lunedì 31 maggio 2021

Pëtr Fomiè Kalganov.




 Giunsero in due vetture: nella prima, una lussuosa carrozza tirata da una pariglia di costosi cavalli, arrivò Pëtr Aleksandroviè Miusov in compagnia di un lontano parente, un uomo molto giovane, sui vent'anni, Pëtr Fomiè Kalganov. 


Questo giovanotto stava per entrare all'Università; Miusov, presso il quale viveva in quel periodo, lo voleva indurre a seguirlo all'estero, per iscriversi all'Università di Zurigo o Jena e completare lì gli studi. 

Il giovanotto non si decideva. Egli era pensieroso e come distratto. 


Aveva un viso gradevole, una corporatura robusta ed era di statura piuttosto alta. 


Nel suo sguardo si notava una strana immobilità: al pari di tutte le persone distratte, a volte fissava a lungo le persone, senza vederle affatto.

Era taciturno e alquanto goffo, ma a volte - ma solo quando si trovava a quattr'occhi con qualcuno - egli diventava all'improvviso terribilmente loquace, infervorato e gaio e rideva a sproposito. 

Ma la sua animazione svaniva con la stessa rapidità con la quale era sopraggiunta. Era sempre vestito impeccabilmente, persino con ricercatezza; aveva già acquisito un certo patrimonio che lo rendeva indipendente e si aspettava di migliorare ancora la sua posizione. Era amico di Alëša.




LIBRO SECONDO • UNA RIUNIONE INOPPORTUNA

PREMESSA: L'IDEA DELLA RIUNIONE DALLO STAREC 

CAPITOLO PRECEDENTE







Fu proprio in quel periodo che ebbe luogo l'incontro o, per meglio dire, la riunione fra tutti i membri di quella dissestata famiglia nella cella dello starec, riunione che doveva avere una portentosa influenza su Alëša. 


 Il pretesto di quella riunione in realtà era inconsistente. 

In quel periodo il disaccordo tra Dmitrij Fëdoroviè e Fëdor Pavloviè, in merito all'eredità e alla valutazione dei beni, era arrivato a un livello intollerabile. I loro rapporti si erano inaspriti ed erano diventati insostenibili. 

Pare che Fëdor Pavloviè avesse lanciato per primo, e per scherzo, l'idea che tutti si riunissero nella cella dello starec Zosima, allo scopo, se non proprio di ricorrere alla sua diretta intermediazione, almeno di giungere ad un accordo in maniera più decorosa, sotto l'influenza ispiratrice e riappacificatrice della dignità e della persona dello starec. 

Dmitrij Fëdoroviè, che non aveva mai visitato né visto lo starec, pensò ovviamente che il padre in quel modo lo volesse spaventare, ma poiché si era più volte rimproverato in cuor suo di molti suoi recenti scatti d'ira nella disputa con il padre, accettò l'invito. Noteremo a proposito che egli non viveva in casa del padre, come Ivan Fëdoroviè, ma per conto proprio, all'altro capo della città. 


Accadde che anche Pëtr Aleksandroviè Miusov, che in quel periodo viveva nella nostra città, si attaccasse in modo particolare a quella idea di Fëdor Pavloviè. Liberale degli anni '40 e '50, libero pensatore e ateo, egli, forse per noia o forse per frivolo passatempo, ebbe un ruolo eccezionale in quella vicenda. Gli venne improvvisamente voglia di vedere il monastero e il "santo". Dal momento che ancora si protraevano le vecchie dispute con il monastero ed andava per le lunghe la causa sul confine fondiario dei suoi possedimenti, sui diritti di taglio nel bosco e di pesca nel fiume e via dicendo, egli si affrettò a sfruttare la situazione con la scusa di volersi mettere d'accordo di persona con il padre igumeno per vedere se fosse possibile ricomporre i loro contrasti in maniera pacifica. Avrebbero certo accolto con maggiore attenzione e considerazione un visitatore animato da tali lodevoli intenzioni, piuttosto che un semplice curioso.


 In seguito a tutte queste considerazioni, si poté organizzare una specie di pressione interna al monastero sullo starec malato che, negli ultimi tempi, non abbandonava quasi mai la cella e, a causa della malattia, non riceveva neanche i visitatori abituali. Andò a finire che lo starec dette il suo consenso e si fissò la data. «Chi mi ha messo a fare da giudice fra di loro?», si limitò a commentare con un sorriso ad Alëša. Quando Alëša venne a sapere dell'incontro, ne fu molto turbato.


Egli capiva che, in mezzo a quei litiganti e contendenti, l'unico che potesse prendere sul serio quel convegno era senza dubbio il fratello Dmitrij; tutti gli altri sarebbero venuti con propositi fatui e forse anche offensivi nei confronti dello starec. Il fratello Ivan e Miusov sarebbero venuti mossi dalla curiosità, e probabilmente della specie più volgare, mentre suo padre sarebbe venuto forse allo scopo di recitare qualcuna delle sue farse. Oh, anche se non parlava, Alëša conosceva a fondo suo padre! Lo ripeto: quel ragazzo non era affatto così ingenuo come molti lo consideravano. Attendeva con apprensione la data prefissata. Senza dubbio egli si preoccupava molto, nel profondo del suo cuore, di come potessero concludersi quei disaccordi familiari. Nondimeno era più di tutto preoccupato per lo starec: egli trepidava per lui, per la sua fama, temeva gli oltraggi alla sua persona, soprattutto l'ironia sottile e garbata di Miusov e le mezze reticenze sprezzanti del colto Ivan: ecco come prevedeva che sarebbe andata a finire. Egli voleva quasi azzardarsi a mettere in guardia lo starec, anticipargli qualcosa sulle persone che sarebbero potute venire, ma ci ripensò e tacque.


Mandò soltanto a dire al fratello Dmitrij, attraverso un conoscente, alla vigilia dell'incontro che gli voleva molto bene, e che si aspettava che lui mantenesse la promessa. 

Dmitrij stette lì a pensare, perché non riusciva assolutamente a ricordare quale promessa gli avesse fatto e rispose per lettera che avrebbe fatto del suo meglio per resistere «davanti alla bassezza», ma per quanto rispettasse profondamente lo starec e il fratello Ivan, era convinto che quell'incontro sarebbe stato un tranello per lui oppure un'indegna farsa. 

«Tuttavia, ingoierei la lingua piuttosto che mancare di rispetto a quel santo uomo che tu stimi tanto»: così concluse Dmitrij la sua missiva. Alëša non ne fu gran che sollevato. 





 I • Giungono al monastero 


 Era una magnifica giornata, mite e luminosa. Si era alla fine di agosto. L'incontro con lo starec era fissato per le undici e mezza circa, subito dopo l'ultima messa.

L'EREMO DELLO STAREC




I visitatori lasciarono le carrozze fuori dal recinto, alla foresteria, ed entrarono a piedi nel portone del monastero. Tranne Fëdor Pavloviè, nessuno della compagnia aveva mai visitato un monastero; Miusov non entrava in una chiesa che erano più o meno trent'anni. Egli si guardava intorno con una certa curiosità, non priva di affettata disinvoltura. Ma per la sua mente osservatrice, oltre agli edifici religiosi e di servizio, per altro abbastanza ordinari, all'interno del monastero non c'era niente da vedere. Gli ultimi fedeli stavano uscendo dalla chiesa, levandosi il berretto e segnandosi. In mezzo alla gente del popolo si notavano anche fedeli appartenenti ai ceti più alti della società: due o tre signore, un generale molto anziano; alloggiavano tutti alla foresteria. I mendicanti attorniarono subito i nostri visitatori, ma nessuno dette loro niente. Soltanto Petruša Kalganov trasse dal suo portamonete una moneta da dieci copeche e, nervoso e imbarazzato Dio solo sa perché, la allungò in tutta fretta a una vecchia, dicendo in fretta: «Dividetela equamente». Nessuno commentò questo suo gesto, quindi non c'era motivo di sentirsi in imbarazzo, eppure, notando questo, si confuse ancora di più.



 



«Lo starec Zosima vive nell'eremo, nell'eremo isolato, a circa quattrocento passi dal monastero, oltre il boschetto, oltre il boschetto...» «Lo so che è oltre il boschetto», gli rispose Fëdor Pavloviè, «ma non ci ricordiamo la strada, è un bel pezzo che non ci veniamo». «Ecco, entrate da quel portone e poi dritto per il boschetto...per il boschetto. Venite. Se volete... anch'io... Ecco, da questa parte, da questa parte...» Essi uscirono dal portone e si avviarono per il boschetto.


 




 «Guardate in che valle di rose vivono costoro!» E difatti, anche se non c'erano rose in quel momento, vi fiorivano una miriade di rari e stupendi fiori autunnali dappertutto, dovunque vi fosse un po' di spazio per piantarli. Evidentemente li curava una mano esperta. C'erano aiuole intorno alle chiese e tra le tombe. Anche la casetta di legno, ad un piano, con un portico davanti all'ingresso, nella quale si trovava la cella dello starec, era circondata da fiori.

domenica 30 maggio 2021

Pëtr Aleksandroviè Miusov


LIBRO PRIMO








FORMAZIONE LIBERALE A PARIGI

Ma accadde che tornò da Parigi il cugino della defunta Adelaida Ivanovna, Pëtr Aleksandroviè Miusov. Questi in seguito visse molti anni all'estero, ma allora era ancora molto giovane e spiccava fra i Miusov per la sua cultura, perché era vissuto nella capitale e all'estero e, dopo essere stato di gusti europei per tutta una vita, alla fine era diventato un liberale degli anni '40 e '50. Nel corso della sua carriera aveva avuto rapporti con molti degli uomini più liberali della sua epoca, sia in Russia sia all'estero, conosceva personalmente Proudhon e Bakunin e amava in particolar modo ricordare e raccontare, oramai verso la fine dei suoi pellegrinaggi, dei tre giorni della rivoluzione del febbraio '48 a Parigi, alludendo al fatto che per poco non aveva preso parte personalmente agli scontri sulle barricate. Era uno dei ricordi più felici della sua giovinezza. 


PROPRIETA'

Aveva una proprietà che gli garantiva una vita indipendente, di circa mille anime secondo le vecchie misurazioni. La magnifica tenuta si trovava alle porte della nostra cittadina e confinava con le terre del nostro rinomato monastero, con il quale Pëtr Aleksandroviè, sin dagli anni della prima giovinezza, subito dopo l'assegnazione dell'eredità, aveva intrapreso immediatamente una causa interminabile per il diritto di pesca nel fiume o di taglio nel bosco, non so con precisione, ma aveva ritenuto persino un suo dovere di cittadino e persona illuminata far causa ai "clericali". 

RITORNO IN CITTA' E AFFIDAMENTO DI MITJA

Dopo aver appreso tutta la storia di Adelaida Ivanovna che lui, s'intende, ricordava e per la quale un tempo aveva persino avuto un certo interesse, e avendo saputo dell'esistenza di Mitja egli, nonostante tutto il suo sdegno giovanile e il disprezzo per Fëdor Pavloviè, s'immischiò nella faccenda. In quella occasione incontrò per la prima volta Fëdor Pavloviè. Gli comunicò su due piedi che avrebbe desiderato occuparsi dell'educazione del bambino. In seguito raccontò per molto tempo, come un fatto caratteristico, che quando aveva cominciato a parlare di Mitja con Fëdor Pavloviè, questi aveva avuto per un pezzo l'aria di quello che assolutamente non capisce di quale bambino si stia parlando e si meraviglia persino di avere un figlioletto in qualche angolo della casa. Forse il racconto di Pëtr Aleksandroviè poteva essere un po' esagerato, ma ci doveva pur essere qualcosa di vero.

Pëtr Aleksandroviè condusse la faccenda con fervore e fu persino nominato tutore del bambino (congiuntamente a Fëdor Pavloviè), visto che dopo la morte della madre gli erano pur sempre rimasti una piccola tenuta, una casa e un podere. Mitja si trasferì di fatto da questo cugino di secondo grado,

ANCORA A PARIGI (1848)

... ma questi non aveva una famiglia propria e, dal momento che lui stesso, subito dopo aver sistemato e assicurato i redditi delle sue proprietà, si affrettò subito a partire per Parigi per un lungo periodo, ecco che affidò il bambino a una sua zia di secondo grado, una nobildonna moscovita. Accadde che, vivendo permanentemente a Parigi, anche lui si dimenticò del bambino, soprattutto quando ebbe inizio quella rivoluzione di febbraio che tanto colpì la sua immaginazione e che egli non poté dimenticare per tutta la vita.


GIUDIZIO DU ALEKSEI

Una volta Pëtr Aleksandroviè Miusov, uomo estremamente sensibile rispetto ai soldi e alla rettitudine borghese, dopo aver osservato attentamente Aleksej, pronunciò su di lui il seguente aforisma: «Ecco, forse, l'unico uomo al mondo che se rimanesse all'improvviso da solo e senza soldi nella piazza di una città sconosciuta di un milione di abitanti, non si perderebbe affatto d'animo e non morirebbe né di fame né di freddo, perché in un batter d'occhio lo rifocillerebbero, in un batter d'occhio gli troverebbero una sistemazione e, qualora non gliela trovassero gli altri, se la troverebbe in un batter d'occhio da solo, e questo a lui non costerebbe nessuno sforzo e nessuna umiliazione, e a chi lo accogliesse nessun peso, ma forse, al contrario, questi lo considererebbe un piacere».


GIUDIZIO SU IVAN

. Pëtr Aleksandroviè Miusov, del quale ho già parlato prima, lontano parente di Fëdor Pavloviè da parte della prima moglie, si trovava ancora dalle nostre parti in quel periodo per visitare la sua proprietà alle porte della città, nel corso di un breve soggiorno lontano da Parigi, dove si era definitivamente stabilito. Ricordo che fu proprio lui a meravigliarsi più di tutti dopo aver conosciuto quel giovanotto, che destò un intenso interesse in lui, e con il quale, con suo dispiacere, ebbe parecchi battibecchi su argomenti intellettuali. 

«Egli è orgoglioso», ci diceva allora di lui, «saprà sempre procurarsi denaro, anche adesso ha i soldi necessari per andare all'estero, a che gli serve stare qui? È chiaro a tutti che non è venuto qui per i soldi, perché in ogni caso il padre non glieli darebbe. Non ama bere né fare bagordi, e intanto il vecchio non può fare a meno di lui, tanto vanno d'accordo!». 

Era la verità, il giovanotto aveva una palese influenza sul vecchio; questi aveva quasi cominciato a dargli ascolto, sebbene a volte fosse estremamente e, persino perfidamente, capriccioso; aveva persino cominciato a comportarsi in modo più decente...




L'IDEA DELLA RIUNIONE DI FAMIGLIA


Pëtr Aleksandroviè Miusov, che in quel periodo viveva nella nostra città, si attaccasse in modo particolare a quella idea di Fëdor Pavloviè. Liberale degli anni '40 e '50, libero pensatore e ateo, egli, forse per noia o forse per frivolo passatempo, ebbe un ruolo eccezionale in quella vicenda. 

Gli venne improvvisamente voglia di vedere il monastero e il "santo". Dal momento che ancora si protraevano le vecchie dispute con il monastero ed andava per le lunghe la causa sul confine fondiario dei suoi possedimenti, sui diritti di taglio nel bosco e di pesca nel fiume e via dicendo, egli si affrettò a sfruttare la situazione con la scusa di volersi mettere d'accordo di persona con il padre igumeno per vedere se fosse possibile ricomporre i loro contrasti in maniera pacifica. Avrebbero certo accolto con maggiore attenzione e considerazione un visitatore animato da tali lodevoli intenzioni, piuttosto che un semplice curioso.


LIBRO SECONDO


 Giunsero in due vetture: nella prima, una lussuosa carrozza tirata da una pariglia di costosi cavalli, arrivò Pëtr Aleksandroviè Miusov in compagnia di un lontano parente, un uomo molto giovane, sui vent'anni, Pëtr Fomiè Kalganov. Questo giovanotto stava per entrare all'Università; Miusov, presso il quale viveva in quel periodo, lo voleva indurre a seguirlo all'estero, per iscriversi all'Università di Zurigo o Jena e completare lì gli studi.



I visitatori lasciarono le carrozze fuori dal recinto, alla foresteria, ed entrarono a piedi nel portone del monastero. Tranne Fëdor Pavloviè, nessuno della compagnia aveva mai visitato un monastero; Miusov non entrava in una chiesa che erano più o meno trent'anni. Egli si guardava intorno con una certa curiosità, non priva di affettata disinvoltura. Ma per la sua mente osservatrice, oltre agli edifici religiosi e di servizio, per altro abbastanza ordinari, all'interno del monastero non c'era niente da vedere.



  Miusov guardava distrattamente le pietre sepolcrali intorno alla chiesa e avrebbe voluto commentare che quelle tombette dovevano essere costate piuttosto care ai parenti dei defunti per il privilegio di sepoltura in un posto così "sacro", ma se ne stette zitto: la sua ironia liberale stava per trasformarsi in rabbia. «A chi diavolo dobbiamo rivolgerci in questa gabbia di matti?... Dobbiamo pur scoprirlo, qui il tempo passa», disse all'improvviso come parlando fra sé.

INVITO A PRANZO DALL'IGOUMENO

«Vedete, noi andiamo dallo starec per una faccenda nostra», osservò severamente Miusov. «Quella personalità ci ha concesso un'udienza, diciamo così, quindi, per quanto grati di averci indicato la strada, non possiamo invitarvi ad entrare insieme a noi». «Io ci sono stato, ci sono stato, ci sono già stato... Un chevalier parfait!», e il proprietario schioccò le dita in aria. «Chi sarebbe questo chevalier?», domandò Miusov. «Lo starec, l'esimio starec, lo starec... L'onore e la gloria del monastero, Zosima. È uno starec così...» Ma il suo discorso sconclusionato venne interrotto dal sopraggiungere di un monacello con il cappuccio sulla testa, di bassa statura, molto pallido ed emaciato. Fëdor Pavloviè e Miusov si fermarono. Il monaco, con un inchino estremamente cortese e profondo, annunciò: «Dopo la visita all'eremo, il padre igumeno prega umilmente voi tutti di recarvi a pranzo da lui. All'una, non più tardi. Anche voi», disse rivolgendosi a Maksimov.
 




«Perdonatemi...», prese a dire Miusov rivolto allo starec, «forse anche io vi sembrerò complice di questo ignobile scherzo. Il mio errore è stato quello di credere che persino un tipo come Fëdor Pavloviè, in occasione della visita a un persona così venerabile, si rendesse conto dei propri doveri... Non immaginavo che avrei dovuto scusarmi per il fatto di essere venuto in sua compagnia...» Pëtr Aleksandroviè non finì di parlare e, tutto confuso, fece per uscire dalla stanza. «Non inquietatevi, vi prego», lo starec si alzò all'improvviso dal suo posto sulle gambe malferme e, prendendo Pëtr Aleksandroviè per entrambe le mani, lo fece risedere al suo posto. «State tranquillo, vi prego. Chiedo a voi, in modo particolare, di rimanere mio ospite». Fece un inchino, si girò e si sedette di nuovo sul suo divanetto.

quando lo starec fece ritorno nella cella trovò i suoi ospiti impegnati in una accesa discussione. I protagonisti principali della discussione erano Ivan Fëdoroviè e i due ieromonaci. Anche Miusov interveniva di tanto in tanto e, a quanto pareva, in modo abbastanza infervorato, ma anche questa volta la fortuna non era dalla sua parte: egli ricopriva un ruolo di secondo piano, le sue osservazioni erano tenute in poco conto e questa nuova circostanza non faceva che alimentare l'irritazione che si era accumulata in lui. Il fatto è che anche in passato egli aveva avuto degli scontri intellettuali con Ivan Fëdoroviè e non riusciva ad accettare, con il dovuto distacco, la noncuranza con la quale quel giovane lo trattava: "Fino ad oggi, sono sempre stato in prima linea in quanto di più progredito ci fosse in Europa, mentre questa nuova generazione ci ignora decisamente", pensava tra sé e sé. Fëdor Pavloviè, che aveva dato spontaneamente la parola di rimanersene zitto e al suo posto, era davvero rimasto buono buono per un po' di tempo, ma, con un sorrisetto beffardo, osservava il suo vicino Pëtr Aleksandroviè e si rallegrava visibilmente della sua irritazione.



«Permettetemi di raccontarvi un piccolo aneddoto, signori», disse all'improvviso Miusov con un tono grave e un'aria di particolare importanza. «A Parigi, alcuni anni or sono, subito dopo il colpo di stato di dicembre, un giorno, nel corso di una visita a un personaggio molto, molto importante, a quel tempo legato al governo, mi capitò di incontrare in casa sua un signore curiosissimo. Quell'individuo non era un semplice investigatore, ma una specie di sovrintendente di un'intera squadra di investigatori politici, e ricopriva una carica di grande potere nel suo genere. Spinto dalla curiosità, approfittai dell'occasione di conversare con lui; dal momento che egli era stato ricevuto non in qualità di visitatore, ma di funzionario subalterno che faceva il suo speciale rapporto, e considerato pure che, dal canto suo, aveva notato come ero stato ricevuto dal suo capo, si degnò di parlarmi con una certa franchezza, fino a un certo punto, s'intende, cioè fu più cortese che franco, proprio come sanno essere cortesi i francesi, tanto più che in me vedeva uno straniero. Io l'avevo inquadrato alla perfezione. La conversazione verteva sui rivoluzionari socialisti che in quel periodo erano oggetto di persecuzione. Tralasciando il succo della conversazione, riferirò soltanto un'osservazione molto curiosa che si lasciò sfuggire quel tipo: "Noi", disse, "in sostanza non abbiamo molta paura di tutti questi socialisti, anarchici e rivoluzionari; li teniamo d'occhio e conosciamo le loro mosse. Ma fra di loro militano, benché non in gran numero, degli individui particolari: essi credono in Dio, sono cristiani e nel contempo sono socialisti. Ecco, quelli li temiamo più di tutti, quella è gente formidabile! Un socialista cristiano è assai più temibile di un socialista ateo!" Queste parole mi colpirono anche allora, ma adesso, qui con voi, mi sono ritornate alla mente all'improvviso...»

«Chiedo ancora una volta il permesso di sorvolare su questo argomento», ribadì Pëtr Aleksandroviè, «invece vi racconterò un altro aneddoto, signori, su Ivan Fëdoroviè in persona, un aneddoto molto interessante e molto caratteristico. Non più tardi di cinque giorni fa, durante una riunione qui in città, alla quale prendevano parte in prevalenza signore, egli ha dichiarato solennemente, nel corso di una discussione, che in tutta la terra non esiste assolutamente nulla che possa costringere gli uomini ad amare i propri simili e che non esiste affatto una legge della natura in base alla quale l'uomo debba amare l'umanità, e che se esiste ed è finora esistito amore sulla terra, ciò non è dovuto a una legge naturale, ma esclusivamente al fatto che gli uomini hanno creduto nella propria immortalità. Ivan Fëdoroviè aggiunse, tra parentesi, che proprio in questo consiste la legge naturale, quindi, se provaste a distruggere nell'umanità la fede nella propria immortalità, in essa si estinguerebbe immediatamente non soltanto l'amore, ma qualunque forza vitale per continuare la vita sulla terra. E non solo: non ci sarebbe più nulla di immorale, sarebbe tutto permesso, persino l'antropofagia. E, come se non bastasse, ha concluso affermando che per ogni individuo, come noi adesso per esempio, che non crede né in Dio, né nella propria immortalità, la legge morale della natura dovrà immediatamente trasformarsi nell'esatto contrario della legge religiosa prima vigente e l'egoismo umano, spinto eventualmente addirittura al crimine, deve essere non solo consentito, ma persino riconosciuto come l'esito necessario, il più razionale e quasi il più nobile nella sua posizione. Da tale paradosso, signori, potete dedurre tutto il resto delle teorie che proclama e, forse, ha intenzione di proclamare anche adesso, il nostro caro eccentrico e paradossale Ivan Fëdoroviè». 

Gli starcy


 


V • Gli starcy 

REALISMO E FEDE

 ... ma a me sembra che Alëša fosse persino più realista di molti altri. 

Certo, quando era al monastero egli credeva fermamente nei miracoli ma, secondo me, i miracoli non metteranno mai a disagio un realista. Non sono i miracoli a fare propendere il realista verso la fede. Un vero realista, se non è credente, troverà sempre in se stesso la forza e la capacità di non credere neanche nel miracolo, ma se il miracolo diventasse un fatto innegabile lì davanti ai suoi occhi, egli sarebbe disposto a non credere ai propri sensi piuttosto che ammettere il fatto. E se lo ammettesse, lo ammetterebbe come un fatto naturale fino a quel momento a lui ignoto. In un realista non è la fede a nascere dal miracolo, ma è il miracolo a nascere dalla fede. E una volta che il realista crede, allora egli dovrà inevitabilmente ammettere, proprio per via del suo realismo, anche il miracolo. L'apostolo Tommaso disse che non avrebbe creduto finché non avesse visto e quando vide disse: «Signore mio, Dio mio!» Fu il miracolo a costringerlo a credere? È molto probabile di no: egli credette unicamente perché voleva credere e, forse, già credeva ciecamente, nel profondo del suo cuore, persino quando diceva: «Non crederò finché non avrò veduto». 

 Mi si potrà dire che Alëša fosse ottuso, poco colto, che non aveva finito la scuola e così via. Che non avesse finito la scuola è vero, ma dire che egli fosse ottuso o stupido sarebbe una grave ingiustizia. Ripeterò semplicemente quello che ho già detto: egli imboccò quella strada unicamente perché, a quel tempo, essa sola lo aveva colpito e si presentava a lui, per così dire, come l'ideale dell'esodo della sua anima che si strappava dalle tenebre per andare verso la luce. Aggiungete a questo che egli era già, in parte, un giovane dei nostri tempi, cioè onesto di natura, uno che desiderava la verità, la ricercava e ci credeva, e quando credeva in qualcosa, voleva prendervi parte immediatamente, con tutta la forza della propria anima, e poi sentiva l'esigenza dell'azione immediata e l'irresistibile desiderio di sacrificare anche tutto per essa, persino la vita. Eppure, purtroppo, questi giovani non si rendono conto che il sacrificio della vita è, forse, in molti casi, il più facile fra tutti i sacrifici e che sacrificare, per esempio, cinque o sei anni della propria impetuosa giovinezza a uno studio arduo e faticoso, al sapere, sebbene allo scopo di decuplicare in se stessi le forze per servire quella stessa verità e quella stessa causa che si è presa a cuore e che ci si è proposti di perseguire, è molto spesso superiore alle forze di molti di loro. Alëša aveva scelto la strada opposta a quella di tutti gli altri, ma con la stessa brama di azione immediata. Non appena si fu convinto, dopo una seria riflessione, dell'esistenza di Dio e dell'immortalità, egli si era subito detto, istintivamente: «Voglio vivere per l'immortalità, non accetto compromessi». Allo stesso modo, se avesse concluso che l'immortalità e Dio non esistono, sarebbe passato, detto fatto, dalla parte degli atei e dei socialisti (giacché il socialismo non è solo la questione operaia, o il cosiddetto quarto stato, ma è principalmente la questione dell'ateismo, la questione della forma che l'ateismo assume oggi, la questione della torre di Babele costruita senza Dio, non già per raggiungere il cielo dalla terra, ma per portare il cielo sulla terra). Ad Alëša sembrava persino strano e impossibile continuare a vivere come prima. È scritto: «Da' tutto quello che hai e seguimi se vuoi essere perfetto». E anche Alëša aveva detto a se stesso: «Non posso dare due rubli al posto di "tutto" e andare alla messa invece di "seguire Lui"». Forse nei ricordi della sua prima infanzia era rimasta traccia del monastero alla periferia della nostra cittadina, dove la madre probabilmente lo portava a messa. Può darsi che sulla sua immaginazione abbiano influito anche i raggi obliqui del sole che tramontava davanti all'immagine sacra, verso la quale lo protendeva la sua mamma, la klikuša. Tutto assorto nei suoi pensieri era arrivato da noi, forse solo per dare un'occhiata, per vedere se lì si dava tutto o soltanto due rubli, ma poi nel monastero aveva incontrato quello starec...

LO STAREC ZOSIMA

Quello starec, come ho già spiegato prima, era lo starec Zosima; ma a questo punto bisognerebbe spiegare chi siano in generale gli starcy nei nostri monasteri ed è un peccato che in questo campo non mi senta abbastanza competente e ferrato. Tenterò comunque di dire quattro parole a proposito, a grandi linee. In primo luogo, i competenti e gli specialisti dicono che gli starcy e l'istituto dello starèestvo abbiano fatto la loro comparsa fra di noi, nei nostri monasteri russi, in tempi molto recenti - pare che non sia passato nemmeno un secolo - mentre in tutto l'Oriente ortodosso, in particolare nel Sinai e sul Monte Athos, esistono da più di mille anni. Sostengono che lo starèestvo sia esistito anche da noi nella Rus' in tempi remoti, o per lo meno che debba senz'altro essere esistito, ma in seguito alle sciagure che si abbatterono sulla Russia - il dominio tataro, il periodo dei torbidi, l'interruzione delle precedenti relazioni con l'Oriente, seguita alla conquista di Costantinopoli, - questa istituzione cadde nell'oblio e gli starcy cessarono di esistere. Lo starèestvo venne ripristinato fra noi verso la fine del secolo scorso, per merito di uno dei grandi anacoreti (come lo chiamano), Paisij Velièkovskij, e dei suoi discepoli, ma a tutt'oggi, dopo ben cento anni, questo istituto esiste solo in pochi monasteri ed è stato persino oggetto di una sorta di persecuzione, come fosse stata un'innovazione inaudita in Russia. Lo starèestvo ha prosperato nella nostra Rus' soprattutto nel celebre eremitaggio di Kozel'skaja Optina. Ignoro chi e quando lo abbia introdotto nel monastero alla periferia della nostra città, ma a quel tempo vi si contava già la terza generazione di starcy, l'ultima delle quali era rappresentata dallo starec Zosima, ma anche lui ormai stava morendo per il deperimento e la malattia e non vi era nessuno che potesse prendere il suo posto. Era una questione importante per il nostro monastero, poiché fino ad allora esso non si era distinto per nulla di particolare: non vi si conservavano reliquie di santi, né icone miracolose, non godeva nemmeno di tradizioni gloriose legate alla nostra storia, non figuravano a suo nome imprese storiche o meriti patriottici. Aveva prosperato ed acquisito fama in tutta la Russia proprio grazie agli starcy; per vederli e ascoltarli affluivano da noi moltitudini di fedeli dall'intera Russia, anche da migliaia di verste di distanza. Ma allora che cos'è uno starec? Lo starec è colui che accoglie la vostra anima, la vostra volontà nella propria anima, nella propria volontà. Quando scegliete uno starec, voi rinunciate alla vostra volontà e gliela affidate in completa sottomissione, con assoluta abnegazione. Questo tirocinio, questa terribile scuola di vita viene accettata spontaneamente da colui che offre se stesso, nella speranza, al termine della lunga prova, di sconfiggere il proprio essere e di dominarsi fino al punto di conquistare infine, attraverso una vita di ubbidienza, la libertà assoluta, vale a dire la libertà da se stesso, per evitare il destino di coloro che hanno vissuto tutta una vita senza trovare dentro di sé se stessi. 




Questa istituzione, lo starèestvo appunto, non è fondata sulla teoria, ma è nata in Oriente da una pratica ormai millenaria. Gli obblighi nei confronti dello starec non corrispondono alla consueta "ubbidienza" che è sempre esistita nei nostri monasteri russi. Lo starèestvo impone la confessione perpetua di tutti coloro che si sono assoggettati allo starec e il legame indissolubile tra colui che lega e colui che è legato. Si narra per esempio che una volta, agli albori del cristianesimo, un novizio che non aveva eseguito un certo ordine impartitogli dallo starec, lasciò il suo monastero in Siria e andò in Egitto. Lì, dopo molte grandi imprese, meritò finalmente di patire i tormenti e il martirio per la fede. Mentre la comunità, che lo considerava già un santo, gli dava una degna sepoltura, all'esclamazione del diacono: «Catecumeni, uscite», la bara con il corpo del martire si staccò dal suo posto e fu scaraventata fuori dalla chiesa per ben tre volte. Solo alla fine vennero a sapere che quel santo martire aveva rotto il voto di ubbidienza abbandonando il suo starec e per questo, senza l'assoluzione dello starec, non poteva nemmeno essere perdonato nonostante avesse compiuto grandi gesta. Solo quando lo starec, convocato per l'occasione, lo sciolse dal voto di ubbidienza, poté aver luogo la sepoltura. Naturalmente, questa è solo un'antica leggenda, ma ecco un episodio recente: un monaco dei giorni nostri conduceva vita ascetica sul Monte Athos quando un bel giorno il suo starec gli ordinò di lasciare il Monte Athos, che egli amava con tutta la sua anima come una cosa sacra, come un rifugio di pace, e di andare prima a Gerusalemme a rendere omaggio ai luoghi sacri, e poi di tornare in Russia, al nord, in Siberia: «Là è il tuo posto, non qui». Confuso e stravolto dal dolore, il monaco si presentò dal patriarca ecumenico a Costantinopoli e lo pregò di scioglierlo dal voto di ubbidienza; ma ecco che l'autorità suprema gli rispose che non solo lui, patriarca ecumenico, non poteva fare una cosa simile, ma che in tutta la terra non c'era, né ci poteva essere autorità in grado di scioglierlo dal voto d'ubbidienza, una volta che questo gli era stato imposto da uno starec, fatta eccezione per l'autorità di quello stesso starec che glielo aveva imposto. 


Quindi gli starcy sono investiti di un potere che in certi casi è assoluto e imperscrutabile. Ecco perché in molti monasteri da noi lo starèestvo è stato persino oggetto di persecuzione. Nel contempo il popolo ha cominciato immediatamente a nutrire un grande rispetto per gli starcy. 

Dagli starcy del nostro monastero, per esempio, affluivano in massa sia gente del popolo sia persone eminenti allo scopo di prostrarsi dinanzi a loro e confessare i propri dubbi, i propri peccati, le proprie sofferenze, chiedere consiglio e guida. Vedendo questo, i detrattori degli starcy gridavano, oltre alle solite accuse, che qui si mortificava con arroganza e leggerezza il sacramento della confessione, sebbene la pratica di aprire continuamente la propria anima allo starec da parte del novizio e dei laici non abbia affatto il carattere di sacramento. Comunque, l'istituto dello starèestvo ha finito col resistere a queste accuse e pian pianino sta prendendo piede nei monasteri russi. Forse è anche vero che questo sperimentato e ormai millenario strumento di rigenerazione morale dell'uomo dalla schiavitù alla libertà e al perfezionamento morale può trasformarsi in un'arma a doppio taglio, perché potrebbe condurre qualcuno, invece che all'umiltà e al completo autocontrollo, proprio all'orgoglio più satanico, e quindi alla schiavitù e non alla libertà. 



 Lo starec Zosima aveva circa sessantacinque anni, proveniva da una famiglia di proprietari terrieri; un tempo, nella prima giovinezza, era stato militare e aveva prestato servizio in Caucaso con il grado di ufficiale superiore. Senza dubbio, egli aveva colpito Alëša per qualche speciale qualità della sua anima. Alëša viveva nella stessa cella dello starec, che lo amava molto e lo aveva accolto presso di sé. Occorre notare che, pur vivendo nel monastero, Alëša allora non aveva alcun obbligo, poteva andare dove voleva, assentarsi anche per giorni interi, e se indossava la tonaca, lo faceva volontariamente, per non distinguersi dagli altri. E senza dubbio questo gli faceva piacere. È probabile che sull'immaginazione giovanile di Alëša producesse un forte effetto il potere e la fama che circondavano incessantemente la persona dello starec. Dello starec Zosima molti dicevano che, avendo egli ammesso alla propria presenza, per tanti anni, tutti quelli che venivano ad aprirgli il proprio cuore, desiderosi di un suo consiglio e di una sua parola consolatoria, aveva accolto nella sua anima tante di quelle rivelazioni, sofferenze, confessioni da acquisire alla fine una preveggenza così acuta che gli bastava un'occhiata al viso dello sconosciuto visitatore per intuire il motivo della sua visita, che cosa voleva e persino che tipo di sofferenza tormentava la sua coscienza; egli alle volte destava meraviglia, turbamento e persino spavento nel suo visitatore quando questi si accorgeva che lo starec conosceva il suo segreto prima ancora di aver aperto bocca. Ma Alëša notava quasi sempre che molti, quasi tutti, coloro che si recavano per la prima volta dallo starec per un colloquio a quattr'occhi, entravano impauriti e agitati ma uscivano sereni e contenti, e anche il viso più cupo diveniva felice. Alëša fu particolarmente impressionato anche dal fatto che lo starec non era affatto severo; al contrario egli era quasi sempre allegro. 


 I monaci dicevano che egli si affezionava a chi aveva più peccato: più uno aveva peccato e più egli lo amava. Fra i monaci ci furono quelli che odiarono e invidiarono lo starec fino alla fine dei suoi giorni, ma erano rimasti in pochi e tacevano, sebbene tra di loro ci fossero alcune personalità molto note e importanti nel monastero, come per esempio uno dei monaci più anziani, un campione nell'attenersi alla regola del silenzio e uno straordinario digiunatore. 


Tuttavia la stragrande maggioranza stava ormai, senza ombra di dubbio, dalla parte dello starec Zosima e fra di essi molti lo amavano con tutto il cuore, fervidamente, sinceramente; alcuni nutrivano per lui una devozione che sfiorava il fanatismo. Questi ultimi dichiaravano apertamente, ma non proprio ad alta voce, che egli era un santo, che non c'erano più dubbi su questo, e, prevedendo l'imminente sua dipartita, si attendevano addirittura miracoli immediati e una grande gloria nel prossimo futuro per il monastero grazie all'estinto. Anche Alëša credeva incondizionatamente nella potenza miracolosa dello starec, così come incondizionatamente credeva al racconto della bara volata fuori dalla chiesa. 


Egli vedeva che molti dei fedeli che arrivavano con bambini o anziani parenti malati affinché lo starec imponesse loro le mani e recitasse una preghiera su di loro, tornavano ben presto, alcuni persino il giorno dopo e, in ginocchio, in lacrime davanti allo starec, lo ringraziavano per la guarigione dei loro malati. Si trattava di vera guarigione o soltanto di un naturale miglioramento nel decorso della malattia? Alëša non si poneva nemmeno una tale domanda, giacché egli era già fermamente convinto della potenza spirituale del maestro e gioiva della gloria di lui come di un trionfo personale. Il suo cuore palpitava in particolar modo, ed egli sembrava tutto raggiante, quando lo starec usciva per incontrare la folla di fedeli che aspettava la sua apparizione presso le porte dell'eremo: era tutta gente semplice, convenuta da ogni parte della Russia apposta per vedere lo starec e ricevere la sua benedizione. Essi si inchinavano dinanzi a lui, piangevano, gli baciavano i piedi, baciavano la terra che lui calpestava, urlavano, le donne protendevano verso di lui i propri figli, gli avvicinavano le klikuši malate. 

Lo starec parlava con loro, recitava una breve preghiera, li benediceva e li congedava. Negli ultimi tempi si era così indebolito per gli attacchi della malattia da non avere la forza di uscire dalla cella, e i fedeli alle volte lo aspettavano nel monastero per alcuni giorni. Alëša non si domandava nemmeno il motivo per cui lo amavano tanto, si prostravano davanti a lui, piangevano per la commozione solo nel vedere il suo viso. Egli comprendeva benissimo che per l'anima umile del popolo russo, estenuato dalla fatica e dal dolore, e soprattutto dalle eterne angherie e dal costante peccato, proprio e del resto dell'umanità, non ci poteva essere esigenza e consolazione più grandi di trovare un oggetto sacro o un santo, cadere in ginocchio e prostrarsi davanti ad esso: «Da noi c'è il peccato, l'ingiustizia, la tentazione, tuttavia esiste un posto sulla terra dove c'è un santo, un essere superiore. In compenso da lui c'è giustizia, in compenso egli conosce la verità; quindi esse non si estinguono sulla terra e un giorno verranno anche da noi e regneranno su tutta la terra, come ci è stato promesso». Alëša sapeva che il popolo pensa e ragiona proprio in questo modo, egli questo lo comprendeva, e sul fatto che lo starec fosse un santo, il difensore della giustizia divina agli occhi del popolo - egli non aveva il minimo dubbio al pari di quei contadini in lacrime e delle loro donne malate che protendevano i figli verso lo starec. La convinzione che lo starec, una volta morto, avrebbe portato al monastero una fama straordinaria dominava l'anima di Alëša forse ancora più fermamente di quella di chiunque altro al monastero. E in generale, in quell'ultimo periodo, una sorta di profonda, ardente esaltazione interiore infiammava il suo cuore con sempre maggior forza. Non era affatto turbato dal fatto che quello starec fosse comunque un essere unico: «Egli è pur sempre un santo, nel suo cuore è riposto il segreto della rigenerazione per tutti, quella potenza che instaurerà finalmente la giustizia nel mondo e tutti saranno santi, tutti si ameranno l'un l'altro, non ci saranno più ricchi e poveri, trionfatori e umiliati, ma saranno tutti figli di Dio e avrà inizio il vero regno di Cristo». Ecco quello che sognava Alëša nel suo cuore.


L'arrivo di entrambi i suoi fratelli, che fino a quel momento non aveva mai conosciuto, sembrò produrre una fortissima impressione su Alëša. Con il fratello Dmitrij Fëdoroviè, che pure arrivò più tardi, egli instaurò subito un rapporto più intimo che con l'altro fratello (suo fratello uterino), Ivan Fëdoroviè. Gli interessava moltissimo conoscere il fratello Ivan, ma erano già due mesi che vivevano sotto lo stesso tetto, e sebbene si vedessero abbastanza spesso, non avevano per niente familiarizzato: Alëša, da parte sua, era taciturno e sembrava che aspettasse qualcosa, che fosse intimorito da qualcosa, mentre Ivan, anche se Alëša aveva notato all'inizio i suoi lunghi sguardi curiosi, ben presto non lo aveva più degnato di attenzione. Alëša notò questo con un certo turbamento. Egli attribuì l'indifferenza del fratello alla differenza d'età esistente fra di loro e soprattutto al diverso grado di istruzione. Ma Alëša si domandava se quell'assenza di curiosità e simpatia nei suoi confronti fossero causati da qualcosa che egli ignorava del tutto. Gli sembrava, per qualche ragione, che Ivan fosse assorbito da qualcosa, qualcosa di interiore e importante, che egli mirasse a uno scopo, forse, molto arduo da raggiungere, e che quindi non avesse tempo per lui, e che quello fosse l'unico motivo per il quale fosse così distratto nei suoi confronti. Alëša si domandava anche se non si trattasse pure di disprezzo, il disprezzo di un colto ateo nei confronti di uno stupido novizio. Egli sapeva benissimo che suo fratello era ateo. Non poteva offendersi di quel disprezzo, se di disprezzo si trattava: tuttavia, con un certo allarmato turbamento, a lui stesso incomprensibile, aspettava il momento in cui il fratello avrebbe desiderato avvicinarsi a lui. Il fratello Dmitrij Fëdoroviè mostrava una profondissima stima nei confronti del fratello Ivan e parlava di lui con una certa gravità, tutta speciale. Alëša aveva appreso da Dmitrij Fëdoroviè tutti i particolari di quella importante faccenda che aveva legato i due fratelli negli ultimi tempi in un rapporto stretto e straordinario. L'opinione entusiastica di Dmitrij sul fratello Ivan era tanto più significativa agli occhi di Alëša in quanto il fratello Dmitrij, in confronto a Ivan, era quasi del tutto privo di istruzione ed entrambi, messi l'uno accanto all'altro, costituivano un tale netto contrasto di personalità e carattere che, forse, sarebbe stato impossibile concepire due persone più diverse di loro. 

RIUNIONE DI FAMIGLIA

 Fu proprio in quel periodo che ebbe luogo l'incontro o, per meglio dire, la riunione fra tutti i membri di quella dissestata famiglia nella cella dello starec, riunione che doveva avere una portentosa influenza su Alëša. 


 Il pretesto di quella riunione in realtà era inconsistente. In quel periodo il disaccordo tra Dmitrij Fëdoroviè e Fëdor Pavloviè, in merito all'eredità e alla valutazione dei beni, era arrivato a un livello intollerabile. I loro rapporti si erano inaspriti ed erano diventati insostenibili. 

IDEA DI FEDOR

Pare che Fëdor Pavloviè avesse lanciato per primo, e per scherzo, l'idea che tutti si riunissero nella cella dello starec Zosima, allo scopo, se non proprio di ricorrere alla sua diretta intermediazione, almeno di giungere ad un accordo in maniera più decorosa, sotto l'influenza ispiratrice e riappacificatrice della dignità e della persona dello starec.

DMITRIJ ACCETTA LA PROPOSTA

Dmitrij Fëdoroviè, che non aveva mai visitato né visto lo starec, pensò ovviamente che il padre in quel modo lo volesse spaventare, ma poiché si era più volte rimproverato in cuor suo di molti suoi recenti scatti d'ira nella disputa con il padre, accettò l'invito. 


Noteremo a proposito che egli non viveva in casa del padre, come Ivan Fëdoroviè, ma per conto proprio, all'altro capo della città. 

MIUSOV ADERISCE

Accadde che anche Pëtr Aleksandroviè Miusov, che in quel periodo viveva nella nostra città, si attaccasse in modo particolare a quella idea di Fëdor Pavloviè. Liberale degli anni '40 e '50, libero pensatore e ateo, egli, forse per noia o forse per frivolo passatempo, ebbe un ruolo eccezionale in quella vicenda. 

Gli venne improvvisamente voglia di vedere il monastero e il "santo". 

Dal momento che ancora si protraevano le vecchie dispute con il monastero ed andava per le lunghe la causa sul confine fondiario dei suoi possedimenti, sui diritti di taglio nel bosco e di pesca nel fiume e via dicendo, egli si affrettò a sfruttare la situazione con la scusa di volersi mettere d'accordo di persona con il padre igumeno per vedere se fosse possibile ricomporre i loro contrasti in maniera pacifica. 

Avrebbero certo accolto con maggiore attenzione e considerazione un visitatore animato da tali lodevoli intenzioni, piuttosto che un semplice curioso. In seguito a tutte queste considerazioni, si poté organizzare una specie di pressione interna al monastero sullo starec malato che, negli ultimi tempi, non abbandonava quasi mai la cella e, a causa della malattia, non riceveva neanche i visitatori abituali. 


LO STAREC FISSA LA DATA

Andò a finire che lo starec dette il suo consenso e si fissò la data. 


«Chi mi ha messo a fare da giudice fra di loro?», si limitò a commentare con un sorriso ad Alëša. 

 Quando Alëša venne a sapere dell'incontro, ne fu molto turbato. Egli capiva che, in mezzo a quei litiganti e contendenti, l'unico che potesse prendere sul serio quel convegno era senza dubbio il fratello Dmitrij; tutti gli altri sarebbero venuti con propositi fatui e forse anche offensivi nei confronti dello starec. 


Il fratello Ivan e Miusov sarebbero venuti mossi dalla curiosità, e probabilmente della specie più volgare, mentre suo padre sarebbe venuto forse allo scopo di recitare qualcuna delle sue farse. Oh, anche se non parlava, Alëša conosceva a fondo suo padre! Lo ripeto: quel ragazzo non era affatto così ingenuo come molti lo consideravano. Attendeva con apprensione la data prefissata. Senza dubbio egli si preoccupava molto, nel profondo del suo cuore, di come potessero concludersi quei disaccordi familiari. Nondimeno era più di tutto preoccupato per lo starec: egli trepidava per lui, per la sua fama, temeva gli oltraggi alla sua persona, soprattutto l'ironia sottile e garbata di Miusov e le mezze reticenze sprezzanti del colto Ivan: ecco come prevedeva che sarebbe andata a finire. 


Egli voleva quasi azzardarsi a mettere in guardia lo starec, anticipargli qualcosa sulle persone che sarebbero potute venire, ma ci ripensò e tacque. 

MISSIVA A DMITRIJ

Mandò soltanto a dire al fratello Dmitrij, attraverso un conoscente, alla vigilia dell'incontro che gli voleva molto bene, e che si aspettava che lui mantenesse la promessa. Dmitrij stette lì a pensare, perché non riusciva assolutamente a ricordare quale promessa gli avesse fatto e rispose per lettera che avrebbe fatto del suo meglio per resistere «davanti alla bassezza», ma per quanto rispettasse profondamente lo starec e il fratello Ivan, era convinto che quell'incontro sarebbe stato un tranello per lui oppure un'indegna farsa. 

«Tuttavia, ingoierei la lingua piuttosto che mancare di rispetto a quel santo uomo che tu stimi tanto»: così concluse Dmitrij la sua missiva. Alëša non ne fu gran che sollevato. 

Facciamo il punto: libro primo


 


Libro primo. Storia di una famiglia.

1. Fëdor Pavlovitch Karamazov.
2. Si disfa del primo figlio.
3. Secondo matrimonio e figli di secondo letto.
4. Il terzo figlio Alësha.
5. Gli «starcy».


CONSIDERAZIONI

Dostoevskij fin dalle prime righe rivela al lettore l'evento centrale nel romanzo:
"... Fëdor Pavloviè Karamazov, assai noto ai suoi tempi (e del resto ancor oggi ricordato fra noi) per la sua tragica e oscura fine, avvenuta esattamente tredici anni fa e della quale parlerò a tempo debito."
  • tutto il primo libro è un flashback
  • i luoghi dove si svolge la vicenda sono indicati genericamente, (città, distretto, governatorato), mentre sono indicati con precisione i luoghi verso cui si spostano i personaggi (la prima moglie scappa a Pietroburgo, Ivan vive a Mosca, Miusov fa frequenti viaggi a Parigi, dopo la morte della seconda moglie Fedor va ad Odessa, Zosima e Dmitrij fanno gli ufficiali nel Caucaso)
  • vengono messe a fuoco due istituzioni della società russa: la famiglia e il monastero
  • si vanno delineando storie e i caratteri dei personaggi principali
  • c'è attenzione ad indicare le classi sociali d'appartenenza e le fonti di reddito
  • un po' di date: - tempo della scrittura del romanzo1879 - tempo degli eventi raccontati 13 anni prima 1866 - riferimenti ai fatti storici del '48 francese testimoniati dal secondo viaggio a Parigi di Miusov
  • età dei personaggi nel 1866: Dmitrij 28 anni, Ivan 24, Aleksei 20; Fedor 55, lo starec Zosima 65
  • chi sta raccontando?

EDUCAZIONE E FORTUNE DEI TRE FRATELLI: DMITRI

 DMITRI



BENI

DOTE MADRE ADELAIDE MIUSOVA

Fëdor Pavloviè, il quale, come adesso è noto, le arraffò d'un sol colpo tutti i soldi, ben venticinquemila rubli, subito dopo che quella li ebbe ricevuti, cosicché per lei fu come se si fossero letteralmente volatilizzati. 

Quanto a unA PICCOLA TENUTA e a una casa di città abbastanza bella, 

che costituivano anch'essi parte della dote, egli cercò per lungo tempo e con tutti i mezzi di farli intestare a suo nome, con qualche atto opportuno, e probabilmente ci sarebbe riuscito, non foss'altro, diciamo così, per il disprezzo e la ripugnanza che ispirava continuamente alla propria consorte con quelle sue vergognose suppliche e estorsioni, nonché per la stanchezza emotiva di lei e per il desiderio di levarselo di torno. Per fortuna, però, la famiglia di Adelaida Ivanovna si mise di mezzo e pose freno a quella piovra. 


il fedele servo di quella casa, Grigorij, prese il piccolo Mitja, di soli tre anni, sotto la propria tutela e se non ci fosse stato lui a prendersi cura del piccolo probabilmente nessuno gli avrebbe mai cambiato la camicina. Accadde inoltre che, in un primo momento, anche i parenti materni del bambino parvero quasi essersi dimenticati di lui. Suo nonno, cioè il signor Miusov, padre di Adelaida Ivanovna, a quei tempi non era più tra i vivi; sua moglie, la nonna di Mitja, rimasta vedova e trasferitasi a Mosca, era gravemente malata, le sorelle si erano sposate, così per un anno intero a Mitja toccò vivere dal servo Grigorij e abitare nell'izba della servitù


Pëtr Aleksandroviè aveva una proprietà che gli garantiva una vita indipendente, di circa mille anime secondo le vecchie misurazioni. La magnifica tenuta si trovava alle porte della nostra cittadina e confinava con le terre del nostro rinomato monastero, con il quale Pëtr Aleksandroviè, sin dagli anni della prima giovinezza, subito dopo l'assegnazione dell'eredità, aveva intrapreso immediatamente una causa interminabile per il diritto di pesca nel fiume o di taglio nel bosco, non so con precisione, ma aveva ritenuto persino un suo dovere di cittadino e persona illuminata far causa ai "clericali"


Pëtr Aleksandroviè condusse la faccenda con fervore e fu persino nominato tutore del bambino (congiuntamente a Fëdor Pavloviè), visto che dopo la morte della madre gli erano pur sempre rimasti una piccola tenuta, una casa e un podere. Mitja si trasferì di fatto da questo cugino di secondo grado, ma questi non aveva una famiglia propria e, dal momento che lui stesso, subito dopo aver sistemato e assicurato i redditi delle sue proprietà, si affrettò subito a partire per Parigi per un lungo periodo, ecco che affidò il bambino a una sua zia di secondo grado, una nobildonna moscovita. 


MOSCA

 Accadde che, vivendo permanentemente a Parigi, anche lui si dimenticò del bambino, soprattutto quando ebbe inizio quella rivoluzione di febbraio che tanto colpì la sua immaginazione e che egli non poté dimenticare per tutta la vita. 

La nobildonna moscovita morì e Mitja passò a una delle sue figlie maritate. 

Pare che in seguito abbia cambiato nido per la quarta volta. 


In primo luogo, questo Dmitrij Fëdoroviè fu l'unico dei tre figli di Fëdor Pavloviè a crescere nella convinzione di possedere ancora un certo patrimonio e che quando avrebbe raggiunto la maggiore età, sarebbe stato indipendente. 



Condusse un'adolescenza e una giovinezza da scapestrato: non terminò il ginnasio, si iscrisse a una scuola militare, andò a finire in Caucaso, prestò servizio, si batté a duello, fu degradato, tornò a prestar servizio, gozzovigliò parecchio e scialacquò una somma relativamente consistente. Cominciò a ricevere denaro da Fëdor Pavloviè solo dopo aver raggiunto la maggiore età e fino a quel momento contrasse debiti


Quattro anni più tardi, quando Mitja, persa la pazienza, ricomparve nella nostra cittadina per definire una volta per tutte la faccenda con il genitore, risultò inaspettatamente, con sua somma meraviglia, che egli non possedeva proprio un bel niente, che era persino difficile fare i conti, che aveva ricevuto da Fëdor Pavloviè in contanti l'intero controvalore della sua proprietà e che forse doveva pure qualcosa al genitore; che in seguito a questo e quest'altro affare, che egli stesso aveva voluto intraprendere in questa e quell'altra occasione, non aveva diritto a esigere nient'altro e così via. Il giovane rimase esterrefatto, subodorò la menzogna, l'inganno, perse quasi il controllo di sé.

EDUCAZIONE E FORTUNE DEI TRE FRATELLI: IVAN e ALEKSEI







 IVAN E ALEKSEI

LA MADRE

Sof 'ja Ivanovna, anche lei molto giovane, in un altro governatorato nel quale era passato per via di un piccolo appalto in società con un certo ebreo.


 Esattamente tre mesi dopo la morte di Sof'ja Ivanovna, la generalessa apparve all'improvviso nella nostra città e andò personalmente, dritta dritta a casa di Fëdor Pavloviè;

gli comunicò che avrebbe portato via con sé entrambi i bambini, dopo di che li prese così com'erano, li avvolse in un coperta, li mise a sedere in carrozza e li portò nella sua città.


Successe però che anche la generalessa morì di lì a poco, ma nel testamento aveva disposto l'assegnazione di mille rubli a testa ad entrambi i piccini «per la loro educazione e affinché quei soldi fossero spesi esclusivamente per loro, ma in modo che bastassero sino alla loro maggiore età perché una simile elargizione era persino troppo per gente del genere, se poi qualcuno ne aveva voglia che sborsasse lui» e così via.


 L'erede principale della vecchietta, tuttavia, si rivelò una persona onesta, 

il maresciallo della nobiltà di quello stesso governatorato, Efim Petroviè Polenov. 



si prese cura degli orfani di persona e si affezionò in particolar modo al più giovane, Aleksej, tanto che questi per molto tempo visse con lui come uno di famiglia. Prego il lettore di prendere nota di questo sin dall'inizio. Se quei giovani dovevano essere grati a qualcuno per tutta la vita per l'istruzione e l'educazione ricevute, quel qualcuno era proprio 

Efim Petroviè, uomo di generosità e umanità rare a incontrarsi. 

Egli mise da parte i mille rubli a testa che la generalessa aveva lasciato in eredità ai ragazzi, senza toccarli, in modo che, giunti alla maggiore età, trovassero un capitale raddoppiato dagli interessi, e garantì loro un'istruzione a proprie spese; sicuramente investì per ciascuno di loro molto di più di mille rubli. Anche questa volta non mi dilungherò, per il momento, in un racconto dettagliato della loro infanzia e giovinezza, ma segnalerò solo le circostanze principali.

IVAN

Non so come, con esattezza, ma in qualche modo accadde che egli si separò dalla famiglia di Efim Petroviè, all'età di tredici anni circa, per passare in un ginnasio di Mosca e a pensione da un pedagogo esperto e al tempo famoso, un amico di infanzia di Efim Petroviè. Ivan stesso raccontò in seguito che tutto era accaduto, per così dire, «a causa della smania di buone azioni» di Efim Petroviè, entusiasta all'idea che un ragazzo di capacità geniali fosse educato da un istitutore geniale. 

Ma né Efim Petroviè né il geniale istitutore erano più fra i vivi, quando il giovanotto, terminato il ginnasio, si iscrisse all'università. 

Dal momento che Efim Petroviè aveva dato disposizioni poco chiare, anche la riscossione del denaro personale che la generalessa tiranna aveva lasciato in eredità ai bambini - e che era raddoppiata grazie agli interessi rispetto ai mille rubli iniziali - fu tirata per le lunghe per le diverse formalità e i ritardi, assolutamente inevitabili da noi, pertanto 

Nei primi due anni d'università il giovanotto si trovò in serie ristrettezze perché fu costretto, per tutto quel tempo, a provvedere da solo al proprio mantenimento e contemporaneamente a dedicarsi allo studio. 

È degno di nota che allora non volle fare nemmeno il tentativo di mettersi in contatto con il padre per via epistolare, forse per orgoglio, forse per disprezzo nei suoi confronti, oppure semplicemente per il freddo buon senso che gli suggeriva che da un paparino come quello non avrebbe ricevuto nessun vero appoggio. In ogni caso, il giovanotto non si perse d'animo e si mise a lavorare, dapprima con le lezioni private a venti copeche, poi correndo per le redazioni dei giornali per consegnare articoletti di dieci righe sugli incidenti stradali firmati "Un testimone".


Ivan Fëdoroviè aveva terminato gli studi universitari e si accingeva a partire per l'estero con i suoi duemila rubli, quando all'improvviso pubblicò, su uno dei giornali più importanti, uno strano articolo che attirò su di sé persino l'attenzione dei non addetti ai lavori, e, per di più, a proposito di un argomento che non doveva essergli molto familiare, visto che si era laureato in scienze naturali. L'articolo riguardava una questione dibattuta dovunque in quel periodo: i tribunali ecclesiastici. 

Alla fin fine i più perspicaci decretarono che tutto l'articolo non era che una farsa irriverente, una presa in giro. Menziono questo episodio soprattutto perché quell'articolo penetrò tempestivamente anche nel nostro rinomato monastero fuori città, dove la questione dei tribunali ecclesiastici riscuoteva largo interesse; vi penetrò e vi produsse la più caotica confusione. Dopo aver appreso il nome dell'autore, si prese ancora maggiore interesse alla faccenda, in quanto questi era nativo della nostra città e figlio «proprio di quel Fëdor Pavloviè». Ed ecco che all'improvviso, esattamente in quel periodo, l'autore in carne ed ossa si fece vivo dalle nostre parti. 


ALEKSEI

Tutti amavano questo giovane, dovunque egli andasse, e questo sin dagli anni dell'infanzia. 


Quando si trovò a casa del suo benefattore e educatore, Efim Petroviè Polenov, egli conquistò il cuore di tutti i membri di quella famiglia, tanto che quelli lo consideravano a tutti gli effetti uno di loro. Eppure era entrato in quella famiglia in una così tenera età nella quale è impossibile sospettare scaltrezza calcolata, ipocrisia o abilità di insinuarsi nelle grazie altrui, di piacere e farsi benvolere. Dunque il dono di farsi amare egli lo possedeva dentro di sé, per così dire, nella propria natura, spontaneamente, senza dover ricorrere ad artifici. 

Dopo la morte di Efim Petroviè, Alëša frequentò ancora per due anni 

 il ginnasio del governatorato. 

L'inconsolabile consorte di Efim Petroviè, quasi subito dopo la morte di lui, partì per un lungo viaggio in Italia con tutta la famiglia, costituita interamente da elementi di sesso femminile,

mentre Alëša finì a casa di due signore che non aveva mai visto prima, 

 lontane parenti di Efim Petroviè, ma lui stesso ignorava in base a quali accordi. 

Un tratto persino spiccatamente tipico del suo carattere consisteva nel fatto che egli non si preoccupava mai di chiarire a spese di chi vivesse. In questo egli era completamente l'opposto di suo fratello maggiore, Ivan Fëdoroviè, che era vissuto in ristrettezze per i primi due anni all'Università, mantenendosi solo grazie al proprio lavoro, e che sin da bambino era sempre stato amaramente consapevole di vivere sulle spalle del loro benefattore. 


Non terminò il corso di studi al ginnasio; (FORSE HA 18 ANNI)

gli rimaneva ancora un anno intero quando informò all'improvviso le signore che lo ospitavano che si sarebbe recato da suo padre per una certa faccenda che gli era venuta in mente. 

Quelle ci rimasero molto male e non volevano lasciarlo andare. 

Il viaggio costava pochissimo e le signore non gli permisero di impegnare l'orologio, che gli aveva regalato la famiglia del benefattore prima di partire per l'estero, e lo rifornirono di mezzi in abbondanza, persino di un vestito e di biancheria nuovi. 

Egli, comunque, restituì la metà del denaro, spiegando che voleva assolutamente fare il viaggio in terza classe.


Ed ecco che quasi subito dopo aver visitato la tomba della madre, Alëša gli comunicò, di punto in bianco, di voler entrare al monastero e che i monaci erano disposti ad accoglierlo come novizio

«Hmm, avevo il presentimento che avresti finito con il fare una cosa del genere, ti figuri? Tiravi dritto proprio verso quella direzione. Be', certo, hai i tuoi duemila rubletti, quella è la tua dote, ma io, angelo mio, io non ti lascerò mai, sono disposto a versarti in questo momento la cifra necessaria se me la chiederanno.