«Scusate, signori, permettete un minutino», lo interruppe Mitja appoggiando entrambi i gomiti sul tavolo e coprendosi il volto con le mani, «concedetemi un attimo per pensare, per riprendere fiato, signori. Tutto questo mi sconvolge terribilmente, terribilmente, l'uomo non ha mica la pelle di tamburo, signori!»
«Scrivete, signori, mi rendo conto che si tratta dell'ennesimo indizio
contro di me, ma non temo gli indizi e li riferirò anche se possono
nuocermi. Mi sentite? Vedete, signori, voi mi prendete per un uomo
completamente diverso da quello che sono», soggiunse cupo e rattristato.
«È un uomo nobile, una persona nobilissima che vi sta parlando, e
soprattutto, questo non perdetelo di vista, un uomo che ha commesso un
mare di malefatte, ma che, nonostante tutto, è sempre stato, ed è ancora, un
essere nobilissimo, nella sua essenza, nel suo intimo, nel profondo del suo
cuore, insomma, in una parola, non riesco ad esprimermi... Proprio questo
mi ha tormentato per tutta la vita, questa mia brama di nobiltà d'animo, io
sono stato, diciamo così, un martire della nobiltà d'animo, l'ho cercata con
il lanternino, con la lanterna di Diogene, eppure per tutta la vita non ho
fatto che commettere canagliate, come tutti noi, signori, cioè, come me
solo, signori, non tutti, ma io solo, io ho sbagliato, io solo, io solo!...
Signori, mi fa male la testa», e aggrottò la fronte con aria sofferente,
«vedete, signori, non riuscivo a sopportare il suo aspetto, c'era qualcosa di
ignobile in lui, di impudente, quello sprezzo per tutto ciò che c'è di sacro,
quell'ironia, quell'irriverenza, qualcosa di sporco, di sporco! Ma adesso
che è morto, la penso diversamente».