche fra la nostra aristocrazia. 

RICHARD, IL CONDANNATO A MORTE DI GINEVRA

Ho un delizioso opuscoletto, tradotto dal francese, nel quale si parla di come, di recente - sarà stato cinque anni fa - giustiziarono a Ginevra un criminale e assassino, di nome Richard, un ventitreenne, che, pare, si pentì e si convertì al cristianesimo proprio sul patibolo. 

Questo Richard era un figlio illegittimo che era stato regalato dai genitori, quando era solo un bambino sui sei anni, ad alcuni pastori svizzeri di montagna. Quelli lo avevano allevato perché poi lavorasse per loro. Presso di loro il ragazzo crebbe come una bestiolina, non gli insegnarono proprio nulla: anzi, all'età di soli sette anni lo mandarono già al pascolo, all'umido e al freddo, quasi senza vestiti indosso e senza cibo. E, ovviamente, nessuno aveva scrupoli o remore a comportarsi così: anzi, si sentivano nel loro pieno diritto, dal momento che Richard era stato loro donato come un oggetto ed essi non vedevano nemmeno la necessità di dargli da mangiare. 

Richard in persona testimoniò come in quegli anni, al pari del figliol prodigo del Vangelo, aveva avuto tanta voglia di mangiare il pastone che davano ai maiali destinati alla vendita, mentre invece a lui non davano nemmeno quello e lo picchiavano quando lo rubava ai maiali. Così aveva trascorso tutta l'infanzia e la giovinezza fino a quando non era cresciuto e diventato forte abbastanza per andare a fare il ladro per conto proprio. 

Il selvaggio aveva cominciato a guadagnarsi da vivere lavorando alla giornata a Ginevra. Quello che guadagnava lo spendeva tutto nel bere, viveva come un mostro e finì con l'uccidere e derubare un vecchio. Fu catturato, processato e condannato a morte. 

Non si perdono in tanti sentimentalismi da quelle parti. Una volta in prigione, fu immediatamente circondato da pastori protestanti, membri di diverse confraternite cristiane, dame di beneficenza e così via. In prigione gli insegnarono a leggere e a scrivere, cominciarono a parlargli del Vangelo, intanto facevano appello alla sua coscienza, lo convincevano, incalzavano, strigliavano, opprimevano fino a che, un bel giorno, quello confessò solennemente il suo crimine. Si convertì, scrisse egli stesso alla corte dicendo di essere un mostro, ma che alla fine il Signore lo aveva illuminato e gli aveva donato la grazia. Tutta Ginevra era in fermento, tutta la Ginevra filantropica e religiosa. Tutta la società istruita e aristocratica della città affluì alla prigione per baciare e abbracciare Richard: "Sei nostro fratello, tu hai trovato la grazia!" 

E Richard non faceva che piangere commosso: "Sì, ho trovato la grazia! Per tutta la mia infanzia e la mia giovinezza mi sono accontentato di dar da mangiare ai maiali, ma adesso anche io ho trovato la grazia, e morirò nel Signore!" "Sì, sì, Richard, muori nel Signore, tu hai versato sangue e devi morire nel Signore. Anche se non è colpa tua non aver conosciuto il Signore quando invidiavi il cibo dei maiali e quando ti picchiavano perché lo rubavi (e facevi molto male, perché non si deve rubare), ma tu hai versato sangue e devi morire!" Ed ecco che arriva l'ultimo giorno. 

Il prostrato Richard non faceva che piangere e ripetere in continuazione: "È il giorno più bello della mia vita, sto andando dal Signore!" "Sì", gridavano i pastori protestanti, i giudici e le dame di beneficenza, "è il giorno più felice della tua vita perché stai andando dal Signore!" Avanzavano tutti in processione verso il patibolo, chi in carrozza chi a piedi, tutti dietro al carretto infame nel quale trasportavano Richard. Giunsero infine al patibolo: "Muori, fratello nostro", gridavano a Richard, "muori nel Signore, giacché tu hai trovato la grazia!" 

Così, coperto dai baci dei fratelli, trascinarono al patibolo il fratello Richard, lo sistemarono sulla ghigliottina e gli troncarono la testa da fratelli, per il fatto che anche lui aveva trovato la grazia. Sì, è proprio caratteristico. Questo opuscoletto è stato tradotto in russo da qualche filantropo russo luteraneggiante di alto rango, ed è stato distribuito gratuitamente insieme a giornali e altre pubblicazioni a edificazione del popolo. Il caso di Richard è interessante in quanto è nazionale. Sebbene da noi non sarebbe assurdo tagliare la testa a qualcuno perché è diventato nostro fratello e ha trovato la grazia, tuttavia, lo ripeto, anche noi abbiamo la nostra specialità, che non è affatto da 

PERCOSSE

la cavallina di nekrasov

Il nostro passatempo storico, quello immediato e più a portata di mano è la tortura a forza di percosse. 

Nekrasov ha scritto dei versi in cui si parla di un contadino che frusta il suo cavallo con lo knut sugli occhi, "gli occhi suoi miti", e chi non ha mai visto cose del genere? È un russismo vero e proprio. Il poeta descrive una cavallina stremata sulla quale hanno posto un carico troppo pesante; essa è crollata sotto il carico e non riesce a tirarlo. Il contadino la batte, la batte selvaggiamente, la batte senza sapere che cosa sta facendo, annebbiato dalla crudeltà, la frusta senza pietà, ripetutamente: "Anche se non ne hai la forza, devi tirare il carico, a rischio di crepare, lo devi tirare!" La cavallina cerca di districarsi e quello comincia a picchiarla, indifesa com'è, sui "miti occhi" pieni di lacrime. Fuori di sé, la cavalla con uno strattone comincia a trascinare il carico, procede tremante, senza respirare, come di sbieco, sobbalzando in maniera innaturale, vergognosa - la descrizione di Nekrasov è terribile. Ma quello era solo un cavallo e Dio ha donato il cavallo proprio perché fosse battuto. Così ci hanno insegnato i tatari e ci hanno regalato lo knut per ricordarcelo. Ma si possono battere anche gli uomini. 

LA BAMBINA TORTURATA DAI GENITORI

Ed ecco che un gentiluomo, molto colto e istruito, e la sua signora picchiano la loro figlioletta, una bambina di sette anni, con le verghe - dell'episodio ho una descrizione dettagliata. Il papà era contento che la verga fosse ricoperta di rametti, "così punge di più", commentava e cominciava a picchiare la figlia. So di sicuro che certuni, quando picchiano, si infiammano ad ogni colpo fino all'eccitazione fisica, letteralmente all'eccitazione fisica, che cresce ad ogni colpo, progressivamente. Picchiano per un minuto, cinque minuti, dieci minuti, sempre di più, con una frequenza più serrata, sempre più selvaggiamente. La bambina gridava, ma poi non aveva più nemmeno la forza di gridare e respirava a fatica: "Papà, papà, paparino, paparino!" Per qualche diabolico caso, la faccenda arriva in tribunale. Si ricorre a un avvocato. È un pezzo ormai che il popolo chiama gli avvocati - gli ablakat, "coscienze a pagamento". L'avvocato protesta in difesa del suo cliente. "È un caso così semplice, un fatto di tutti i giorni, che avviene in ogni famiglia: un padre che picchia la figlia. Ed è una vergogna per i nostri tempi che un simile caso venga portato in giudizio!" La giuria, convinta dall'avvocato, si ritira ed emette una sentenza favorevole al padre. Il pubblico esplode in ovazioni perché il torturatore è stato scagionato. Ah peccato che non fossi presente! Avrei proposto di istituire una borsa di studio per onorare il nome del torturatore!... Che scenette incantevoli! 

Ma sui bambini ho episodi ancora migliori, ho raccolto molto, moltissimo materiale sui bambini russi, Alëša. 

LA BAMBINA SEVIZIATA

 C'era una bambina di cinque anni, venuta in odio al padre e alla madre, "persone rispettabilissime, di ottimo ceto sociale, ben educate e istruite." Vedi, te lo ripeto, questo gusto per la tortura dei bambini, solo dei bambini, è comume a molte persone. Con tutti gli altri membri del genere umano, questi aguzzini si comportano con benevolenza e mitezza, da europei illuminati e umani, però amano molto torturare i bambini, si può dire persino che amino i bambini in questo senso. È proprio la mancanza di difesa di quelle creature che seduce il torturatore, la fiducia angelica dei bambini, che non sanno dove andare e a chi rivolgersi: è proprio questo che infiamma l'abominevole sangue dell'aguzzino. In ogni uomo, certo, si nasconde una bestia, la bestia dell'irascibilità, la bestia dell'eccitabilità dei sensi alle grida della vittima torturata, la bestia sfrenata libera da catene, la bestia delle malattie contratte nel vizio, la gotta, le infezioni del fegato, e così via. Quella povera bambina di cinque anni fu sottoposta a sevizie di ogni genere da parte dei colti genitori. La picchiavano, la frustavano, la prendevano a calci, senza motivo, sino a ridurle il corpo a un ammasso di lividi; alla fine, si spinsero a livelli di maggiore ricercatezza: la chiudevano per tutta la notte al freddo, al gelo di una latrina e, per punirla del fatto che lei non chiamava in tempo per fare i suoi bisogni (come se una bambina di cinque anni che dorme sodo come un angioletto potesse già aver imparato a chiamare in tempo), le insudiciavano la faccia con le sue feci e la costringevano a mangiare quelle feci, ed era la madre, la madre a costringerla! E quella madre era capace di continuare a dormire, quando di notte si udivano i lamenti della povera bambina, chiusa a chiave in quel lurido postaccio! Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno facendo, si colpisce il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo di quel lurido postaccio, e piange lacrimucce insanguinate, dolci, prive di risentimento al "buon Dio", perché lo difenda? 

La capisci questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l'uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? 

Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo "buon Dio"

Non sto parlando delle sofferenze degli adulti, che hanno mangiato la mela, che vadano al diavolo e che il diavolo se li pigli tutti quanti, ma di quelle dei bambini, dei bambini! Ti sto tormentando, Alëša, sembri fuori di te. La smetto, se vuoi». «Non importa, anche io voglio soffrire», mormorò Alëša. «Ancora una scena, una soltanto, per curiosità, anche questa molto caratteristica, l'ho appena letta in una raccolta di antichità russe, nell'"Archivio" o ne "Il passato", ho dimenticato il nome, devo controllarlo. 


IL CANE DEL GENERALE

Era il periodo più cupo della servitù della gleba, ancora all'inizio del secolo; e qui un evviva al Liberatore del Popolo! All'inizio del secolo, dicevo, c'era un generale, un generale con conoscenze importanti, un ricchissimo proprietario terriero, ma uno di quelli (e pare che anche allora non ce ne fossero molti), che ritirandosi a vita privata, quasi quasi erano convinti di essersi conquistati il diritto di vita e di morte sui loro sudditi. Ce n'erano di tipi così a quei tempi. Allora il generale risiedeva nella sua proprietà di duemila anime, viveva nel lusso e spadroneggiava con i poveri vicini come se fossero i suoi parassiti e buffoni. Aveva un canile con un centinaio di cani da caccia e quasi cento custodi, tutti in uniforme e tutti a cavallo. Un giorno un servo, un ragazzino di soli otto anni, mentre giocava, lanciò una pietra e ferì una zampa del levriero preferito dal generale. "Come mai il mio cane è azzoppato?" Gli riferirono che era stato quel ragazzino a lanciargli una pietra e ferirlo a una zampa. "Ah, sei stato tu?", disse il generale squadrando il ragazzino: "Prendetelo!" Lo presero, togliendolo alla madre, e lo rinchiusero in gattabuia per tutta la notte; il mattino dopo, all'alba, il generale uscì in pompa magna per andare a caccia, in groppa al suo cavallo, attorniato dai suoi parassiti, dai cani, dai custodi e dai capocaccia, tutti a cavallo. Tutti i servi erano stati riuniti perché assistessero alla punizione, e davanti a tutti c'era la madre del bambino colpevole. Portano fuori il bambino dalla gattabuia. Era una giornata d'autunno cupa, fredda, nebbiosa, ideale per la caccia. Il generale ordina di spogliare il bambino e quello rimane tutto nudo, annichilito dal terrore, non osa mandare un grido..."Fatelo correre!", ordina il generale, "Corri, corri!", gli gridano i custodi dei cani e il bambino si mette a correre..."Prendetelo!", urla il generale e gli lanciano dietro l'intera muta di levrieri. I cani lo raggiunsero e lo dilaniarono davanti agli occhi della madre!... Credo che in seguito il generale sia stato interdetto. Allora...che cosa si meritava? La fucilazione? Che lo fucilassero per soddisfare il nostro senso morale? Parla, Alëška!» 

 «Sì, la fucilazione!», disse Alëša sommessamente, alzando lo sguardo sul fratello con una specie di sorriso pallido e forzato. 

 «Bravo!» gridò Ivan esaltato. «Se cosí hai detto, significa che... Guardalo qua, l'asceta! Anche tu hai un bel diavoletto nel cuore, Alëška Karamazov!» 

 «Ho detto un'assurdità, ma...» «Questo è il punto, proprio questo ma...», gridò Ivan. 

«Devi sapere, novizio, che le assurdità sono necessarie sulla terra. Il mondo si regge sulle assurdità e senza di esse forse non sarebbe mai accaduto niente sulla terra. Noi sappiamo quello che sappiamo!» «Che cosa sai tu?» «Io non capisco niente», proseguì Ivan come in preda al delirio, «Adesso non voglio capire nulla. Voglio attenermi ai fatti. È da un pezzo che ho deciso di non capire. Se mi viene voglia di capire qualcosa, immediatamente traviso il fatto, e invece ho deciso di attenermi ai fatti...» 

 «Perché mi metti alla prova?», gridò Alëša in un impeto di lacerante sofferenza. «Ti decidi a parlare finalmente?» 


 «Certo che parlerò, il mio scopo era proprio quello di dirti tutto. Tu mi sei caro, non voglio perderti, non voglio cederti al tuo Zosima». Ivan tacque per un po', e il suo viso si fece tutt'a un tratto molto triste. «Ascoltami: ho preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l' ambito della mia discussione. 

Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero diventati infelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro. La mia povera mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza c'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente, semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo! 

Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma qui sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi. Ho creduto e voglio vedere con i miei occhi, e se per quel giorno sarò già morto, che mi resuscitino, giacché se tutto accadesse senza di me, sarebbe troppo ingiusto. Certo non ho sofferto unicamente per concimare con me stesso, con le mie malefatte e le mie sofferenze, l'armonia futura di qualcun altro. Io voglio vedere con i miei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si alza ad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'un tratto si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religioni di questo mondo si basano su questa aspirazione, e io sono un credente. 

Ma ci sono i bambini: che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non so dare risposta. Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l'armonia futura di qualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco. Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato, ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di otto anni. Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimento universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderà in un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto, griderà: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!" Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!": allora si sarà raggiunto il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui: è proprio questo che non posso accettare. E fintanto che mi trovo sulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti. Vedi, Alëša, potrebbe accadere davvero che se vivessi fino a quel giorno o se risorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzino di suo figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli altri: "Tu sei giusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare allora. Finché c'è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stambugio, piangendo lacrime irriscattate al suo "buon Dio"! Non vale, perché quelle lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere riscattate, altrimenti non ci può essere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può riparare l'inferno in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci se c'è l'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all'acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. Non voglio insomma che la madre abbracci l'aguzzino che ha fatto dilaniare il figlio dai cani! Non deve osare perdonarlo! Che perdoni a nome suo, se vuole, che perdoni l'aguzzino per l'incommensurabile sofferenza inflitta al suo cuore di madre; ma le sofferenze del suo piccino dilaniato ella non ha il diritto di perdonarle, ella non deve osare di perdonare quell'aguzzino per quelle sofferenze, neanche se il bambino stesso gliele avesse perdonate! E se le cose stanno così, se essi non oseranno perdonare, dove va a finire l'armonia? C'è forse un essere in tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il diritto di perdonare? Non voglio l'armonia, è per amore dell'umanità che non la voglio. 

Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate. Preferisco rimanere con le mie sofferenze non vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta, anche se non dovessi avere ragione. Hanno fissato un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. 

E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto». 

 «Questa è ribellione», disse Alëša sommessamente e a capo chino. 

 «Ribellione? Non avrei voluto sentire una parola simile da te», replicò Ivan con ardore. «È impossibile vivere nella ribellione, mentre io voglio vivere. Dimmelo tu, ti sfido, rispondimi: immagina che tocchi a te innalzare l'edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si batteva il petto con il pugno, immagina che l'edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di quella bambina - accetteresti di essere l'architetto a queste condizioni? Su, dimmelo e non mentire!» 

 «No, non accetterei», disse Alëša sommessamente. 

 «E potresti accettare l'idea che gli uomini, per i quali stai innalzando l'edificio, acconsentano essi stessi a ricevere una tale felicità sulla base del sangue irriscattato di una piccola vittima e, una volta accettato questo, vivano felici per sempre?» «No, non posso accettare questa idea. Fratello», prese a dire Alëša all'improvviso con gli occhi che brillavano, «hai appena detto: c'è in tutto il mondo un essere che possa e abbia il diritto di perdonare tutto? Ma quell'essere esiste, e può perdonare tutto, tutto, qualunque peccato si sia commesso, perché egli stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto. Ti sei dimenticato di lui, su di lui si fonda l'edificio ed è a lui che grideranno: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!"» 

 «Ah, parli dell' "Unico senza peccato" e del sangue suo! No, non l'ho dimenticato, anzi mi meravigliavo che in tutto questo tempo non lo avessi ancora tirato in ballo, visto che, di solito, in tutte le discussioni, quelli dalla vostra parte mettono sempre lui davanti a tutto. Lo sai, Alëša, non ridere, ma io ho composto un poema, circa un anno fa. Se tu potessi perdere insieme a me ancora una decina di minuti, te lo racconterei, puoi?» 

 «Tu hai scritto un poema?» «No, non l'ho scritto», scoppiò a ridere Ivan, «e in vita mia non ho mai messo insieme nemmeno un paio di versi. Ma ho inventato un poema e l'ho tenuto a mente. Ero molto ispirato quando l'ho inventato. Tu sarai il mio primo lettore, anzi ascoltatore. Difatti, perché mai un autore dovrebbe lasciarsi sfuggire l'occasione di conquistare anche un solo ascoltatore?», disse Ivan sorridendo. «Vuoi che te lo racconti oppure no?» «Sono tutt'orecchi», rispose Alëša. 

 «Il mio poema s'intitola "Il Grande Inquisitore": è una cosa un po' assurda, ma voglio raccontartela».