mercoledì 7 settembre 2016

IL FIGLIO ILLEGITTIMO: SMERDIAKOV


SMERDIAKOV


IL CONTEMPLATORE



 



Dostoevkkij nel capitolo dedicato alla presentazione di Smerdiakov 

cita e commenta il dipinto omonimo di Ivan Nikolaevič Kramskoj (1837-1887):

«Il pittore Kramskoj ha dipinto un quadro notevole dal titolo "Il contemplatore": vi si raffigura un bosco, d’inverno, e sulla strada che attraversa il bosco si vede un contadinotto assorto, nella più completa solitudine, con indosso un logoro caffettano e dei sandali di corteccia di tiglio; se ne sta lì e sembra pensieroso, ma non sta pensando: sta “contemplando” qualcosa. Se lo si urtasse, avrebbe un sussulto e vi guarderebbe come chi si sveglia di soprassalto, ma senza capire niente. Certo, si riprenderebbe subito, ma se gli si domandasse a cosa stava pensando, non si ricorderebbe nulla; in compenso, però, conserverebbe certamente dentro di sé l’impressione che lo aveva dominato durante la sua contemplazione. 


Queste impressioni gli sono care, ed egli le accumula senza volere, senza rendersene conto; perché lo faccia e a quale scopo, anche questo lo ignora: forse un giorno, dopo aver accumulato simili impressioni per anni e anni, pianterà tutto e se ne andrà a Gerusalemme, a peregrinare per il mondo e a fare penitenza; o forse darà fuoco al proprio villaggio natio, e magari entrambe le cose. Di individui contemplativi, nel popolo, ce ne sono parecchi. 

E anche Smerdjàkov era sicuramente uno di essi; di certo anche lui accumulava avidamente le sue impressioni, quasi senza sapere ancora bene il perché»

Libro III, capitolo VI - Audiolibro - parte 19 - dal minuto 16'12'' fino alla fine.




PRIMO INCONTRO





Con quell'appellativo - asina di Balaam - egli si riferiva al lacchè
Smerdjakov. 

Questi era un giovanotto sui ventiquattro anni, non di più,
straordinariamente misantropo e taciturno. Non che fosse timido o si
vergognasse di qualcosa; no, al contrario, era altero di carattere e sembrava
che disprezzasse tutti. Ma ecco che, arrivati a questo punto non possiamo
fare a meno di dire anche solo due paroline sul suo conto. Era stato
allevato da Marfa Ignat'evna e Grigorij Vasil'eviè, eppure il ragazzo era
cresciuto "senza la minima riconoscenza" come diceva di lui Grigorij, era
selvatico e guardava il mondo in tralice. Da piccolo gli piaceva moltissimo
impiccare i gatti, per poi seppellirli con tanto di cerimonia funebre. In
quelle occasioni indossava un lenzuolo, che fungeva da pianeta, cantava e
agitava qualcosa sul cadavere del gatto come fosse un turibolo. Faceva
questo zitto zitto, con la massima segretezza. Grigorij lo pizzicò una volta
mentre era intento a questa pratica e lo picchiò di santa ragione con la
verga. Il ragazzo si rintanò in un angolo e tenne il broncio per una
settimana. "Questo qui, a me e a te, non ci vuole bene, questo mostro",
diceva Grigorij a Marfa Ignat'evna, "e non vuole bene a nessuno". "Tu non
sei un essere umano", diceva a Smerdjakov dritto in faccia, "non sei un
essere umano, tu sei venuto fuori dal fradicio di un bagno, ecco che cosa
sei tu..." Smerdjakov, come risultò in seguito, non gli perdonò mai quelle
parole. Grigorij gli insegnò a leggere e scrivere e quando compì dodici
anni cominciò a insegnargli le Sacre Scritture. Ma quell'iniziativa andò
subito in fumo. Una volta, durante la seconda o terza lezione, il ragazzo
scoppiò a ridere all'improvviso.
«Che ti prende?», gli domandò Grigorij sbirciandolo
minacciosamente da sotto gli occhiali.
«Così. Il Signore Iddio ha creato la luce il primo giorno, e il sole, la
luna e le stelle il quarto giorno. Allora da dove veniva la luce il primo
giorno?»
Grigorij rimase di sasso. Il ragazzo guardava il maestro con aria
beffarda. C'era persino una sfumatura di alterigia nel suo sguardo. Grigorij
non resisté. "Ecco da dove!", gridò e colpì furiosamente l'allievo sulla
guancia. Il ragazzo incassò lo schiaffo senza dire una parola, ma si
rimpiattò di nuovo in un angolo per alcuni giorni. Accadde che, una
settimana più tardi, ebbe il primo attacco di epilessia; quella malattia non
lo avrebbe più abbandonato per il resto della sua vita. Quando lo venne a
sapere, Fëdor Pavloviè sembrò aver cambiato parere all'improvviso sul
conto del ragazzo. Prima era quasi indifferente nei suoi confronti, anche se
non lo rimproverava mai; anzi, ogni volta che lo incontrava gli dava una
copeca. A volte, quand'era di buon umore, gli mandava pure qualche
dolcetto dalla sua tavola. Ma non appena venne a conoscenza della
malattia, prese a occuparsi seriamente di lui, chiamò il dottore, incominciò
a farlo curare, ma la malattia risultò inguaribile. Gli attacchi ricorrevano in
media una volta al mese, ma a differenti intervalli. Gli attacchi variavano
anche di intensità: alcuni leggeri, altri molto feroci. Fëdor Pavloviè vietò
nella maniera più categorica a Grigorij di infliggere punizioni corporali al
ragazzo e cominciò ad ammetterlo di sopra, nelle sue stanze. Vietò persino
che per il momento gli fossero impartite lezioni di qualunque genere. Ma
una volta, quando il ragazzo aveva già compiuto quindici anni, Fëdor
Pavloviè lo vide gironzolare presso gli scaffali dei libri e leggere i titoli
attraverso la vetrina. Fëdor Pavloviè possedeva un bel po' di libri, un
centinaio di volumi, ma nessuno lo aveva mai visto leggere. Egli dette
immediatamente le chiavi della libreria a Smerdjakov: "Leggi pure, vorrà
dire che mi farai da bibliotecario, meglio che bighellonare per il cortile,
siediti qui e leggi. Ecco, leggi questo", e Fëdor Pavloviè gli allungò Veglie
alla fattoria presso Dikan'ka.
Il ragazzo lo lesse, ma non ne rimase soddisfatto, non rise nemmeno
una volta, al contrario, finì con l'accigliarsi.
«E allora? Non ti fa ridere?», domandò Fëdor Pavloviè. «Rispondi,
imbecille».
«Quello che è scritto qui è tutto falso», biascicò Smerdjakov con un
sorrisetto.
«Va' al diavolo allora, anima da lacchè. Aspetta, prendi La storia
universale di Smaragdov, lì è tutto vero, leggi quella». Ma Smerdjakov
non lesse nemmeno dieci pagine dello Smaragdov, gli risultò noioso. E
così gli scaffali dei libri vennero richiusi. Ben presto Marfa e Grigorij
riferirono a Fëdor Pavloviè il fatto che in Smerdjakov a poco a poco si
stava manifestando una sorta di inaudita schifiltosità: a pranzo, prendeva il
cucchiaio e cerca cerca nella minestra, si piegava sino al piatto, osservava,
tirava fuori il cucchiaio e lo sollevava verso la luce.
«Che, c'è uno scarafaggio?», domandava a volte Grigorij.
«Una mosca, forse», notava Marfa.
Lo schizzinoso giovanotto non rispondeva mai, ma si comportava
allo stesso modo con il pane, la carne, e con tutte le pietanze: sollevava
con la forchetta un pezzo di cibo verso la luce, lo esaminava come al
microscopio, a lungo, titubava e alla fine si decideva a portarlo alla bocca.
"Vedi un po' che signorino è saltato fuori", borbottava Grigorij
osservandolo. Fëdor Pavloviè, dopo aver sentito di questa nuova qualità di
Smerdjakov, decise immediatamente che doveva diventare cuoco e lo
mandò a far pratica a Mosca. Egli vi rimase per alcuni anni e tornò una
persona completamente diversa. Sembrava che fosse straordinariamente
invecchiato, di colpo, si era riempito di rughe in maniera del tutto
sproporzionata rispetto alla sua età; era ingiallito, cominciava ad
assomigliare a uno skopec. Dal punto di vista morale era tornato
praticamente lo stesso di prima della partenza per Mosca: era sempre
misantropo e non avvertiva la minima esigenza di stare con la gente.
Anche a Mosca se ne stava sempre zitto, come riferirono in seguito; Mosca
in sé, come città, non destò quasi per nulla il suo interesse, vide giusto
qualche cosina e a tutto il resto non prestò la minima attenzione. Una volta
andò anche a teatro, ma al ritorno non disse una parola, sembrava
insoddisfatto. In compenso tornò da Mosca con un bel vestito, una linda
finanziera e la biancheria pulita. Si spazzolava di persona l'abito con molta
cura, due volte al giorno, immancabilmente; quanto agli eleganti stivali di
vitellino, gli piaceva moltissimo lucidarli con una speciale crema inglese,
in modo che brillassero come specchi. Si rivelò un cuoco eccellente. Fëdor
Pavloviè gli fissò una paga e Smerdjakov se la spendeva quasi tutta in
abiti, creme, profumi e cose del genere. Sembrava che disprezzasse il sesso
femminile quanto quello maschile; con le donne era posato, quasi
inaccessibile. Fëdor Pavloviè cominciò allora a preoccuparsi di lui anche
da un altro punto di vista. I suoi attacchi di epilessia si erano fatti più
frequenti e nei giorni in cui lui era malato, toccava a Marfa Ignat'evna
preparare da mangiare, il che non andava molto a genio a Fëdor Pavloviè.
«Come mai gli attacchi ti vengono sempre più spesso?», disse
guardando di sottecchi il nuovo cuoco e osservando la reazione del suo
viso. «E se ti ammogliassi, vuoi che ti trovi una moglie?»
Ma a questi discorsi Smerdjakov si limitava a impallidire per la
stizza, senza replicare nulla. Fëdor Pavloviè si allontanava, agitando la
mano in un gesto sconsolato. La cosa degna di nota è che Fëdor Pavloviè
era convinto della sua onestà, senza riserve, era convinto che egli non
avrebbe mai sottratto o rubato nulla. Una volta capitò che Fëdor Pavloviè,
alticcio, avesse lasciato cadere nel fango del cortile di casa tre banconote
iridate che aveva appena riscosso; si accorse della loro scomparsa soltanto
il giorno successivo e si precipitò a frugare nelle tasche, mentre le
banconote si trovavano già tutte e tre sul tavolo. Da dove erano spuntate
fuori? Smerdjakov le aveva raccolte e messe lì sin dal giorno prima.
"Fratello, non ho mai visto un tipo come te", commentò seccamente Fëdor
Pavloviè e gli regalò dieci rubli. Bisogna aggiungere che non solo era
convinto dell'onestà del giovane, ma chissà perché nutriva anche
dell'affetto per lui, sebbene Smerdjakov guardasse in tralice anche il
padrone come tutti gli altri, e non aprisse mai bocca neanche con lui. Era
raro che attaccasse discorso. Se a qualcuno fosse venuto in mente di
domandarsi guardandolo: di che si interessa questo giovanotto e che cosa
gli passa per la mente? Be', sarebbe stato impossibile dare una risposta
semplicemente guardandolo. Eppure, sia in casa, sia in cortile, sia per
strada, gli capitava spesso di fermarsi, tutto assorto nei suoi pensieri, e
rimanersene lì impalato anche per una decina di minuti. Un fisionomista,
dopo averlo osservato attentamente, avrebbe concluso che nel suo caso
non si trattava né di meditazione né di riflessione, ma di una sorta di stato
di contemplazione.