mercoledì 7 settembre 2016

IL TERZO FIGLIO: Aleksej

9. ALEKSIEJ FEDOROVIE KARAMAZOV


IL TERZO FIGLIO



                                       illustrazione: Il'ja Sergeevič Glazunov, Illustrazioni per I fratelli Karamazov.

UN EROE IN TONACA DA NOVIZIO

"... Solo il figlio minore, Aleksej Fëdoroviè, viveva già da un anno
fra di noi, dal momento che era arrivato prima degli altri fratelli. 

Ecco,
proprio di questo Aleksej mi è più difficile parlare in questa mia
introduzione, prima di farlo uscire sulla scena del romanzo.

Ma mi tocca
scrivere una premessa anche su di lui, almeno per chiarire per tempo un
punto molto strano, e cioè: 

sono costretto a presentare ai lettori il futuro
eroe in tonaca da novizio dalla prima scena del suo romanzo. 

Sì, era già un
anno che viveva nel nostro monastero
e sembrava che si stesse preparando
a rimanervi in clausura per tutta la vita.

Egli allora aveva appena vent'anni (suo fratello Ivan ne aveva
ventiquattro e il maggiore, Dmitrij, ventotto)."


CARATTERE


Nell'infanzia e nella
prima giovinezza, egli era stato introverso e persino taciturno, ma non per
diffidenza, né per timidezza o cupa misantropia, anzi era persino il
contrario, ma per qualche altra ragione, per qualche inquietudine interiore,
strettamente personale che non riguardava gli altri, ma così importante per
lui che, a causa di essa, quasi dimenticava le altre persone. Tuttavia amava
la gente: in tutta la sua vita aveva sempre avuto fiducia nelle persone e, nel
contempo, nessuno mai lo aveva considerato uno sciocco o un ingenuo.
C'era qualcosa in lui che diceva e faceva intuire (e questo gli rimase per
tutta la vita) che egli non voleva essere giudice delle persone, che non
voleva arrogarsi il diritto di biasimare e che non avrebbe mai condannato
nessuno. Sembrava persino che egli accettasse tutto senza mai
disapprovare, anche se a volte soffriva molto amaramente. E non solo: egli
arrivò al punto che nessuno poteva sorprenderlo o spaventarlo in alcun
modo, e questo sin dalla prima giovinezza. Giunto a casa del padre all'età
di vent'anni, in quell'antro di sordida depravazione, egli, casto e puro
com'era, si limitava ad allontanarsi in silenzio quando lo spettacolo gli
diventava intollerabile, ma senza l'ombra di disprezzo o di condanna per
chicchessia. 

Persino suo padre, 
che un tempo era stato un parassita e
quindi era persona permalosa e suscettibile, 
dopo averlo accolto sulle
prime con burbera diffidenza 
(diceva «sta molto zitto e rimugina molto fra sé»), 
finì con l'abbracciarlo e baciarlo con incredibile frequenza, e non
erano passate che due settimane dal suo arrivo; certo, questo accadeva
quando era brillo e vittima del suo sentimentalismo da ubriacone, tuttavia
era evidente che aveva preso a volergli un bene profondo e sincero che mai
un uomo come lui aveva provato per qualcuno...
Tutti amavano questo giovane, dovunque egli andasse, e questo sin
dagli anni dell'infanzia.  [...]



Una volta Pëtr Aleksandroviè Miusov, uomo estremamente
sensibile rispetto ai soldi e alla rettitudine borghese, dopo aver osservato

attentamente Aleksej, pronunciò su di lui il seguente aforisma: 


«Ecco,
forse, l'unico uomo al mondo che se rimanesse all'improvviso da solo e
senza soldi nella piazza di una città sconosciuta di un milione di abitanti,
non si perderebbe affatto d'animo e non morirebbe né di fame né di freddo,
perché in un batter d'occhio lo rifocillerebbero, in un batter d'occhio gli
troverebbero una sistemazione e, qualora non gliela trovassero gli altri, se
la troverebbe in un batter d'occhio da solo, e questo a lui non costerebbe
nessuno sforzo e nessuna umiliazione, e a chi lo accogliesse nessun peso,

ma forse, al contrario, questi lo considererebbe un piacere».

ASPETTO FISICO

Qualcuno fra i miei lettori potrebbe pensare che il mio giovanotto
avesse una natura cagionevole, esaltata, scarsamente sviluppata e fosse un
pallido sognatore, dal fisico consunto e emaciato.


Tutto il contrario: Alëša
a quel tempo era  un adolescente di diciannove anni, pieno di leggiadria, 
colorito e con lo sguardo limpido. 

Era snello, abbastanza alto, con i capelli biondo-scuro, un ovale
regolare, anche se un tantino allungato, occhi splendenti nel loro grigio-scuro,
 distanti fra di loro; era molto riflessivo e, in apparenza, molto tranquillo.
 Si dirà forse che le guance colorite non escludono né il fanatismo né il
misticismo, ma a me sembra che Alëša fosse persino più realista di molti
altri.

Libro primo, capitoli IV e V.


Mi si potrà dire che Alëša fosse ottuso, poco colto, che non aveva finito la scuola e così via. Che non avesse finito la scuola è vero, ma dire che egli fosse ottuso o stupido sarebbe una grave ingiustizia. 

Ripeterò semplicemente quello che ho già detto: egli imboccò quella strada unicamente perché, a quel tempo, essa sola lo aveva colpito e si presentava a lui, per così dire, come l'ideale dell'esodo della sua anima che si strappava dalle tenebre per andare verso la luce. 

Aggiungete a questo che egli era già, in parte, un giovane dei nostri tempi, cioè onesto di natura, uno che desiderava la verità, la ricercava e ci credeva, e quando credeva in qualcosa, voleva prendervi parte immediatamente, con tutta la forza della propria anima, e poi sentiva l'esigenza dell'azione immediata e l'irresistibile desiderio di sacrificare anche tutto per essa, persino la vita. 

 Eppure, purtroppo, questi giovani non si rendono conto che il sacrificio della vita è, forse, in molti casi, il più facile fra tutti i sacrifici e che sacrificare, per esempio, cinque o sei anni della propria impetuosa giovinezza a uno studio arduo e faticoso, al sapere, sebbene allo scopo di decuplicare in se stessi le forze per servire quella stessa verità e quella stessa causa che si è presa a cuore e che ci si è proposti di perseguire, è molto spesso superiore alle forze di molti di loro. 

Alëša aveva scelto la strada opposta a quella di tutti gli altri, ma con la stessa brama di azione immediata. Non appena si fu convinto, dopo una seria riflessione, dell'esistenza di Dio e dell'immortalità, egli si era subito detto, istintivamente: 

«Voglio vivere per l'immortalità, non accetto compromessi». 

Allo stesso modo, se avesse concluso che l'immortalità e Dio non esistono, sarebbe passato, detto fatto, dalla parte degli atei e dei socialisti 

(giacché il socialismo non è solo la questione operaia, o il cosiddetto quarto stato, ma è principalmente la questione dell'ateismo, la questione della forma che l'ateismo assume oggi, la questione della torre di Babele costruita senza Dio, non già per raggiungere il cielo dalla terra, ma per portare il cielo sulla terra).