sabato 21 agosto 2021

SOGNO DI MITJA PRIMA DELLA PARTENZA PER LA PRIGIONE


 Mitja si era calmato e aveva persino un'aria rasserenata, che però durò ben poco. Una strana debolezza fisica andava gradualmente prendendo il sopravvento su di lui, ogni minuto di più. Gli occhi gli si chiudevano per la stanchezza. L'interrogatorio dei testimoni era finalmente terminato. Procedettero alla stesura finale delle deposizioni. Mitja si alzò e si spostò dalla sedia all'angolo presso la tenda, si sdraiò su un grosso baule ricoperto da un tappeto e si addormentò di colpo. Fece un sogno piuttosto strano, assolutamente privo di collegamenti con il tempo e il luogo nel quale si trovava. 


Egli era da qualche parte nella steppa, là dove aveva prestato servizio un tempo e un contadino lo stava conducendo, fra la mota, sul suo carro tirato da una coppia di cavalli. Aveva freddo, era l'inizio di novembre, e la neve cadeva in grossi fiocchi umidi, sciogliendosi non appena toccava terra. Il contadino faceva andare il carro a passo sostenuto, schioccava abilmente la frusta; aveva una barba lunga, biondiccia e non era molto vecchio, sarà stato sulla cinquantina e indossava una palandrana grigia da contadino. Non lontano si intravedeva un villaggio dalle izbe nere nere, e metà del villaggio era bruciata, spuntavano soltanto le assi carbonizzate. All'entrata del villaggio, delle contadine si erano messe in fila sulla strada, erano molte, un'intera schiera, tutte magre, emaciate, con i visi scuri. Ne notò una in particolare, verso la fine della fila, una donna ossuta e alta, che dimostrava una quarantina d'anni, ma poteva averne anche venti, con il viso scarno, allungato, che teneva fra le braccia un bimbetto in lacrime: evidentemente il suo seno era così prosciugato da non dare più una goccia di latte. E il bimbo piangeva, piangeva e protendeva le braccine nude, con i suoi pugnetti, come illividiti dal freddo. «Perché piangono? Per quale motivo stanno piangendo?», domandò Mitja mentre passavano accanto a loro di gran carriera. «La creatura», gli rispose il conducente, «la creatura piange». E Mitja restò colpito dal fatto che egli l'avesse chiamato a modo suo, alla contadina: "creatura" e non bambino. E gli piacque che il contadino avesse detto "creatura": era come se in quella parola si racchiudesse una compassione più intensa. «Ma perché piange?», insisteva Mitja stupidamente. «Perché ha le braccine nude, perché non lo coprono?» «La creatura si è intirizzita, i vestitini si sono congelati e non lo tengono caldo». «Ma perché è così? Perché?», continuava a insistere scioccamente Mitja. «Ma è povera gente, la casa gli è bruciata, non hanno nemmeno un tozzo di pane, chiedono l'elemosina perché la casa gli è bruciata». «No, no», Mitja sembrava non capire. «Dimmi perché quelle povere madri se ne stanno impalate accanto alle case bruciate? Perché questa gente è povera? Perché è povera quella creatura? Perché la steppa è così brulla? Perché non si abbracciano, non si baciano, perché non intonano canti di gioia, perché si sono così anneriti per la miseria nera? Perché non danno da mangiare a quel bambino?» 



 Ed egli sentiva che sebbene le sue domande fossero irragionevoli e prive di senso, tuttavia desiderava porre proprio quelle domande e di porle proprio in quel modo. E avvertiva pure che stava crescendo nel suo cuore un senso di pietà che non aveva mai provato prima, che aveva voglia di piangere, che voleva fare qualcosa per tutti, affinché quel bambino non piangesse più, affinché non piangesse più quella madre dal viso nero e dal seno rinsecchito, affinché da quel momento in poi non esistessero più lacrime per nessuno e che voleva fare tutto quello all'istante, all'istante, a dispetto di tutti gli ostacoli, con tutta l'impetuosità dei Karamazov. «Anch'io verrò con te, adesso non ti lascerò più, per tutta la vita», egli sentì accanto a sé le dolci parole di Grušen'ka, cariche di sentimento. Ed ecco che il cuore gli si infiammò, ed egli cominciò a protendere verso una luce e aveva voglia di vivere e ancora vivere, di procedere ancora e ancora per quel cammino, verso quella nuova luce che lo chiamava, ma in fretta, in fretta, in quel momento stesso, adesso! 
 
 «Che cosa? Dove andiamo?», esclamò aprendo gli occhi e mettendosi a sedere sul baule, come se si fosse ripreso da uno svenimento, ma con un sorriso radioso sulle labbra. Sopra di lui c'era Nikolaj Parfenoviè che lo invitava ad ascoltare il verbale per poi firmarlo. Mitja intuì di aver dormito un'ora e forse più, ma non prestò ascolto a Nikolaj Parfenoviè. Fu colpito dal fatto di essersi trovato sotto la testa un cuscino che non c'era quando si era accasciato privo di forza sul baule. «Chi mi ha messo questo cuscino sotto la testa? Chi è stato così buono?», esclamò in un impeto di entusiasmo e gratitudine e con la voce quasi rotta dal pianto, come se avessero compiuto Dio solo sa quale buona azione. Quell'anima buona rimase senza un nome, qualcuno dei testimoni, o forse il segretario stesso di Nikolaj Parfenoviè, aveva deciso di poggiargli un cuscino sotto la testa per compassione, ma la sua anima era interamente scossa dalle lacrime. Egli si accostò al tavolo e dichiarò che avrebbe firmato tutto quello che volevano. «Ho fatto un bel sogno, signori», pronunciò con uno strano tono di voce e con un viso nuovo, come illuminato dalla gioia.