venerdì 12 novembre 2021

XIII • Un sofista


 

XIII • Un sofista

 «Non è soltanto la mole degli indizi a rovinare il mio cliente, signori della giuria», proclamò, «no, quello che rovina realmente il mio cliente è solo un fatto: il cadavere del suo anziano genitore! Se si fosse trattato di un caso di omicidio di ordinaria amministrazione, respingereste l'accusa in considerazione dell'inconsistenza, dell'infondatezza e dell'assurdità dei fatti presi uno per uno, separatamente, o almeno esitereste a rovinare il destino di un uomo per mero pregiudizio nei suoi confronti, pregiudizio che egli - ahimè - si è pienamente meritato! Ma qui non si tratta di un semplice omicidio, ma di un parricidio! Questo delitto ispira soggezione al punto che l'inconsistenza e l'infondatezza stesse degli indizi a carico diventano meno inconsistenti e infondati persino nella mente meno prevenuta. Come assolvere un tale imputato? E se avesse davvero commesso l'omicidio e rimanesse impunito - ecco quello che sente ciascuno nel proprio cuore, quasi inconsciamente, istintivamente. Sì, è una cosa terribile versare il sangue paterno, il sangue di colui che mi ha dato la vita, di colui che mi ha amato, il sangue di colui che non ha risparmiato la sua vita per amor mio, che è stato male quando io mi ammalavo, sin da quando ero piccolo, che ha patito per rendermi felice e ha vissuto solo della mia gioia, dei miei successi! Oh, uccidere un simile padre è inconcepibile! Signori giurati, che cosa è un padre, un vero padre? Qual è il significato di questa parola così sublime? Qual è l'idea sublime in essa contenuta? Abbiamo appena indicato, almeno in parte, che cos'è un vero padre e come dovrebbe essere. Nel presente caso, nel quale siamo tutti così presi, per il quale i nostri cuori soffrono, nel presente caso, dicevo, il defunto Fëdor Pavloviè Karamazov non corrispondeva minimamente a quel concetto di padre che or ora si è affacciato al nostro cuore. Questa è la disgrazia. E infatti alcuni padri sono proprio una disgrazia. Prendiamo in esame questa disgrazia più da vicino: non dobbiamo arretrare davanti a nulla, signori della giuria, vista la decisione che vi tocca prendere. Soprattutto, non dobbiamo arretrare adesso e, per così dire, ricacciare certe idee, come bambini o donne timorose, secondo la felice espressione dell'abilissimo pubblico ministero. Ma nella sua ardente arringa il mio stimato avversario - avversario ancor prima che pronunciassi una sola parola - ha più volte esclamato: "No, non affiderò a nessuno la difesa dell'accusato, non cederò la sua difesa all'avvocato giunto da Pietroburgo, io sono l'accusa e pure la difesa!" Questo lo ha dichiarato più volte, eppure si è dimenticato di menzionare che se questo terribile imputato è stato capace, per ben ventitré anni, di serbare riconoscenza per una sola libbra di nocciole donatagli dall'unica persona che era stata gentile con lui, quando egli era ancora un bambino nella casa paterna, una siffatta persona non può aver dimenticato, in quei ventitré anni, di aver scorrazzato a piedi nudi "nel cortile sul retro della casa paterna, senza stivaletti, e con i calzoncini retti da un solo bottone", secondo la testimonianza del dottor Gercenštube, persona di grande umanità. Signori della giuria, a che scopo esaminare più da vicino questa "disgrazia" e ripetere quello che tutti sanno già! Che cosa ha trovato il mio cliente, una volta giunto da suo padre? E perché dipingere il mio cliente come un insensibile egoista, un mostro? Egli è sfrenato, selvaggio, violento, e noi lo stiamo giudicando per questo, ma chi è responsabile del suo destino, chi è responsabile del fatto che, nonostante le buone inclinazioni e il suo nobile e sensibile cuore, egli abbia ricevuto un'educazione così disdicevole? Qualcuno gli ha forse insegnato il buon senso, gli ha illuminato la mente con lo studio, lo ha amato, anche solo un pochino, nella sua infanzia? Il mio cliente è cresciuto grazie alla protezione della Provvidenza, vale a dire come una fiera selvaggia. Forse egli era animato da un vivo desiderio di vedere suo padre dopo tanti anni di lontananza; forse, ricordando la propria infanzia come in un sogno, migliaia di volte aveva ricacciato i rivoltanti fantasmi che lo perseguitavano da piccolo, e con tutta l'anima aveva desiderato di perdonare e abbracciare il padre! E invece che cosa lo aspetta? Viene accolto unicamente da cinici scherni, sospetti e cavilli riguardo al denaro oggetto di contesa; egli non ode altro che conversazioni e massime che danno il voltastomaco, pronunciate quotidianamente, "sorseggiando un cognacchino" e, infine, vede suo padre che tenta di soffiare l'amante a lui, a suo figlio, con i soldi del figlio! Oh, signori della giuria, questo è rivoltante e crudele! E quel vecchio si lamenta con tutti della mancanza di rispetto e della crudeltà del figlio, lo svergogna in pubblico, lo danneggia, lo calunnia, raccoglie le sue cambiali per mandarlo in galera! Signori giurati, queste anime, questi uomini violenti, sfrenati, dal cuore apparentemente crudele, come il mio cliente, hanno a volte - e questo accade molto di frequente in realtà - un cuore tenero, solo che non lo danno a vedere. Non ridete, non ridete a questo mio pensiero! Il mio abile opponente, poco fa, ha riso spietatamente sul conto del mio cliente menzionando la sua passione per Schiller, per "il bello e il sublime". Io non avrei riso di questo se fossi stato al suo posto, al posto dell'accusa! Sì, questi cuori - lasciate che assuma la difesa di questi cuori così spesso e così ingiustamente fraintesi - questi cuori spesso bramano la tenerezza, la bellezza, la giustizia, come in contrasto con se stessi, con la loro violenza, la loro crudeltà - bramano questi valori inconsciamente, ma li bramano davvero. Passionali e crudeli in superficie, essi, per esempio, sono capaci di amare fino alla sofferenza una donna e di amarla di un amore spirituale ed elevato. Ancora una volta, non ridete di me, ciò accade molto spesso a tali nature! Solo che non riescono a nascondere le loro passioni - a volte molto rozze - ed è questo che salta agli occhi, che viene notato, mentre l'interiorità di quegli uomini rimane celata. E invece le loro passioni si esauriscono rapidamente, invece accanto a una creatura elevata e meravigliosa, quegli uomini apparentemente rozzi e crudeli cercano la rigenerazione, l'occasione di emendarsi, di migliorare, di diventare nobili e onesti, "nobili e meravigliosi", per quanto questa espressione possa apparire ridicola. Ho appena detto che non mi sarei permesso di sfiorare la storia d'amore del mio cliente con la signorina Verchovceva, tuttavia una mezza parolina la potrei dire. Quello che abbiamo poc'anzi ascoltato non era una testimonianza, ma solo il grido frenetico di una donna assetata di vendetta, e non stava a lei - oh, no, non stava a lei - accusare lui di tradimento, perché è stata lei stessa a tradire lui per prima! Se avesse avuto un po' di tempo per pensarci, non avrebbe mai reso una tale testimonianza. Oh, non credetele! No, il mio cliente non è un mostro, come lo ha definito lei! Colui che fu crocifisso e amava l'umanità, alla vigilia della Sua crocifissione disse: "Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle affinché nessuna di esse possa smarrirsi". Neanche noi dobbiamo permettere che l'anima di un uomo possa smarrirsi! Mi sono appena domandato che cosa sia un padre e ho esclamato che questa è una parola sublime, un nome prezioso. Ma le parole, signori giurati, vanno usate onestamente e io mi azzardo a chiamare le cose con il loro nome, con la propria denominazione: un padre come il vecchio Karamazov assassinato non può essere chiamato padre, non è degno di questo nome. L'amore filiale per un padre indegno è una cosa assurda, impossibile. L'amore non può essere creato dal nulla: solo Dio può creare dal nulla. "Padri, non esacerbate i vostri figli", scrive l'apostolo con il cuore infiammato d'amore. Non è a beneficio del mio cliente che cito queste sacre parole, ma le ricordo per tutti i padri. Chi mi ha autorizzato a predicare ai padri? Nessuno, faccio il mio appello come uomo e cittadino, vivos voco! Il nostro è solo un breve passaggio su questa terra, commettiamo molte azioni malvagie e pronunciamo molte parole cattive! Allora, cogliamo questo momento buono in cui ci troviamo tutti insieme per dire l'uno all'altro una buona parola. Ecco quello che sto facendo: dal momento che mi trovo qui, sfrutterò l'opportunità che ho. Non per nulla ci è stata concessa questa tribuna dalle più alte autorità: la Russia intera ci sta ascoltando! Non sto parlando solo per i padri qui presenti, ma a tutti i padri io grido: "Padri, non esacerbate i vostri figli!" Sì, adempiamo prima noi all'ammonimento di Cristo: solo allora potremo permetterci di esigere la stessa cosa dai nostri figli. Altrimenti non siamo dei padri, ma dei nemici per i nostri figli, e loro non sono i nostri figli, ma i nostri nemici, e siamo stati noi a renderli tali. "Con la misura con la quale avrete misurato, sarà misurato anche a voi", non sono io a dirlo, questo è un precetto del Vangelo, misura con lo stesso metro con il quale misurano te. Come possiamo biasimare i nostri figli se misurano noi secondo la nostra stessa misura? Non molto tempo fa, in Finlandia, una fanciulla, una serva, è stata sospettata di aver dato segretamente alla luce un bambino. Cominciarono a sorvegliarla e in un angolo del solaio, dietro un mucchio di mattoni, trovarono il suo baule, della cui esistenza nessuno era al corrente, lo aprirono e vi trovarono il cadavere del suo figlioletto neonato che lei stessa aveva ucciso. Nello stesso baule trovarono pure i cadaveri di altri due bimbi che la donna aveva partorito e che lei aveva soppresso appena nati; fu lei stessa a confessarlo. Signori della giuria, era quella una madre per i suoi figli? Sì, è vero, li aveva generati lei, ma era una madre per loro? Qualcuno di noi oserebbe chiamarla con il sacro nome di madre? Su, siamo coraggiosi, signori della giuria, siamo persino audaci, è quasi un obbligo per noi esserlo in un momento simile e non avere timore di certi pensieri e di certe parole, come fanno le mercantesse moscovite che temono il "metallo" e lo "zolfo". No, diamo la dimostrazione che il progresso degli ultimi anni ha coinvolto anche noi, e diciamolo apertamente che colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio e se rende degno. Oh, certo, esiste anche un altro significato, un'altra interpretazione della parola "padre" secondo la quale un padre, anche se è un mostro, anche se è un nemico per i propri figli, resta pur sempre un padre per il semplice fatto di aver dato la vita ai suoi figli. Ma questo è, diciamo così, il significato mistico che non arrivo a comprendere con il mio intelletto, ma che posso solo accettare per fede, o, per meglio dire, sulla parola, al pari di molte altre cose che non comprendo ma nelle quali la religione mi impone di credere. Ma in questo caso, è qualcosa che deve rimanere fuori dalla vita reale. Nella sfera della vita reale, che ha, invero, i propri diritti, ma che pure ci impone grandi doveri e obblighi, in quella sfera, se vogliamo essere umani - e, diciamo pure, cristiani - noi dobbiamo, e siamo tenuti, ad agire unicamente secondo convinzioni giustificate dalla ragione e dall'esperienza, e che siano passate attraverso il crogiolo dell'analisi; insomma noi dobbiamo agire secondo ragione, non irrazionalmente, e non come in un sogno o nel delirio, al fine di non arrecare danno a un uomo, di non farlo soffrire e non sopprimere un essere umano. Ecco, quella sarebbe una vera azione cristiana, e non soltanto mistica, quella sarebbe un'azione razionale e autenticamente filantropica...» A questo punto in più parti dell'aula si udirono applausi scroscianti, ma Fetjukoviè agitò le mani come per implorare che lo lasciassero finire senza interruzioni. Nell'aula calò subito il silenzio assoluto. L'oratore proseguì. «Signori della giuria, voi credete che simili questioni possano sfuggire ai nostri figli - nel caso siano già grandicelli e in grado di ragionare? No, non è possibile e noi non possiamo pretendere da loro una moderazione impossibile! La vista di un padre indegno, soprattutto se confrontato con i padri, degni, degli altri ragazzi coetanei, inconsapevolmente suggerisce al giovane interrogativi inquietanti. La risposta che convenzionalmente viene data a questi interrogativi è la seguente: " Egli ti ha dato la vita, tu sei sangue del suo sangue, e quindi devi amarlo". Il giovane inconsapevolmente comincerà a riflettere: "Ma egli mi amava quando mi ha dato la vita?", si domanderà sempre più perplesso. "È stato per amor mio che mi ha generato? Egli non mi conosceva, ignorava persino il mio sesso in quel momento, in quel momento di passione, con la mente annebbiata dal vino forse, e mi ha solo trasmesso un'inclinazione al bere - ecco tutto quello che ha fatto per me... Dovrei amarlo per il solo fatto che mi ha dato la vita, quando non glien'è importato niente di me per tutto il resto della vita?" Forse, queste mie domande vi sembreranno brutali, crudeli, ma non potete esigere da una giovane mente una moderazione impossibile: "Se cacci la natura dalla porta, quella rientrerà dalla finestra", e, soprattutto, soprattutto, non dobbiamo temere il "metallo" e lo "zolfo", ma risolvere la questione così come prescrivono la ragione e l'amore per l'umanità, e non come prescrivono le concezioni mistiche. Come dovremmo risolverla allora? Ecco come: che il figlio vada dinanzi al padre e gli domandi: "Padre, dimmi: perché dovrei amarti? Padre, dimostrami che io sono tenuto ad amarti". E se quel padre sarà in grado di rispondere e di dargli una buona ragione, allora ci troviamo in presenza di una vera famiglia normale, che non si fonda su un pregiudizio mistico, ma su principi razionali, responsabili e rigorosamente umanitari. In caso contrario, se il padre non sarà in grado di dare una risposta, sarà la fine per quella famiglia: quello non è un padre e il figlio acquisirà la libertà e il diritto, da quel momento in poi, di considerarlo un estraneo e persino un nemico. La nostra tribuna, signori della giuria, deve essere una scuola di verità e di sani principi». A questo punto l'oratore fu interrotto da un battimano incontenibile e quasi frenetico. Naturalmente, non tutto il pubblico stava applaudendo, ma una buona metà. I padri e le madri presenti applaudivano. Dalla galleria, dove sedevano le signore, si udivano strilli ed esclamazioni. C'era un gran sventolio di fazzoletti. Il presidente cominciò a scampanellare con tutta la forza che aveva. Era palesemente irritato dal comportamento del pubblico, ma non si azzardava a sgomberare l'aula, come aveva minacciato. Applaudivano e sventolavano i fazzoletti all'indirizzo dell'oratore anche alcuni fra i notabili, seduti in quei posti speciali alle spalle della corte, persone di una certa età con tanto di stelle sulla marsina, tanto che, quando il fracasso si fu acquietato, il presidente della corte si limitò a ripetere la sua severa minaccia di far sgomberare l'aula e Fetjukoviè, eccitato e trionfante, continuò il suo discorso. «Signori della giuria, vi ricordate quella terribile notte, della quale si è tanto parlato oggi, in cui il figlio s'introdusse in casa del padre, scavalcando lo steccato e venne a trovarsi, infine, faccia a faccia con colui che lo aveva generato, il suo nemico e oltraggiatore. Lo ribadisco con tutte le mie forze: egli non era corso a casa del padre per via dei soldi, l'imputazione di furto è assurda, come ho avuto modo di dimostrare in precedenza. E non fu nemmeno allo scopo di uccidere che egli fece irruzione in casa del padre! Se avesse avuto quell'intenzione, egli avrebbe almeno avuto la precauzione di armarsi con anticipo; invece egli afferrò il pestello di ottone istintivamente, senza sapere neanche lui il motivo. Ammettiamo pure che egli abbia ingannato il padre con quei segnali, ammettiamo che egli sia penetrato in casa - ho già detto che non ho creduto per un solo istante a questa storia - ma ammettiamo che sia andata in questo modo. Signori della giuria, vi giuro su tutto quello che c'è di sacro, se non si fosse trattato di suo padre, ma di una persona qualsiasi che lo avesse oltraggiato, egli, dopo aver fatto il giro delle stanze ed essersi accertato che quella donna non fosse lì, sarebbe scappato via a rotta di collo, senza arrecare alcun danno al suo rivale; forse lo avrebbe anche colpito, spinto da una parte, ma niente di più, giacché non aveva né tempo né voglia di farlo: quello che voleva era solo sapere se lei fosse lì. Ma quello era il padre, suo padre - oh, in quel momento contò soltanto che fosse suo padre, l'uomo che lo aveva odiato sin da quando era bambino, che era stato il suo nemico, il suo persecutore e adesso il suo mostruoso rivale! Un sentimento d'odio lo sopraffece involontariamente, irresistibilmente, gli annebbiò la mente: tutto insorse in un momento! Fu un impulso di follia e demenza, ma anche un impulso della natura che vendicava, irresistibilmente e inconsciamente - come ogni cosa nella natura - la violazione delle sue leggi eterne. Ma neppure allora egli lo uccise - io lo affermo e lo grido ad alta voce ! - no, egli si limitò a brandire il pestello in un accesso di disgustata indignazione, senza avere l'intenzione di uccidere, senza sapere che l'avrebbe ucciso. Se non avesse avuto quel fatale pestello in mano, forse, avrebbe semplicemente atterrato suo padre, ma non l'avrebbe ucciso. Mentre fuggiva, egli non sapeva di aver ucciso il vecchio che aveva atterrato. Questo omicidio non è un omicidio. Questo omicidio non è un parricidio. No, l'omicidio di un siffatto padre, non si può chiamare parricidio. Un simile omicidio può essere assimilato a un parricidio solo per pregiudizio! Ma mi appello ancora una volta a voi, dal profondo della mia anima; ebbe davvero luogo quell'omicidio? Signori della giuria, se noi lo giudicheremo colpevole, egli dirà: "Questi uomini non hanno fatto nulla per il mio destino, per la mia crescita, niente per insegnarmi qualcosa, per rendermi migliore, per fare di me un uomo. Questi uomini non mi hanno dato da bere e da mangiare, e quando ero nudo, in prigione, non mi hanno fatto visita, eppure mi hanno mandato ai lavori forzati. Siamo pari adesso, adesso non devo loro più nulla, e non devo più nulla a nessuno, nei secoli dei secoli. Essi sono cattivi, e anch'io sarò altrettanto. Essi sono crudeli, e anch'io sarò crudele!" Ecco quello che dirà, signori giurati. E giuro che, con la vostra condanna, non farete che facilitargli il compito: alleggerirete la sua coscienza, egli maledirà il sangue da lui versato, e non lo rimpiangerà. Allo stesso tempo, voi sopprimerete in lui la possibilità di essere ancora un uomo, giacché egli rimarrà cattivo e cieco per tutta la vita. Ma volete forse condannarlo spaventosamente, terribilmente, con la punizione più terribile che si possa immaginare, e allo stesso tempo salvarlo e rigenerare la sua anima per sempre? Se è così, soffocatelo con la vostra misericordia! Voi credete, sentirete come la sua anima trasalirà e rimarrà atterrita. "Come posso sopportare questa misericordia? Come posso sopportare tanto amore? Me lo merito io?" Ecco quello che esclamerà! Oh, io conosco, conosco quel cuore, quel cuore selvaggio, ma nobile, signori della giuria. Esso si inchinerà davanti al vostro gesto, esso bramerà un sublime atto d'amore, esso s'infiammerà e risorgerà per sempre. Ci sono anime che, nella loro grettezza, accusano tutto il mondo. Se soffocherete la sua anima con la misericordia, se le darete una dimostrazione di amore, essa maledirà il suo operato, giacché in essa vi sono molti buoni impulsi. Quell'anima si schiuderà e vedrà che Dio è misericordioso e che gli uomini sono buoni e giusti. Quell'uomo sarà atterrito; egli sarà schiacciato dal rimorso e dal debito sconfinato che gli sta dinanzi d'ora in avanti. E allora non dirà: "Siamo pari", ma dirà: "Sono colpevole davanti a tutti gli uomini e sono il più indegno di tutti". Con lacrime di pentimento e di cocente, dolorosa commozione egli esclamerà: "Gli altri uomini sono migliori di me, essi hanno voluto salvarmi e non rovinarmi!" Oh, è così facile per voi compiere questo atto di misericordia, dal momento che, in assenza di alcuna prova reale, sarebbe troppo spaventoso pronunciare il verdetto: "Sì, egli è colpevole!" Meglio assolvere dieci colpevoli che punire un solo innocente! La sentite, la sentite quella voce maestosa che ci giunge dal secolo passato della nostra gloriosa storia? Tocca forse a una persona insignificante come me ricordare a voi che il compito della giustizia russa non è solo quello di stabilire il castigo, ma anche quello di salvare e rigenerare gli uomini caduti? Lasciamo che siano le altre nazioni ad attenersi al castigo e alla lettera della legge, mentre noi ci atterremo al suo spirito e al significato, alla salvezza e alla rigenerazione degli uomini caduti! E se è così, se la Russia e la sua giustizia sono davvero così, allora avanti tutta, Russia, e non cercate di spaventarci, non cercate di spaventarci con le vostre folli trojke davanti alle quali si fanno da parte con disgusto gli altri popoli! Non una trojka scatenata, ma la maestosa carrozza russa incederà, composta e trionfale, verso la sua meta. Nelle vostre mani è il destino del mio cliente, nelle vostre mani è anche il destino della giustizia russa! Voi la salverete, voi la difenderete, voi dimostrerete che ci sono uomini a guardia di essa, che essa è in buone mani!»

XII • E nemmeno omicidio

 



XII • E nemmeno omicidio 

 «Permettetemi, signori della giuria, di ricordarvi che qui è in gioco la vita di un uomo e che bisogna essere un po' più cauti. Abbiamo sentito, come ha dichiarato il pubblico ministero in persona, che fino all'ultimo momento, fino ad oggi, il giorno del processo, è stato incerto se accusare l'imputato di piena e consapevole premeditazione dell'omicidio, è stato incerto fino a quella fatale lettera da "ubriaco", che oggi è stata consegnata alla corte. "È avvenuto tutto secondo quanto aveva scritto!". Lo ripeto ancora una volta: egli si precipitò da lei, per cercare lei, unicamente per sapere dove fosse. Questo è un fatto indiscutibile. Se ella si fosse trovata in casa, egli non sarebbe corso da nessuna parte, sarebbe rimasto da lei e non avrebbe fatto quello che aveva promesso nella lettera. Egli si precipitò lì casualmente e inaspettatamente, e quella sua lettera da "ubriaco" non gli venne nemmeno in mente in quel momento. "Aveva preso il pestello però", mi si dirà. E vi ricordate quale trattato di psicologia sono stati capaci di costruire sulla base di quel semplice pestello: perché l'imputato avrebbe considerato quel pestello come un'arma, perché l'avrebbe afferrato a mo' di arma, e così via. A questo proposito mi viene in mente la più semplice delle idee: se quel pestello non fosse stato in vista, se non si fosse trovato su quel ripiano dal quale lo ha preso l'imputato, ma fosse stato riposto dentro la credenza, che cosa sarebbe accaduto? Che non avrebbe catturato l'attenzione dell'imputato in quel momento e lui sarebbe corso via senz'arma, a mani vuote e quindi, forse, non avrebbe ucciso nessuno? In quale modo posso giungere alla conclusione che quel pestello sia una prova che egli volesse armarsi, una prova della sua premeditazione? Sì, è vero, aveva sbandierato ai quattro venti che avrebbe ucciso il padre, e due giorni prima, quella sera in cui, ubriaco, aveva scritto quella lettera, se n'era stato tranquillo e aveva litigato soltanto con un commesso di bottega alla trattoria, "perché Karamazov non può fare a meno di litigare", ci è stato detto. A questo replicherò che se egli avesse davvero concepito l'idea di quell'omicidio, e, per di più, sulla base di un piano, secondo quanto aveva scritto, sicuramente non avrebbe attaccato briga nemmeno con quel commesso e, forse, non sarebbe affatto passato da quella trattoria, perché un'anima che ha concepito un tale disegno cerca la quiete, cerca di tenersi nell'ombra, di dileguarsi per non essere visto né sentito, come se volesse dire: "Dimenticatevi di me, se potete", e questo non solo per calcolo, ma per un'esigenza istintiva. Signori della giuria, la psicologia è a doppio taglio e anche noi siamo in grado di comprenderla. Quanto a tutti quegli strepiti per le trattorie durante tutto quel mese, non capita forse di sentire ragazzini o ubriaconi che all'uscita dalle osterie, litigando l'uno con l'altro, gridano: "Io ti ammazzo", eppure non ammazzano mica? E allora pure quella fatale lettera, non è forse anche quella soltanto irascibilità da ubriachi? Non è come un grido da ubriacone all'uscita di un'osteria: "Vi ammazzo, vi ammazzo tutti!"? Perché non potrebbe essere così? Perché, di grazia, dovremmo considerare quella lettera fatale per l'imputato, anziché riderci sopra? Ecco perché: perché è stato rinvenuto il cadavere del padre assassinato, perché un testimone ha visto l'imputato armato mentre fuggiva dal giardino ed è stato da questi aggredito, dunque, tutto è avvenuto secondo quanto era scritto nella lettera, ecco perché quella lettera è considerata fatale per l'imputato e non c'è da riderci sopra. Grazie a Dio, siamo arrivati al punto: "Se si trovava nel giardino, deve essere stato lui l'assassino". Su queste sole paroline: se si trovava, allora sicuramente deve, si fonda l'intero caso, l'intera accusa: "Dal momento che si trovava lì, deve essere stato lui". E se non dovesse essere stato lui, sebbene lì si trovasse? Oh, sì, ne convengo, la mole di indizi, la coincidenza di circostanze sono abbastanza eloquenti, questo è fuori di dubbio. Tuttavia, considerate tutti questi fatti separatamente, senza curarvi della loro totalità: perché, per esempio, l'accusa non vuole ammettere a nessun costo che l'imputato dica il vero quando dichiara di essere fuggito via dalla finestra della camera del padre? Ricordate il sarcasmo al quale il pubblico ministero si è lasciato andare quando parlava dei sentimenti "devoti" e rispettosi che tutto ad un tratto vengono ad animare l'imputato. Ma che ci sarebbe di strano se si fosse verificato davvero qualcosa del genere, una sorta di devozione se non proprio di rispetto filiale? "Mia madre deve aver pregato per me in quel momento", ha dichiarato il testimone durante l'istruttoria, e quindi scappò via subito dopo aver accertato che la Svetlova non era in casa del padre. "Ma non poteva averne la certezza lì, dalla finestra", ci contesta l'accusa. Perché no? La finestra era stata aperta ai segnali dell'imputato. Forse in quel momento Fëdor Pavloviè pronunciò qualche parola, si lasciò scappare un gridolino e allora l'imputato poté dedurre con certezza che la Svetlova non si trovava lì. Perché dovremmo pretendere che le cose siano andate esattamente come le immaginiamo noi, come ci siamo proposti di immaginarcele? Nella realtà possono presentarsi migliaia di particolari che eludono la capacità di osservazione del più acuto romanziere. "Sì, ma Grigorij ha visto la porta aperta, dunque l'imputato doveva essere sicuramente entrato in casa e quindi avere ucciso". A proposito di quella porta, signori della giuria... Vedete, a proposito di quella porta aperta abbiamo soltanto la testimonianza di una persona che in quel momento si trovava in una condizione un po'... Ma ammettiamo, ammettiamo pure che fosse aperta, che fosse stata aperta dall'imputato, che questi abbia mentito mosso da un istinto di autodifesa, così comprensibile nella sua posizione, ammettiamo, ammettiamo pure che si sia introdotto in casa, che si sia trovato all'interno della casa - perché mai, per il solo fatto di essere stato dentro quella casa, dovrebbe essere stato lui a uccidere? Potrebbe aver fatto irruzione, aver girato di corsa tutte le stanze, dato uno spintone al padre, avrebbe persino potuto colpirlo, ma, una volta assicuratosi che la Svetlova non c'era, avrebbe potuto fuggire contento che lei non ci fosse e di essere fuggito senza aver ucciso il padre. Proprio per questo, forse, egli saltò giù dallo steccato, un minuto più tardi, per soccorrere Grigorij dopo averlo atterrato nell'eccitazione del momento: egli era in grado di nutrire un sentimento puro, un sentimento di compassione e pietà proprio perché era sfuggito alla tentazione di uccidere il padre, perché aveva la coscienza a posto ed era felice di non aver ucciso il padre. Il pubblico ministero ci ha descritto con un'eloquenza che suscita persino orrore il terribile stato in cui si trovava l'imputato al villaggio di Mokroe, quando l'amore si era dischiuso nuovamente dinanzi a lui, invitandolo a una nuova vita, e invece gli era ormai impossibile amare, dal momento che alle spalle aveva il cadavere insanguinato del padre e davanti a sé l'esecuzione. Eppure il pubblico ministero gli ha concesso di amare, spiegando questo sentimento con la sua solita psicologia: "Lo stato di ebbrezza di quando conducono il criminale alla forca, ma gli rimane ancora molto da aspettare, eccetera, eccetera". Ma vi domando ancora una volta, signor pubblico ministero, non vi pare di aver costruito un personaggio del tutto diverso? L'imputato sarebbe davvero una persona così rozza e insensibile da poter ancora pensare all'amore e ai tentativi di raggirare la giustizia in quel momento, se davvero si fosse sporcato del sangue del padre? No, no e ancora no! Non appena egli scoprì che ella lo amava, che lo invitava a sé e gli prometteva una nuova felicità, oh, ci giurerei che egli dovette sentire l'impulso al suicidio due volte, tre volte più forte, e si sarebbe sicuramente suicidato se avesse avuto alle spalle il cadavere del padre! Oh, no, non avrebbe dimenticato dove aveva messo le pistole! Io conosco l'imputato: la spietatezza selvaggia e coriacea che l'accusa gli attribuisce non si addice al suo carattere. Si sarebbe ucciso, questo è certo; egli non si uccise proprio perché "la madre aveva pregato per lui" e il suo cuore non si era macchiato del sangue del padre. Egli si tormentava e soffriva quella notte a Mokroe solo per il vecchio Grigorij da lui aggredito, e dentro di sé supplicava Dio che il vecchio si alzasse e si riprendesse, che il colpo non fosse stato mortale e che non dovesse essere punito per quel delitto. Perché non assumere una tale interpretazione degli avvenimenti? Di quale prova schiacciante disponiamo per dire che l'imputato ci sta mentendo? Ma torneranno a dirci che c'è il cadavere del padre: se l'imputato è fuggito e non ha ucciso, chi è stato allora a uccidere il vecchio? Qui, torno a dire, risiede tutta la logica dell'accusa: chi mai può essere stato se non lui? Non abbiamo nessuno da accusare al posto suo, ci dicono. Signori della giuria, ma è proprio vero questo? È sicuramente, realmente vero che non c'è proprio nessuno da accusare al posto suo? Abbiamo sentito che l'accusa contava sulle dita tutti quelli che si trovavano o passarono in quella casa quella notte. C'erano cinque persone. Tre di queste, ne convengo, sono fuori questione: la vittima, il vecchio Grigorij e sua moglie. Dunque rimangono l'imputato e Smerdjakov ed ecco che il pubblico ministero esclama pateticamente che l'imputato accusa Smerdjakov perché non ha altri da accusare, perché se ci fosse stata una sesta persona, anche solo il fantasma di una sesta persona, l'imputato avrebbe immediatamente smesso di accusare Smerdjakov, anzi se ne sarebbe vergognato, e avrebbe accusato questa sesta persona. Ma signori della giuria, perché non giungere a una conclusione completamente opposta? Ci sono due persone: l'imputato e Smerdjakov, perché non potrei dire che voi accusate il mio cliente unicamente perché non avete nessun altro da accusare? E non avete nessuno, perché avete escluso Smerdjakov da ogni sospetto sulla base di un mero pregiudizio. Sì, è vero, Smerdjakov viene accusato soltanto dall'imputato, dai suoi due fratelli, dalla Svetlova e basta. Ma ci sono anche altri che lo accusano: ci sono vaghe voci in società su una certa questione, un certo sospetto, gira una voce oscura, si sente nell'aria una certa attesa. Infine, abbiamo la prova di una combinazione di fatti molto significativa, sebbene, devo ammetterlo, anch'essa vaga: in primo luogo, quell'attacco di epilessia proprio il giorno della catastrofe, un attacco la cui autenticità l'accusa, per qualche ragione, si è vista costretta a sostenere e difendere. Poi, l'inatteso suicidio di Smerdjakov alla vigilia del processo. Dopo di che, la non meno inattesa testimonianza, oggi, qui al processo, del maggiore dei due fratelli dell'imputato, il quale fino ad oggi aveva creduto alla colpevolezza del fratello, ed ecco che all'improvviso consegna il denaro e proclama ancora una volta il nome di Smerdjakov come quello dell'assassino! Oh, condivido la ferma convinzione della corte e del procuratore che Ivan Karamazov sia malato e soffra di febbre cerebrale, che la sua testimonianza possa essere un tentativo disperato, concepito per di più nel delirio, di salvare il fratello gettando la colpa sul defunto. Nondimeno il nome di Smerdjakov viene pronunciato e, ancora una volta, esso evoca un non so che di enigmatico. Come se ci fosse qualcosa di inespresso, signori della giuria, qualcosa di incompleto. Qualcosa che un giorno, forse, sarà espresso pienamente. Ma per il momento lasciamo stare questo argomento, ne parleremo in seguito. La corte ha deciso di proseguire la seduta, ma nel frattempo, potrei fare qualche considerazione riguardo al bozzetto di carattere del defunto Smerdjakov tracciato con tanto acume e abilità dal nostro pubblico ministero. Pur ammirando il suo talento, non posso tuttavia concordare del tutto con la sostanza di quel bozzetto. Sono andato a trovare Smerdjakov, l'ho incontrato e gli ho parlato, e lui mi ha fatto un'impressione completamente diversa. Certo, era debole di costituzione, questo è vero, ma il suo carattere, il suo animo non erano affatto così deboli come l'accusa ritiene che fossero. Soprattutto, in lui non ho trovato la minima traccia di timidezza, proprio di quella timidezza che il pubblico ministero ci ha descritto in maniera così pittoresca. Non c'era ombra di semplicità in lui: al contrario, ho riscontrato una terribile diffidenza mascherata da ingenuità, e un cervello dalle notevolissime potenzialità. Oh! L'accusa è stata molto ingenua a considerarlo una persona debole di mente. Egli ha prodotto su di me un'impressione molto precisa: mi sono congedato da lui con la convinzione che egli fosse una creatura decisamente perfida, smisuratamente ambiziosa, vendicativa e riarsa di invidia. Ho raccolto qualche informazione sul suo conto: egli detestava la propria origine, se ne vergognava, gli stridevano i denti quando gli ricordavano che era "venuto fuori dalla Smerdjascaja". Mancava di rispetto al servo Grigorij e a sua moglie, che si erano presi cura di lui quando era piccolo. Malediceva la Russia e la scherniva. Sognava di andarsene in Francia per sempre e trasformarsi in un francese. Spesso e volentieri in passato aveva dichiarato che gli mancavano i mezzi per realizzare questo progetto. Mi sembra che non amasse nessuno al di fuori di se stesso, e aveva un altissimo concetto di sé. La sua idea di civiltà si riduceva agli abiti di buona fattura, agli sparati lindi e agli stivali lucidati. Lui stesso si considerava (e ne abbiamo le prove) figlio illegittimo di Fëdor Pavloviè, e poteva ben risentirsi della propria posizione a confronto con quella dei figli legittimi del suo padrone: a loro tutto e a lui niente, a loro tutti i diritti, a loro l'eredità, mentre lui era soltanto un cuoco. Egli mi disse di aver aiutato Fëdor Pavloviè a infilare i soldi nel plico. La destinazione di quel denaro - una somma che avrebbe potuto rendere possibile la sua carriera - doveva essere certamente odiosa per lui. Per di più, egli aveva visto la somma di tremila rubli in banconote iridate fiammanti (lo interrogai a questo proposito). Oh, diffidate dal mostrare a un uomo invidioso e pieno di amor proprio una grossa somma di denaro tutta in un colpo! Ed era la prima volta che egli vedeva tanto denaro nelle mani di un uomo. L'impressione del mazzetto iridato poté avere ripercussioni negative sulla sua immaginazione, sia pure senza risultati immediati. L'abilissimo pubblico ministero, con straordinaria precisione, ci ha esposto tutti i pro e i contra dell'ipotesi di una imputazione di omicidio contro Smerdjakov e, in particolare, si è domandato quale motivo potesse avere di simulare un attacco di epilessia. Ma poteva benissimo non aver avuto motivo di simulare, l'attacco poteva essere sopraggiunto in maniera del tutto naturale e il malato poi poteva essersi ripreso. Supponiamo che il malato non fosse guarito del tutto, ma avesse avuto modo di rinvenire e riprendersi, come accade alle volte nei casi di epilessia. L'accusa domanda: in quale momento Smerdjakov avrebbe potuto compiere il delitto? Ma è facilissimo indicare quel momento. Egli poté riprendersi e svegliarsi dal sonno profondo (giacché egli stava soltanto dormendo: dopo gli attacchi di epilessia insorge sempre una profonda sonnolenza), proprio nell'istante in cui il vecchio Grigorij, afferrata la gamba dell'imputato che cercava di scavalcare lo steccato, gridava a squarciagola: "Parricida!" Quel grido eccezionale, nel silenzio e nell'oscurità, potrebbe aver svegliato Smerdjakov, che in quel momento forse aveva il sonno più leggero: potrebbe pure darsi che avesse cominciato a riaversi un'ora prima. Alzatosi dal letto, egli si dirige, quasi inconsciamente, e senza alcun preciso motivo in direzione del grido, per vedere di cosa si tratti. La sua mente è ancora annebbiata dal malore, le facoltà mentali sono ancora mezze assopite, ma eccolo in giardino: si avvicina alle finestre illuminate e sente la terribile notizia dalle labbra del padrone, che naturalmente è molto contento di vederlo. La sua immaginazione si mette subito a lavorare febbrilmente. Apprende tutti i dettagli dal padrone atterrito. Ed ecco che gradualmente, nel suo cervello sconvolto e malato, si forma un'idea terribile, ma seducente e dalla logica irresistibile: uccidere, prendere i tremila rubli e poi scaricare tutta la colpa sul signorino. A chi altri potrebbero pensare adesso se non al signorino, chi altri potrebbero accusare se non lui, egli era lì, ci sono tutte le prove! Una terribile avidità di denaro, di bottino, potrebbe avergli ghermito l'anima al pensiero di rimanere impunito. Oh, questi improvvisi e irresistibili slanci sono così comuni all'occasione e, soprattutto, sopraggiungono agli assassini che solo un attimo prima non avevano idea che avrebbero commesso un omicidio! Ed ecco che Smerdjakov potrebbe essere entrato in casa del padrone e aver eseguito il suo piano; ma con che cosa, con quale arma? Ma con la prima pietra trovata in giardino. Ma perché? Con quale scopo? Per quei tremila rubli, il suo futuro. Oh! Non sto cadendo in contraddizione: il denaro poteva benissimo esistere. E può darsi pure che Smerdjakov fosse l'unico a sapere in quale posto precisamente si trovasse in casa del padrone. "E l'involucro vuoto? E la busta lacerata sul pavimento?" Poco fa, quando il pubblico ministero, parlando di quel plico, esponeva il suo acutissimo ragionamento in base al quale solo un ladro casuale, com'era appunto Karamazov, avrebbe lasciato quel plico sul pavimento e non certo uno come Smerdjakov, che non avrebbe mai lasciato in giro una tale prova contro se stesso - ecco, allora, signori della giuria, mentre ascoltavo, mi è sembrato, tutto ad un tratto, di udire qualcosa di molto familiare. Figuratevi: ho sentito quello stesso ragionamento, quella stessa congettura - di come cioè si sarebbe comportato Karamazov con quel plico - dalle labbra stesse di Smerdjakov esattamente due giorni fa. E non solo, la cosa mi aveva molto meravigliato allora: mi era giusto sembrato che egli facesse il finto tonto, che mettesse le mani avanti, che volesse impormi quell'idea in modo che io giungessi da solo a quello stesso ragionamento, mentre lui quasi me lo suggeriva. Non ha insinuato la stessa idea anche negli inquirenti? Non ha forse insinuato questa stessa idea anche all'abilissimo procuratore? Mi diranno: e la vecchia, la moglie di Grigorij? Infatti ella ha sentito per tutta la notte gemere il malato nel letto vicino al suo. Sì, l'ha sentito, ma la sua testimonianza è estremamente inaffidabile. Ho conosciuto una signora che si lamentava amaramente di non aver chiuso occhio a causa di un cane ringhioso nel cortile. Eppure, quel povero cagnolino, come hanno accertato in seguito, aveva abbaiato solo due o tre volte nel corso di tutta la notte. Ed è naturale: una persona dorme e all'improvviso ode un gemito, si sveglia irritata che abbiano interrotto il suo sonno, ma si riaddormenta subito. Dopo un paio d'ore, si sente di nuovo quel gemito, quello si sveglia di nuovo e si riaddormenta; infine quel gemito si ode per la terza volta, sempre dopo un paio d'ore, in tutto tre volte in una notte. L'indomani il dormiente si alza e si lamenta che qualcuno non ha fatto che gemere tutta la notte, svegliandolo in continuazione. Ed è normale che abbia questa impressione; negli intervalli fra un gemito e l'altro, di circa due ore, egli ha dormito e non lo ricorda, si ricorda invece soltanto dei momenti in cui è stato svegliato, e quindi gli sembra di essere stato svegliato in continuazione tutta la notte. Ma perché, perché Smerdjakov non ha confessato nel messaggio scritto in punto di morte? "La coscienza lo ha indotto a fare una cosa e non l'altra". Ma di grazia: la coscienza implica pentimento, e l'omicida poteva non provare pentimento, ma solo disperazione. La disperazione e il pentimento sono due cose completamente diverse. La disperazione può essere vendicativa e aliena dal desiderio di riconciliazione e il suicida, nel momento in cui colpiva se stesso, poteva avere doppiamente in odio coloro che aveva invidiato per tutta la vita. Signori della giuria, guardatevi da un errore giudiziario! Che cosa c'è di improbabile in tutto quello che vi ho or ora esposto e descritto? Cercate un errore nella mia esposizione, cercate qualcosa di impossibile, di assurdo. Se però c'è soltanto un'ombra di possibilità, anche solo un'ombra di verosimiglianza nelle mie supposizioni, astenetevi dal condannarlo. Ma nel nostro caso c'è forse solo un'ombra di probabilità? Vi giuro su quello che ho di più sacro che credo fermamente nella versione del delitto che vi ho appena esposto. Ma soprattutto, soprattutto, mi turba e mi rende furioso il pensiero che di tutta quella massa di circostanze accumulate dal pubblico ministero contro l'imputato, non ce ne sia una, una sola, che sia, anche solo in parte, certa e inconfutabile: eppure quel disgraziato rischia di essere rovinato da quella mole di fatti. Sì, quella mole è terribile; quel sangue, quel sangue che grondava dalle dita, la biancheria insanguinata, quella notte scura lacerata dal grido "Parricida!", e quell'uomo che urla, che cade con il cranio fracassato, e poi quella massa di versioni, testimonianze, gesti, grida - oh, tutto questo può influenzare, può falsare il giudizio, ma il vostro, il vostro giudizio, signori della giuria, può falsarlo? Ricordatevi, vi è stato attribuito un potere assoluto, il potere di sciogliere o di legare. Ma tanto più forte è il potere, tanto più terribile la sua applicazione! Non rinnego una parola di quello che ho detto finora, ma ammettiamo, ammettiamo per un solo momento che io convenga con l'accusa sul fatto che il mio disgraziato cliente si sia macchiato le mani del sangue di suo padre. È solo un'ipotesi, lo ripeto, io non ho dubitato nemmeno per un istante della sua innocenza, ma sopponiamo che l'imputato, mio cliente, sia colpevole di parricidio: ascoltate bene quello che vi dico, nel caso ammettessi una tale ipotesi. Nel cuore ho ancora qualcosa da dirvi, perché sento che pure nei vostri cuori e nelle vostre menti ci deve essere un profondo conflitto... Perdonatemi se parlo così della vostra mente e dei vostri cuori, signori della giuria. Ma voglio essere schietto e sincero fino all'ultimo. Anzi, vorrei che tutti noi fossimo sinceri!...» A quel punto l'avvocato difensore fu interrotto da un applauso piuttosto forte. Infatti, egli aveva pronunciato queste ultime parole con una nota di sincerità così intensa che tutti, probabilmente, pensarono che egli avesse davvero qualcosa da dire e che quello che avrebbe detto in quel momento sarebbe stata la cosa più importante. Ma il presidente a quell'applauso minacciò ad alta voce di far "sgombrare" l'aula se si fosse ripetuto "un simile incidente". Calò il silenzio assoluto e Fetjukoviè proseguì con un tono di voce nuovo, vibrante di sentimento, completamente diverso da quello con cui aveva parlato fino a quel momento.





XI • Niente soldi, niente furto


 XI • Niente soldi, niente furto 


 Ci fu un punto nell'arringa del difensore che colpì tutti: egli negò categoricamente l'esistenza di quei fatali tremila rubli e, dunque, anche la possibilità che essi fossero stati rubati. «Signori della giuria», esordì, «nel presente caso una peculiarità molto caratteristica colpisce l'osservatore nuovo e libero da preconcetti, e cioè: l'imputazione di furto da una parte, e dall'altra, la totale impossibilità di dimostrare che qualcosa sia stato effettivamente rubato. Si dice che sia stato rubato del denaro, tremila rubli per la precisione, ma se quei tremila rubli esistessero davvero, nessuno può dirlo. Giudicate da voi: in primo luogo, in che modo abbiamo appreso che esistevano quei tremila rubli e chi li ha visti? Solo il servo Smerdjakov li aveva visti con i propri occhi e ha testimoniato che essi erano stati infilati nel plico con la scritta. Sempre Smerdjakov aveva informato dell'esistenza di quel plico, prima che succedesse la catastrofe, l'imputato e suo fratello Ivan Fëdoroviè. La notizia era stata resa nota anche alla signorina Svetlova. Nessuna di queste tre persone però ha visto quei soldi con i propri occhi, ancora una volta era stato soltanto Smerdjakov a vederli, ma a questo punto la domanda nasce spontanea: ammesso che fosse vero che quei soldi esistessero e che Smerdjakov li avesse visti, quando li ha visti per l'ultima volta? E se il padrone avesse tolto quel denaro da sotto il cuscino e l'avesse riposto nuovamente nella scatola, senza dirgli nulla? Notate bene che, secondo la testimonianza di Smerdjakov, il denaro si trovava nel letto, sotto il materasso, quindi l'imputato avrebbe dovuto estrarlo da sotto il materasso, eppure il letto era intatto, da quanto risulta espressamente nel verbale. Come ha fatto l'imputato a non disfare minimamente il letto e, per di più, a non imbrattare con le mani sporche l'elegante biancheria, fresca di bucato, che era stata messa per quella speciale occasione? Ci potranno dire: ma il plico era sul pavimento! Ecco, vale la pena di spendere due parole su quel plico. Poco fa sono rimasto un tantino stupito quando l'abilissimo pubblico ministero, parlando di quel plico, ad un tratto, di sua iniziativa - badate bene, signori, di sua iniziativa - proprio mentre tentava di dimostrare l'assurdità dell'ipotesi che l'assassino sia Smerdjakov, ha dichiarato: "Se non fosse stato per quel plico, se il rapinatore non avesse lasciato quella traccia sul pavimento come prova, ma l'avesse portato via con sé, nessuno al mondo avrebbe mai saputo dell'esistenza di quel plico, che in esso erano contenuti dei soldi e che, dunque, quei soldi erano stati trafugati dall'imputato". E quindi, solo quel pezzo di carta lacerata con la scritta - per ammissione della stessa accusa - sarebbe alla base dell'imputazione di furto ai danni dell'imputato, "altrimenti nessuno avrebbe saputo che c'era stato un furto e che forse c'erano pure dei soldi". Ma il semplice fatto che quel pezzo di carta fosse sul pavimento è forse una prova che esso contenesse dei soldi e che quei soldi siano stati rubati? Mi si risponderà che li aveva visti Smerdjakov in quel plico: ma quando, quando li aveva visti per l'ultima volta? Ecco quello che domando io. Quando parlai con Smerdjakov, lui mi disse di averli visti due giorni prima della catastrofe! Ma perché non potrei ipotizzare, ad esempio, anche solo la circostanza che al vecchio Fëdor Pavloviè, serrato in casa, nell'attesa spasmodica e impaziente della sua amata, all'improvviso sia saltato in mente, per ammazzare il tempo, di tirare fuori il plico e dissigillarlo: "A che serve la busta?", potrebbe aver pensato. "E se lei non credesse che contiene il denaro? Ma se le mostrassi tutto il mazzetto delle trenta banconote iridate, certo le farebbe più impressione, le verrebbe l'acquolina in bocca", e così lacera la busta, estrae i soldi e getta la busta sul pavimento con l'aria sicura del padrone di casa, che certo non ha alcun timore di lasciare una prova in giro. Ascoltate, signori giurati, ditemi: c'è qualcosa di più plausibile di questa supposizione e di questa versione dei fatti? Per quale motivo dovrebbe essere fuori questione tutto questo? E se qualcosa del genere fosse davvero accaduto, allora l'imputazione di furto verrebbe a cadere da sola: niente soldi, niente furto. Se il plico giaceva sul pavimento come prova che in esso fossero contenuti dei soldi, perché non potrei dichiarare il contrario e cioè che quel plico stava lì sul pavimento proprio perché non conteneva affatto quei soldi che il padrone aveva preventivamente estratto dalla busta? "Sì, ma allora che fine hanno fatto quei soldi, se è stato Fëdor Pavloviè stesso a tirarli fuori dal plico? Durante la perquisizione in casa sua non sono stati ritrovati". Primo, una certa somma di denaro è stata ritrovata in quella scatola; secondo, avrebbe potuto tirarlo fuori già dalla mattina, o persino il giorno prima, per disporne in altro modo, potrebbe averlo consegnato a qualcuno, spedito; avrebbe potuto, infine, cambiare radicalmente la propria linea di azione, senza ritenere necessario di avvisare prima Smerdjakov. E se esiste soltanto l'ombra della possibilità che sia andata in questo modo, com'è possibile accusare con tanta insistenza e fermezza l'imputato di aver compiuto il delitto a scopo di rapina e asserire che la rapina abbia effettivamente avuto luogo? In questo modo, entriamo già nella sfera del romanzo. Infatti, se si sostiene che una certa cosa è stata rubata, allora occorre indicare di che cosa si tratta o, per lo meno, dimostrare in modo indiscutibile che quella cosa esiste realmente. E invece, nel nostro caso, nessuno ha visto l'oggetto del furto. Di recente, a Pietroburgo, un giovanotto - poco più di un ragazzo - un diciottenne che aveva un piccola bancarella al mercato, entrò in pieno giorno nella bottega dei cambi con un'ascia e, con una straordinaria e tipica audacia, uccise il padrone della bottega e gli rubò mille e cinquecento rubli in contanti. Erano passate cinque ore circa, quando il giovanotto fu arrestato, indosso gli fu trovata l'intera somma di millecinquecento rubli, meno quindici rubli che aveva fatto in tempo a spendere. Quando il commesso tornò alla bottega, dopo l'omicidio, comunicò alla polizia non soltanto l'ammontare della somma rubata, ma indicò pure il tipo di banconote e spiccioli che la componevano: quante banconote iridate, quante azzurre, quante rosse, quante monetine d'oro. Dopo l'arresto, addosso all'omicida erano state trovate esattamente le banconote e gli spiccioli indicati. In aggiunta a tutto questo, seguì la più completa e franca confessione da parte dell'omicida di aver ucciso e trafugato quei soldi. Ecco, signori della giuria, quelle che io chiamo delle prove! In quel caso io so, vedo e tocco quel denaro e non posso dire che non esiste e non è mai esistito. Si può dire forse lo stesso nel presente caso? Eppure qui è una questione di vita o di morte, del destino di un uomo. Mi si dirà che quella notte l'imputato ha fatto baldoria, ha sperperato denaro a profusione, che indosso gli sono stati ritrovati millecinquecento rubli, e mi si domanderà da dove potesse averli presi. Ma proprio il fatto che gli sono stati ritrovati indosso soltanto millecinquecento rubli, mentre la seconda metà di quel denaro non c'è stato verso di trovarla durante le perquisizioni, dimostra che quei soldi potevano benissimo non essere gli stessi, e che i soldi in possesso dell'imputato non erano mai stati in quel plico. Secondo il calcolo dei tempi (un calcolo accuratissimo), è stato reso noto e dimostrato, in sede di istruttoria preliminare, che l'imputato raggiunse la casa di Perchotin, dopo aver lasciato di corsa l'appartamento delle due serve, senza passare da casa e senza fermarsi da nessuna parte; inoltre, per tutto il tempo egli si trovò in presenza di altre persone, dunque non ebbe il modo di sottrarre la metà di quei tremila rubli per nasconderli da qualche parte in città. Proprio quest'ultima considerazione è alla base dell'ipotesi dell'accusa che i soldi siano nascosti in qualche fessura nel villaggio di Mokroe. Perché non nei sotterranei del castello di Udolfo, signori? Non vi sembra un po' troppo fantastica, un po' troppo romanzesca quest'ipotesi? E, notate bene, basterebbe che quest'ipotesi venisse smentita (l'ipotesi, cioè, che il denaro sia nascosto a Mokroe) per far saltare in aria l'intera imputazione di furto, giacché dove si troverebbero, che fine avrebbero fatto in tal caso quei millecinquecento rubli? Per mezzo di quale miracolo sono potuti svanire, se è stato dimostrato che l'imputato non è andato da nessuna parte? E noi siamo pronti a distruggere la vita di un uomo a causa di simili fantasie romanzesche! Mi diranno: "Eppure non è riuscito a spiegare dove ha preso quei millecinquecento rubli che gli sono stati trovati indosso e, per di più, tutti sapevano che fino a quella notte non aveva denaro". Ma chi lo sapeva? L'imputato, invece, ha dato una chiara e decisa testimonianza di dove abbia preso quei soldi e se volete, signori della giuria, se volete, non c'è nulla che potesse e possa essere più credibile di quella testimonianza e anche più congeniale al carattere e all'anima dell'imputato. Il pubblico ministero è rimasto incantato dal romanzo che lui stesso ha concepito: un uomo dalla volontà debole che ha deciso di impossessarsi dei tremila rubli che gli ha affidato in maniera così vergognosa la sua fidanzata, non può - dice lui - averne sottratta la metà per cucirla nel suo amuleto, ma, ammesso che l'avesse cucita dentro, avrebbe scucito l'amuleto ogni due giorni per prendere un centone alla volta dilapidando così l'intera somma in un mese. Come ricorderete, tutto questo è stato dichiarato con un tono che non ammetteva repliche. E se le cose invece non fossero affatto andate in questo modo? E se aveste soltanto costruito un romanzo, se aveste creato un personaggio completamente diverso? È proprio questo il punto: avete creato un personaggio completamente diverso! Mi potranno replicare, forse, che ci sono molti testimoni che dichiarano che egli ha sperperato al villaggio di Mokroe tutti e tremila i rubli che aveva sottratto, a un mese dalla catastrofe, alla signorina Verchovceva, in un colpo solo, come fossero una sola copeca, quindi come aveva potuto sottrarne la metà? Ma chi sono questi testimoni? Questa corte ha avuto ampia dimostrazione del grado di affidabilità di questi testimoni. E poi un tozzo di pane in mano altrui sembra sempre più grosso. Infine, nessuno di quei testimoni ha avuto modo di contare con esattezza quei soldi, essi hanno valutato la somma così, ad occhio. Per non dire che il teste Maksimov ha testimoniato che l'imputato aveva addirittura ventimila rubli in mano. Vedete allora, signori della giuria, dal momento che la psicologia è un'arma a doppio taglio, permettetemi di occuparmi del secondo taglio e vediamo che cosa viene fuori. A un mese dalla catastrofe la signorina Verchovceva affida tremila rubli all'imputato perché questi li spedisca per posta. La domanda è: è proprio vero che quei soldi gli furono affidati in un modo così ignominioso e degradante, come è stato or ora dichiarato? Nel corso della prima testimonianza la signorina Verchovceva ha dichiarato che le cose non sono andate affatto così, anzi, tutto al contrario; nella seconda testimonianza abbiamo udito soltanto urla di rancore, vendetta, urla di un odio a lungo represso. Ma il semplice fatto che la teste abbia dichiarato il falso durante la prima deposizione ci autorizza a concludere che anche nella seconda abbia fatto lo stesso. L'accusa "non vuole, non osa" (sono parole sue) sfiorare questa storia d'amore. Che faccia pure, neanche io mi permetterò di sfiorarla, ma mi permetto soltanto di notare che se una persona onesta, pulita e dai nobili principi, quale indubbiamente è la stimatissima signorina Verchovceva, se una simile persona - dico io - si permette di punto in bianco, tutto d'un tratto, durante un processo, di cambiare la propria versione allo scopo palese di rovinare l'imputato, allora è chiaro pure che questa sua versione dei fatti non è stata resa con imparzialità e a mente fredda. Non ci toglieranno mica il diritto di concludere che una donna vendicativa possa esagerare? Sì, esagerare proprio la vergogna e l'ignominia del modo in cui aveva offerto quel denaro all'imputato. E invece quel denaro era stato offerto proprio in un modo in cui poteva essere accettato, soprattutto da una persona così sventata come il nostro imputato. Tanto più che egli, in quel periodo, si aspettava che il padre gli cedesse al più presto quei tremila rubli che gli doveva secondo i suoi calcoli. Questo era sventato da parte sua, ma proprio per via di quella sua sventatezza, egli era fermamente convinto che il padre glieli avrebbe dati e che lui li avrebbe intascati, e che, dunque, avrebbe sempre potuto spedire per posta i soldi che gli erano stati affidati dalla signorina Verchovceva e saldare il suo debito. Ma l'accusa non vuole a nessun costo ammettere che quello stesso giorno, il giorno incriminato, egli possa aver messo da parte metà dei soldi ricevuti per cucirli nel suo amuleto: "Non rientra nel suo carattere, non poteva nutrire simili sentimenti". Eppure voi stesso avete dichiarato a squarciagola che vasta è la natura di un Karamazov, voi stesso avete gridato dei due abissi estremi che un Karamazov può contemplare. Karamazov è una natura a due facce, che fluttua fra due abissi, che persino quando è mosso dalla più sfrenata foga di bagordi può fermarsi, se qualcosa lo colpisce, sull'altro versante. E quell'altro versante è proprio l'amore, quel nuovo amore che divampa come polvere da sparo; è proprio per quell'amore che quel denaro gli è necessario: anzi, ben più necessario, oh! - di gran lunga più necessario che per quegli stessi bagordi con quella donna. Se ella gli dicesse: "Sono tua, non voglio Fëdor Pavloviè", lui la prenderebbe, la porterebbe via - e così avrebbe il denaro necessario per farlo. Questo è più importante di una notte di bagordi. È mai possibile che Karamazov non se ne rendesse conto? Ma se era proprio quest'ansia che lo tormentava, che cosa c'è di tanto incredibile nel fatto che egli avesse messo da parte quei soldi e li avesse tenuti nascosti per ogni evenienza? Tuttavia, il tempo passa e Fëdor Pavloviè non restituisce il denaro all'imputato: al contrario, si viene a sapere che ha intenzione di usarlo proprio per sedurre la donna che l'imputato ama. "Ma se Fëdor Pavloviè non mi dà il denaro", pensa lui, "allora risulterà che sono un ladro dinanzi a Katerina Ivanovna". E così ha origine in lui l'idea che quei millecinquecento rubli, che egli continua a portarsi al collo in quell'amuleto, li potrebbe prendere e riportare davanti alla signorina Verchovceva dicendole: "Sono un mascalzone, ma non un ladro". Ed ecco dunque una seconda ragione per conservare quei millecinquecento rubli come la pupilla dei propri occhi, senza scucire per nessun motivo l'amuleto né prelevarne il denaro a cento rubli alla volta. Perché dovreste negare all'imputato il senso dell'onore? No, il senso dell'onore esiste in lui, ammettiamo pure che sia mal riposto, ammettiamo che sia il più delle volte erroneo, ma esso esiste e arriva ad avere la forza di una passione, e questo lo ha dimostrato. Ma ecco che la faccenda si complica, le pene della gelosia raggiungono il parossisimo e quelle due domande, le stesse di prima, si affacciano sempre più angoscianti al cervello in fiamme dell'imputato: "Devo restituire il denaro a Katerina Ivanovna? Ma allora con quali mezzi potrei condurre via Grušen'ka?" Se si comportò come un pazzo, se si ubriacò ripetutamente, se attaccò briga nelle trattorie nel corso di tutto quel mese, credo che lo fece proprio perché egli era amareggiato oltre ogni capacità di sopportazione. Quelle due domande erano diventate così pungenti da condurlo sull'orlo della disperazione. Egli fa il tentativo di mandare suo fratello minore a chiedere per l'ultima volta il denaro al padre da parte sua, ma, senza attendere la risposta, irrompe in casa e picchia il vecchio in presenza di testimoni. Dopo un simile gesto, nessuno gli avrebbe dato un bel nulla, il padre picchiato non gli avrebbe dato il becco di un quattrino. Quella sera stessa egli si batte il petto, proprio la parte superiore del petto, dove sta l'amuleto e giura al fratello di essere in possesso di un mezzo per non essere un mascalzone, ma che tuttavia rimarrà un mascalzone, giacché prevede che non userà quel mezzo, gli manca la forza di volontà, gli manca il carattere. Perché, perché l'accusa non crede alla testimonianza di Aleksej Fëdoroviè resa con tanta buona fede, con tanta sincerità, una testimonianza così spontanea e verosimile? E perché, al contrario, vorrebbe costringermi a credere ai soldi nascosti in qualche fessura nei sotterranei del castello di Udolfo? Quella stessa sera, dopo il colloquio con il fratello, l'imputato scrive quella fatidica lettera ed ecco che proprio quella diventa la principale, la più colossale prova del furto commesso dall'imputato! "Chiederò soldi a tutti, e se non me li daranno, ucciderò mio padre e glieli prenderò da sotto il materasso, nel plico con il nastrino rosa, purché Ivan se ne sia andato". Un piano dettagliato dell'omicidio, ci viene detto, come fa a non essere lui l'assassino? "È avvenuto tutto come aveva scritto!", esclama il pubblico ministero. Ma, in primo luogo, è la lettera di un ubriaco, scritta in un momento di furiosa esasperazione; secondo, ancora una volta, egli parla del plico sulla base delle informazioni ricevute da Smerdjakov, perché lui il plico non l'ha mai visto; terzo, sì, ha scritto quel che ha scritto, ma come si fa a dimostrare che l'abbia poi eseguito nel modo in cui aveva scritto? È stato l'imputato a prendere il plico da sotto il cuscino, li ha trovati lui i soldi, e addirittura, sono mai esistiti quei soldi? E se ricordate, era forse per i soldi che l'imputato si era precipitato lì, vi ricordate? Egli era corso lì a rotta di collo non per derubare, ma soltanto per sapere se lei, quella donna, colei che lo aveva annientato si trovasse lì: dunque non si era precipitato lì in base ad un piano, non per eseguire quello che aveva scritto, cioè per la rapina premeditata, ma era corso lì all'improvviso, casualmente, in preda alla furia della gelosia! "Sì", mi diranno, "ma una volta arrivato, ha ucciso e si è preso pure i soldi". Ma lo ha davvero ucciso lui? Respingo con sdegno l'accusa di furto: non si può accusare di furto, se non si può indicare con precisione che cosa è stato rubato, questo è assiomatico! Ma è stato davvero lui a uccidere, ammesso che non abbia rubato, è stato lui a uccidere? È dimostrato questo? O non è pure questo un altro romanzo?»

X • L'arringa del difensore. Un'arma a doppio taglio


 X • L'arringa del difensore. Un'arma a doppio taglio 



 Il silenzio era assoluto quando si levarono le prime parole del celebre oratore. L'aula intera puntava gli occhi su di lui. Egli esordì con molta semplicità e immediatezza, con aria decisa, ma senza ombra di presunzione. Non ricorse minimamente alla retorica, a note patetiche o a certe paroline cariche di sentimento. Sembrava un uomo che parla a un ristretto gruppo di persone comprensive. Aveva una voce magnifica, sonora e affascinante, e sembrava che in quella voce stessa risuonasse qualcosa di genuino e semplice. Ma tutti compresero all'istante che l'oratore poteva assurgere all'improvviso al patetico puro e "penetrare i cuori con una forza ignota". Forse parlava in maniera meno ricercata di Ippolit Kirilloviè, ma non usava frasi molto lunghe ed era più preciso. Solo una cosa non piacque alle signore: egli continuava a piegarsi in avanti, soprattutto all'inizio dell'arringa, non che si inchinasse, ma era come se fosse sul punto di spiccare il volo verso i suoi ascoltatori, inclinando la sua lunga schiena in due, come se avesse una molla a metà della schiena, lunga ed esile, che gli consentisse di piegarsi ad angolo retto. All'inizio dell'arringa parlò in maniera alquanto sconnessa, non sistematica, si sarebbe detto; prendeva in considerazione fatti isolati, ma alla fine quei fatti vennero a formare un tutt'uno. Il suo discorso potrebbe essere diviso in due parti: la prima consisté in una critica, una confutazione dell'accusa, che talora assunse toni feroci e sarcastici. Mentre nella seconda parte dell'arringa fu come se, tutto d'un tratto, avesse cambiato registro e persino metodo: di colpo egli si elevò a tonalità patetiche; ma era come se il pubblico in aula se lo fosse aspettato e fosse percorso da un brivido di entusiasmo. Egli andò subito al nocciolo ed esordì dicendo che, sebbene esercitasse la sua professione a Pietroburgo, quella non era la prima volta che visitava altre città della Russia, in qualità di avvocato difensore, ma solo per i casi in cui era convinto che gli imputati fossero innocenti oppure avesse presentimento della loro innocenza. «La stessa cosa mi è avvenuta nel presente caso», spiegò. «Sin da quando apparvero le prime corrispondenze sui giornali mi balenò alla mente qualcosa che produsse in me un'impressione favorevole nei confronti dell'imputato. Per farla breve, quello che maggiormente catturò la mia attenzione fu una certa circostanza legale che spesso si verifica nella pratica giudiziaria, ma che mai, a mio parere, si presenta in una forma così estrema e peculiare come nel caso in questione. Dovrei formulare questo fatto solo alla fine della mia arringa, a conclusione del mio discorso, tuttavia esporrò la mia idea proprio all'inizio, giacché è una mia debolezza passare immediatamente al sodo, senza tenere da parte gli effetti sensazionali, né fare economia di impressioni. Questo, forse, potrà essere imprudente da parte mia, ma in compenso è sincero. La mia idea, la mia formula è la seguente: esiste una schiacciante mole di circostanze a carico dell'imputato, eppure nemmeno una di queste circostanze regge alla critica, se la si esamina singolarmente, presa a sé stante! Man mano che seguivo il caso tramite le dicerie e i giornali, questa mia idea si veniva rafforzando sempre di più, quando all'improvviso ricevetti l'invito da parte dei parenti dell'imputato ad assumere la sua difesa. Mi sono affrettato a venire sul posto e qui mi sono convinto definitivamente della mia idea. Ecco, è stato allo scopo di frantumare questa terribile mole di circostanze a carico, e dimostrare l'infondatezza e l'assurdità di ogni circostanza presa singolarmente, che ho accettato di assumere la difesa del caso». Così esordì l'avvocato della difesa e ad un tratto esclamò: «Signori della giuria, io sono l'ultimo arrivato in questa città. Le impressioni che ho ricevuto non sono basate su preconcetti. L'imputato, un uomo dal temperamento turbolento e sfrenato, non ha avuto occasione di offendermi in passato, come ha fatto, c'è da supporre, con un centinaio di persone in questa città: ecco perché molti sono prevenuti nei suoi confronti. Anche io riconosco, certamente, che il senso morale della società locale è giustamente esasperato contro di lui: l'imputato ha un carattere turbolento e violento. Eppure egli venne ben accolto dalla società del luogo, fu colmato di attenzioni persino nella famiglia del mio abilissimo collega, il pubblico ministero». (Nota bene. Mentre pronunciava queste parole, fra il pubblico si levarono due o tre risatine che, sebbene subito represse, furono notate da tutti. A tutti era noto che il procuratore aveva accolto in casa sua Mitja controvoglia, unicamente perché sua moglie lo trovava, per qualche ragione, interessante - questa signora era una donna estremamente virtuosa e rispettabile, ma capricciosa e dispotica, una che amava, in alcuni casi, soprattutto nelle piccole cose, mettersi contro suo marito. Mitja, del resto, frequentava abbastanza di rado la loro casa.) «Nondimeno azzarderei l'ipotesi», proseguiva il difensore, «che a dispetto dell'indipendenza di giudizio e del temperamento imparziale che lo caratterizzano, anche nel mio opponente sia potuto nascere un preconcetto erroneo sul conto del mio disgraziato cliente. Oh, è così naturale: questo disgraziato si è meritato anche troppo i pregiudizi della gente. Il senso morale oltraggiato e, peggio ancora, quello estetico, a volte diventa implacabile. Noi tutti abbiamo sentito nella magistrale arringa dell'accusa una severa analisi del carattere e della condotta dell'imputato, un severo atteggiamento critico verso il caso in questione e, quel che più conta, per spiegarci l'essenza del caso, l'accusa ci ha indicato tali profondità psicologiche nelle quali non avrebbe mai potuto addentrarsi, se fosse stata in mala fede e consapevolmente prevenuta contro la persona dell'imputato. Eppure in tali casi esistono cose peggiori, persino più nocive di un atteggiamento prevenuto e in mala fede nei confronti di un caso giudiziario: per esempio, quando accade di lasciarsi trasportare da un certo, diciamo così, gusto artistico, da un desiderio di creazione artistica, per così dire, quando si tenta di creare un romanzo, soprattutto in presenza di doti psicologiche che Dio abbia dispensato al nostro intelletto. A Pietroburgo, prima ancora che partissi, ero stato avvisato - ma lo sapevo da me, senza bisogno di preavvisi - che qui avrei trovato come opponente un profondo e acutissimo psicologo, il quale, grazie a questa sua qualità, si è conquistato una particolare fama nel nostro ancor giovane ambiente forense. Eppure, signori, la psicologia, per quanto profonda, può agire come un'arma a doppio taglio». Risatine fra il pubblico. «Certo voi mi perdonerete il banale paragone: non sono un gran maestro d'eloquenza. Ma ecco, prenderò un esempio a caso, il primo che mi viene in mente, tratto dal discorso dell'accusa. L'imputato, di notte, nel giardino, fuggendo, sta scavalcando lo steccato e atterra con il pestello di ottone il lacchè che gli sta aggrappato a una gamba. Dopo di che, con un balzo, ritorna in giardino e per cinque minuti buoni si affaccenda accanto alla vittima, cercando di capire se lo abbia ucciso o meno. Ed ecco che l'accusa si rifiuta categoricamente di credere alla sincerità dell'imputato, quando questi dichiara di essere saltato giù dallo steccato per pietà verso il vecchio Grigorij. "No", dice lui, "una sensibilità del genere è impossibile in un momento simile, è innaturale: egli saltò giù in giardino solo per assicurarsi che l'unico testimone della sua malefatta fosse morto, e proprio questo suo gesto prova che egli aveva davvero compiuto quella malefatta, dal momento che per nessun altro motivo, impulso o sentimento avrebbe potuto ritornare in quel giardino". Ecco, questa è psicologia; ma prendiamo questa stessa psicologia e applichiamola al caso in questione dal taglio opposto e il nostro risultato non sarà meno plausibile. L'assassino, ci viene detto, saltò giù per precauzione, per scoprire se il testimone fosse vivo o meno; nel contempo, però, aveva appena lasciato nello studio del padre, da lui ucciso - secondo quanto asserisce l'accusa stessa - un indizio colossale a proprio carico nella forma di un plico lacerato, sul quale si indicava il contenuto di tremila rubli. "Infatti se avesse portato via con sé quel plico, nessuno al mondo avrebbe mai saputo dell'esistenza di quel plico stesso e dei soldi in esso contenuti, e quindi nessuno avrebbe saputo che quei soldi erano stati rubati dall'imputato". Queste sono le parole dell'accusa. Allora, da un lato vediamo una completa mancanza di cautela: l'uomo ha perso la testa e fugge spaventato, lasciando sul pavimento un indizio; mentre, quando un paio di minuti più tardi colpisce e ammazza un altro uomo, ecco che compare la più spietata e calcolatrice cautela, pronta al nostro servizio. Ma ammettiamo, ammettiamo pure che sia così: mi diranno che è proprio la sottigliezza psicologica a far sì che, in date circostanze, io sia assetato di sangue e perspicace come un'aquila del Caucaso e, un attimo dopo, sia cieco e timoroso come una povera talpa. Ma se sono così sanguinario e spietatamente calcolatore da saltare giù, dopo aver ucciso, solo per vedere se sia morto un testimone pericoloso, come mai spreco cinque minuti buoni ad affaccendarmi su questa mia nuova vittima a rischio di procurarmi altri testimoni? A che scopo inzuppare il mio fazzoletto per detergere il sangue che cola dalla testa della mia vittima, quando poi quel fazzoletto potrebbe costituire un indizio contro di me? No, se siamo davvero così avveduti e duri di cuore, allora, dopo essere saltati giù in giardino, faremmo meglio ad assestare sulla testa del servo atterrato un altro bel colpo e un altro ancora per ucciderlo, in maniera da farla finita con il testimone e levarci questo peso dal cuore! E, certamente, quando salteremo giù per assicurarci che il nostro testimone sia morto, lasceremo sul sentierino, lì accanto, un altro testimone, proprio quel pestello che abbiamo preso in casa delle due donne, e che in seguito entrambe potranno riconoscere in modo da testimoniare che siamo stati noi a prenderlo da casa loro. E non l'abbiamo mica dimenticato là sul sentierino, non l'abbiamo mica perduto per distrazione, per la confusione nella quale ci trovavamo, no: avevamo gettato via quell'arma di proposito, perché è stata ritrovata a una quindicina di passi dal posto in cui era stato atterrato Grigorij. Ci si domanda: a che scopo abbiamo agito in quel modo? Ecco, abbiamo agito in questo modo per l'amarezza che ci ha invaso per aver ucciso un uomo, un vecchio servitore; imprecando con stizza, abbiamo gettato via quel pestello come arma del nostro delitto; non poteva essere altrimenti, per quale altro motivo potevamo gettarlo con tanto impeto? Se siamo stati in grado di provare dolore e pietà per aver ucciso un uomo, questo dimostra, naturalmente, che non abbiamo ucciso nostro padre: se avessimo ucciso nostro padre, non saremmo saltati giù verso l'uomo che avevamo abbattuto, mossi da pietà: avremmo provato tutt'altri sentimenti, non avremmo dato spazio alla pietà, ma solo all'istinto di conservazione, questo è fuori di dubbio. Al contrario, gli avremmo definitivamente fracassato il cranio e non avremmo perso quei cinque minuti accanto a lui. Invece demmo spazio alla pietà e ai buoni sentimenti, proprio perché avevamo la coscienza pulita. Ecco, dunque, una psicologia del tutto diversa. Signori della giuria, io stesso ho fatto ricorso alla psicologia di proposito, per darvi una dimostrazione evidente di come da essa sia possibile dedurre quello che più fa comodo. Dipende dall'uso che ne fate. La psicologia spinge anche le persone più serie a comporre dei romanzi, e questo del tutto inconsapevolmente. Sto parlando della psicologia superflua, signori della giuria, dell'abuso della psicologia». Anche a questo punto si udirono risatine di consenso fra il pubblico, ancora una volta all'indirizzo del procuratore. Non riporterò il discorso del difensore per filo e per segno, sceglierò soltanto alcuni passaggi, i punti fondamentali.

venerdì 5 novembre 2021

KATJA INCONTRA GRUSHENKA











 Si stava alzando dal suo posto, quando lanciò un urlo lacerante e vacillò all'indietro. 

Grušen'ka era entrata nella stanza all'improvviso e senza far rumore. Nessuno si aspettava il suo arrivo. 

Katja si mosse rapidamente verso la porta, ma quando giunse vicino a Grušen'ka, si fermò di scatto, si fece bianca come un lenzuolo e gemette piano, quasi in un sussurro: 

 «Perdonatemi!» 

 Grušen'ka la guardò fissa, poi, dopo la pausa di un istante, con una voce vendicativa e velenosa, replicò: 

 «Io e te siamo cattive, mia cara! Tutte e due cattive! Come se fosse mai possibile perdonarci l'un l'altra! Piuttosto salva lui e io pregherò per te tutta la vita!» 

 «E non vuoi perdonarla!», gridò Mitja con una nota di biasimo furente. 

 «Sta' tranquilla, te lo salverò!», mormorò Katja rapidamente e uscì di corsa dalla stanza. 

 «E tu hai potuto negarle il tuo perdono quando ella stessa per prima ha chiesto perdono a te?», esclamò Mitja con amarezza. 

 «Mitja, non osare biasimarla, non ne hai alcun diritto!», lo rimproverò Alëša infervorato. 

 «Hanno parlato le sue labbra orgogliose, non il suo cuore», proferì Grušen'ka con una sorta di disgusto. «Che ti salvi, e le perdonerò tutto...» 

 Ella cessò di parlare, come se stesse reprimendo qualcosa. Non riusciva ancora a riprendersi. 

In seguito risultò che ella era entrata nella stanza del tutto casualmente, senza minimamente sospettare né immaginare quello che avrebbe trovato. 

 «Alëša, corrile dietro!», Mitja gridò a suo fratello. 

«Dille... non so cosa... ma non farla andare via così!» 

 «Tornerò da te prima di sera!», gridò Alëša e corse dietro Katja. 

La raggiunse che aveva già oltrepassato il recinto dell'ospedale. Camminava in fretta, aveva premura, ma non appena Alëša l'ebbe raggiunta, gli disse rapidamente: 

«No, davanti a quella non posso punire me stessa. Le ho chiesto perdono perché volevo punire me stessa fino in fondo. Lei non mi ha perdonato... Le voglio bene per questo!», soggiunse con una voce innaturale e i suoi occhi scintillarono di un rancore selvaggio. 

 «Mio fratello non se lo aspettava affatto», fece per mormorare Alëša. «Era sicuro che non sarebbe venuta...» 

 «Non lo metto in dubbio. Ma lasciamo stare», ella tagliò corto. 

 «Ascoltate: non posso venire al funerale con voi. Ho mandato loro dei fiori per la piccola bara. Penso che abbiano ancora del denaro. Se ce n'è bisogno, dite loro che non li abbandonerò mai... Ma adesso lasciatemi, lasciatemi, per favore. Così farete tardi, le campane chiamano per l'ultima messa... Lasciatemi, per favore!»

KATJA FA VISITA A MITJA IN CARCERE






«Alëša, finiscimi in questo momento!», esclamò egli all'improvviso. «Verrà lei adesso o non verrà? Dimmelo! Che cosa ha detto? Con che tono l'ha detto?» 

 «Ha detto che sarebbe venuta, ma non so quando. È penoso per lei!», e Alëša guardò timidamente il fratello. 

 «Ci mancherebbe che non lo fosse, ci mancherebbe che non le fosse penoso! Alëša, questo mi farà impazzire! Gruša continua ad osservarmi. Comprende tutto. Dio mio, da' pace al mio cuore: che cosa voglio? Voglio Katja! Lo capisco io che cosa voglio? È la malefica sfrenatezza karamazoviana! Io non sono fatto per soffrire! Sono un mascalzone, non c'è nient'altro da dire!» 

 «Eccola!», esclamò Alëša. 

 In quel momento, Katja era apparsa sulla soglia. Per un istante si era soffermata a guardare Mitja con gli occhi smarriti. 

Quello scattò impulsivamente ai suoi piedi, il suo viso aveva un'espressione impaurita, si era fatto pallido, ma ad un tratto un timido sorriso implorante affiorò sulle sue labbra e, all'improvviso, mosso da un impulso irresistibile, egli protese entrambe le mani verso Katja. 

Nel vedere questo, Katja si slanciò impetuosamente verso di lui. Ella lo afferrò per le mani e lo fece sedere sul letto quasi con la forza, poi si sedette accanto, e senza lasciargli le mani, gliele stringeva forte, convulsamente. Più di una volta tutti e due furono sul punto di parlare, si bloccavano e continuavano a guardarsi in silenzio con uno strano sorriso, come incatenati l'uno all'altro. Passarono così un paio di minuti. 

 «Mi hai perdonato?», balbettò finalmente Mitja; in quel momento stesso si rivolse ad Alëša con il volto trasfigurato dalla gioia e gli gridò: «Hai sentito quello che le sto domandando? Hai sentito?» 

 «Per questo io ti ho amato, per la generosità del tuo cuore!», disse Katja ad un tratto. «E non sono io che devo perdonare te, ma sei tu che devi perdonare me; comunque, che tu mi perdoni o no, rimarrai sempre una ferita nella mia anima, per tutta la mia vita, e io nella tua - così deve essere...», ella smise di parlare per riprendere fiato. «Per quale motivo sono venuta?», riprese a parlare in fretta, freneticamente. «Per abbracciare i tuoi piedi, per stringere le tue mani, così, fino a farti male - ti ricordi, come te le stringevo a Mosca? - per dirti ancora una volta che tu sei il mio Dio, la mia gioia, per dirti che ti amo alla follia», ella gemette per l'angoscia e all'improvviso si premette avidamente la mano di lui alle labbra. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi. 

 Alëša stava in piedi, in silenzio, confuso; non si sarebbe mai aspettato quella scena. 

 «L'amore è finito, Mitja!», riprese a dire Katja. «Ma quel passato mi è tanto caro da farmi soffrire. Sappi che sarà sempre così. Ma adesso, per un minutino, facciamo in modo che sia come avrebbe dovuto essere», balbettava lei con un sorriso forzato, guardandolo negli occhi un'altra volta con gioia. 

«Tu ami un'altra donna e io amo un altro uomo, eppure ti amerò in eterno, e anche tu amerai me, lo sapevi questo? Mi senti? Amami, amami per tutta la vita!», gridò con un fremito quasi minaccioso nella voce. 

 «Ti amerò e... sappi, Katja», cominciò a dire Mitja prendendo fiato ad ogni parola, «sai, quella sera, di cinque giorni fa, io ti amavo... Quando sei caduta e ti hanno portata via... Per tutta la vita! E così sarà, così sarà in eterno!» 

Così tutti e due si mormoravano parole frenetiche, quasi senza senso, forse anche non vere, ma in quel momento era tutto vero e tutti e due credevano ciecamente a quello che dicevano. 

 «Katja», esclamò d'un tratto Mitja, «tu credi che io abbia ucciso? Lo so che adesso non ci credi, ma allora... quando hai testimoniato... Ci credevi, ci credevi forse?» 

 «Anche allora non ci credevo! Non ci ho mai creduto! Ti odiavo, per questo me ne ero convinta all'improvviso, per un momento... Mentre testimoniavo, me ne ero convinta e ci credevo, ma quando ho finito di parlare, ho smesso di crederci all'istante. Sappilo questo! Avevo dimenticato che ero venuta qui per punire me stessa!», disse poi con una nuova intonazione nella voce, completamente diversa dal balbettio amorevole di appena un attimo prima. 

 «Donna, tu sei in pena!», disse Mitja ad un tratto, quasi involontariamente. 

 «Fammi andare», mormorò lei. «Tornerò ancora. Adesso è troppo penoso!...»

MITJA TEME LA DEPORTAZIONE


 


Seguì il silenzio. Qualcosa di molto importante tormentava Mitja. 

 «Alëša, io amo da morire Grušen'ka», disse ad un tratto con voce tremante e rotta dalle lacrime. 

 «Non le permetteranno di venire laggiù insieme a te», Alëša intervenne prontamente. 

 «E c'è qualcos'altro che volevo dirti», Mitja proseguì con una voce improvvisamente squillante. 

«Se dovessero picchiarmi nel tragitto oppure una volta giunti laggiù, io non mi sottometterei, ucciderei qualcuno e quelli mi fucilerebbero. E questo dovrebbe durare vent'anni! Qui già cominciano a darmi del tu. La sentinella mi si rivolge con il tu. Anche stanotte non ho fatto che sottopormi a giudizio e ho concluso che non sono pronto! Non ho la forza di accettare tutto questo! Io volevo intonare l'"inno", ma poi non ho la forza di sopportare che una sentinella mi dia del tu. Per amore di Gruša affronterei qualunque cosa, tutto... eccetto le percosse... Ma non le permetteranno di venire laggiù». 

 Alëša sorrise dolcemente. «Ascolta, fratello, una volta per tutte», egli disse. «Ecco che cosa penso a questo proposito. E tu sai che io non ti mento mai. Ascoltami bene: tu non sei pronto e una croce così gravosa non è per te. Inoltre: questa croce da grande martire a te, che non sei pronto, non può servire. Se tu avessi ucciso nostro padre, mi sarei rammaricato che tu avessi respinto la tua croce. Ma tu sei innocente, e questa croce è troppo per te. Tu volevi generare in te stesso un uomo nuovo per mezzo delle sofferenze. Io ti dico, cerca di ricordare sempre quest'uomo nuovo, per tutta la vita, dovunque tu vada a rifugiarti, e questo sarà sufficiente per te. Il fatto che tu abbia respinto la grande sofferenza della croce ti servirà a sentire dentro di te un dovere ancora più grande, e questo costante sentimento, che ti accompagnerà tutta la vita, contribuirà a fare di te un uomo nuovo, molto di più che andare laggiù. Perché tu non lo sopporteresti e cominceresti a mormorare e, forse, arriveresti a dire: "Adesso siamo pari". L'avvocato aveva ragione: fardelli così pesanti non sono fatti per tutti gli uomini. Per alcuni sono addirittura insostenibili. 

Ecco quello che penso a questo proposito, se volevi saperlo. Se altre persone dovessero rispondere per la tua fuga, ufficiali o soldati, allora io "non te lo permetterei"», e dicendo questo Alëša sorrise. «Ma dicono e assicurano (l'ha detto quello stesso sovrintendente della tappa a Ivan) che potrebbe anche non esserci questo gran che di punizione, se la cosa viene fatta con accortezza, e che sarebbe possibile cavarsela con poco. Certo, la corruzione è disonesta anche in questo caso, ma io non mi metterò mica a giudicare, perché se Ivan e Katja chiedessero a me di occuparmi della faccenda per aiutare te, io so che andrei di persona a corrompere le persone; è un dovere per me dirti tutta la verità. E quindi non posso giudicare il tuo operato. Ma sappi che io non ti condannerò mai. E sarebbe anche strano che io mi mettessi a giudicarti in questa faccenda, vero? Adesso, credo di avere preso in considerazione ogni punto». 

 «Ma sono io che condannerò me stesso!», esclamò Mitja. «Io fuggirò, questo era stato deciso a prescindere da te. Che altro potrebbe fare Mit'ka Karamazov se non fuggire? Tuttavia mi condannerò e pregherò per il perdono del mio peccato per tutta la vita. È così che parlano i gesuiti, vero? Proprio come stiamo facendo io e te, in questo momento, non è vero?» 

 «Proprio così», rispose Alëša sorridendo dolcemente. 

 «Io ti voglio bene per il fatto che dici sempre la verità e non nascondi mai nulla», gridò Mitja con una risata gioiosa. «E così ho colto il mio Alëška mentre faceva il gesuita! Dovrei coprirti di baci solo per questo, ecco! Ma adesso ascolta anche il resto, voglio rivelarti l'altra metà della mia anima.

LA FUGA VERSO UN ALTRO  ESILIO

Ecco che cosa ho pensato e deciso: se fuggo, foss'anche con il denaro, foss'anche con il passaporto e foss'anche in America, mi rallegra il fatto che non vado incontro alla gioia, incontro alla felicità, ma in verità fuggo verso un altro esilio, brutto, forse, quanto questo! Brutto quanto questo, Aleksej, sto dicendo la verità! Io, quell'America - che il diavolo se la pigli! - la odio sin da adesso. 

Anche se Grušen'ka dovesse venire con me, ma guardala: ha forse l'aria di un'americana lei? Ella è russa, russa fino al midollo, ella avrà nostalgia della sua terra, ed io ogni ora mi accorgerò che lei soffre di nostalgia per causa mia, che ha preso su di sé questa croce per amore mio; ma che colpa ha lei? E come potrò sopportare la gentaglia del luogo, sebbene essi, tutti fino all'ultimo, potrebbero essere migliori di me? Io odio quest'America sin da adesso! E fossero tutti, dal primo all'ultimo, dei macchinisti eccellenti - che il diavolo se li porti! - quelli non sono la mia gente, non hanno la mia stessa anima. Io amo la Russia, Alëša, io amo il Dio russo, sebbene io stesso sia un mascalzone. Io soffocherò lì!», esclamò con gli occhi che gli brillavano. La sua voce tremava di lacrime. «Quindi ho deciso questo, Alëša, ascolta!», ricominciò a parlare dominando l'emozione. 

PROGETTI

«Non appena arriveremo lì, Gruša ed io, ci metteremo a lavorare immediatamente la terra, in solitudine, in qualche angolo remoto, con gli orsi selvaggi. Ci deve essere qualche posto remoto anche lì. Ho sentito che ci sono ancora i pellerossa da qualche parte, ai confini dell'orizzonte, e noi andremo proprio in quella landa, dagli ultimi dei mohicani. E ci metteremo subito a studiare la grammatica, Gruša ed io. Lavoro e grammatica, diciamo per tre anni di fila. Ed entro quel periodo, avremo imparato a parlare l'inglese meglio degli inglesi. E non appena l'avremo imparato, addio America! Ce ne torneremo in Russia come cittadini americani. Non ti preoccupare, non torneremo in questo buco di città. Ci nasconderemo da qualche parte, lontano, a nord oppure a sud. Per quell'epoca sarò cambiato, e anche lei; in America, da un dottore qualsiasi mi farò fare un porro posticcio, non per niente sono meccanici quelli! Oppure mi caverò un occhio, mi farò crescere la barba di mezzo metro, una barba canuta (sarà la nostalgia per la Russia che mi farà incanutire), e credo che nessuno ci riconoscerà. E se ci riconosceranno e ci manderanno in Siberia, non me ne importerà niente: vuol dire che era destino. Anche qui ci metteremo a lavorare la terra in qualche landa remota, e per tutta la vita farò finta di essere un americano. Ma almeno moriremo nella nostra terra. Questo è il mio piano e nulla lo potrà modificare. Lo approvi?» 

 «Lo approvo», rispose Alëša, che non lo voleva contraddire. Mitja tacque per un minuto, poi disse: 

LA BRUTTA FIGURA AL PROCESSO

 «Ma che brutta figura mi hanno fatto fare al processo! Mi hanno fatto fare una brutta figura, vero?» «Anche se non l'avessero fatto, ti avrebbero condannato lo stesso», replicò Alëša con un sospiro. 

 «Sì, sono venuto a noia al pubblico locale! Che Dio li benedica, ma è dura!», gemette Mitja dolorosamente. Tacquero per un altro minuto. «Alëša, finiscimi in questo momento!», esclamò egli all'improvviso. «Verrà lei adesso o non verrà? Dimmelo! Che cosa ha detto? Con che tono l'ha detto?» «Ha detto che sarebbe venuta, ma non so quando. È penoso per lei!», e Alëša guardò timidamente il fratello.