giovedì 19 agosto 2021

Pellegrinaggio di un'anima attraverso le tribolazioni. Tribolazione terza

 V • Tribolazione terza 


 Sebbene Mitja avesse cominciato a parlare in tono severo, era evidente che si stava impegnando, ancora più di prima, a non dimenticare o tralasciare alcun dettaglio della sua storia. Raccontò di come aveva scavalcato lo steccato per saltare dentro il giardino paterno, come aveva raggiunto la finestra e tutto quello che era avvenuto sotto quella finestra. Egli descrisse con precisione, chiarezza, quasi scandendo le parole, i sentimenti che lo agitavano in quegli istanti nel giardino, quando moriva dalla voglia di sapere se Grušen'ka si trovasse davvero in casa di suo padre. 


Ma, strano a dirsi, questa volta sia il procuratore sia il giudice istruttore lo ascoltavano con una sorta di incredibile discrezione, lo guardavano con freddezza, ponendogli assai meno domande di prima. Mitja non riusciva a farsi nessuna idea dalle loro facce. "Sono arrabbiati e offesi", pensò, "ma che vadano al diavolo!" 




Quando raccontò del momento in cui si era deciso finalmente a dare al padre il segnale che Grušen'ka era arrivata, in maniera che quello aprisse la finestra, allora il procuratore e il giudice istruttore non prestarono la minima attenzione alla parola "segnale", come se non comprendessero affatto che significato avesse quella parola in quel contesto, tanto che anche Mitja ne restò colpito. 

Quando finalmente arrivò al punto in cui, vedendo sporgere suo padre fuori dalla finestra, egli si era sentito ribollire d'ira e aveva estratto d'impeto il pestello dalla tasca, egli, quasi di proposito, fece una pausa. Se ne stava seduto a fissare la parete, consapevole che quelli lo stavano fissando con tanto d'occhi. «Be'», disse il giudice istruttore, «avete estratto l'arma e poi... che cosa è successo?» 




 «Poi? Poi l'ho ucciso, gli ho dato una botta in testa e gli ho fracassato il cranio... È andata così secondo voi, così, vero?», disse con gli occhi di fuoco: tutta la rabbia che poco prima si era estinta, avvampò d'un tratto nella sua anima con straordinaria violenza. 

 «Secondo noi?», ripeté di rimando Nikolaj Parfenoviè. 

«E secondo voi com'è andata invece?» Mitja abbassò gli occhi e tacque a lungo. 

«Secondo me, signori, secondo me, è andata così», disse in tono sommesso, «forse le lacrime di qualcuno, o forse mia madre ha pregato Dio per me, oppure uno spirito buono mi ha baciato in quel momento, non lo so, ma il diavolo fu sconfitto. Scappai via da quella finestra e mi misi a correre verso lo steccato... Mio padre si spaventò e fu solo allora che si accorse della mia presenza, lanciò un urlo e si allontanò con un balzo dalla finestra - questo me lo ricordo con esattezza. Intanto attraversavo di corsa il giardino per andare allo steccato... 




e fu lì che Grigorij mi raggiunse mentre mi trovavo già a cavalcioni dello steccato...» 

 A quel punto egli finalmente sollevò gli occhi verso i suoi ascoltatori. Sembrava che quelli lo guardassero con pacata attenzione. Uno spasimo di indignazione attraversò l'anima di Mitja. 

INDIGNAZIONE DI MITJA

 «Voi, signori, in questo momento vi state prendendo gioco di me!», proruppe all'improvviso. «Che cosa ve lo fa pensare?», osservò Nikolaj Parfenoviè. «Non credete a una sola parola, ecco perché! Mi rendo conto, ovviamente, di essere arrivato a un punto nodale: il vecchio adesso giace là con il cranio fracassato, mentre io, dopo aver descritto in toni tragici come volevo ucciderlo e il modo in cui ho estratto il pestello, vi vengo a raccontare che sono corso via da quella finestra... Un poema! In versi! Come se si potesse credere alla parola di questo bravo ragazzo! Ah-ah! Siete degli schernitori, signori!» 


 E si girò con tutto il corpo sulla sedia, tanto che quella scricchiolò. 

LA PORTA SUL GIARDINO APERTA O CHIUSA?

«E non avete notato», prese a dire il procuratore, come se non avesse prestato attenzione all'agitazione di Mitja, «non avete notato, mentre vi allontanavate di corsa dalla finestra, se la porta che si trova all'altro capo della dipendenza, quella che dà sul giardino, era aperta oppure no?» 

 «No, non era aperta». «Non era aperta?» 

 «Era chiusa, invece, e chi mai avrebbe potuto aprirla? Ma, aspettate un po', la porta!», sembrò ravvedersi all'improvviso e quasi trasalì. «L'avete forse trovata aperta?» «Sì, aperta». 

 «Ma chi poteva averla aperta, se non siete stato voi?», domandò Mitja con estremo stupore. 

 «La porta era aperta e l'assassino di vostro padre senza dubbio è entrato da questa porta e, dopo aver compiuto il delitto, è uscito sempre da quella porta», proferì il procuratore scandendo le parole, lentamente, una alla volta. 

«Questo è perfettamente chiaro per noi. L'assassinio fu commesso all'interno della stanza e non attraverso la finestra, questo è risultato perfettamente chiaro dal sopralluogo eseguito, dalla posizione del corpo e da tutto il resto. Non sussiste alcun dubbio su questa circostanza». 

 Mitja era completamente sbigottito. «Ma questo non è possibile, signori!», gridò lui smarrito. 

«Io... io non sono entrato... ve lo dico per certo, con sicurezza, che la porta è restata chiusa per tutto il tempo che sono rimasto in giardino ed era chiusa anche mentre fuggivo dal giardino. Io sono sempre rimasto sotto la finestra e ho visto lui solo attraverso la finestra, solo così, solo così. Ricordo che è rimasta chiusa sino all'ultimo. E anche se non ne conservassi il ricordo, comunque lo saprei perché i segnali erano noti soltanto a me, a Smerdjakov e a lui, al defunto, e lui senza quei segnali non avrebbe aperto a nessuno al mondo!» 

I SEGNALI

 «Segnali? Quali segnali?», con una curiosità avida, quasi isterica domandò il procuratore e in un attimo abbandonò la sua aria di dignitosa discrezione. Pose la domanda con una sorta di insinuante timidezza. Aveva fiutato la rilevanza di un fatto del quale non era ancora a conoscenza e di colpo aveva avuto paura che Mitja non glielo volesse svelare del tutto. 

 «Ah, non lo sapevate!», disse Mitja ammiccando con un sorrisetto ironico e maligno. «Che accadrebbe, se non ve lo dicessi? Da chi potreste venirlo a sapere allora? Nessuno era a conoscenza di quei segnali eccetto il defunto, io e Smerdjakov, nessun altro; anche il Cielo li conosceva, ma quello, certo, non vi dirà nulla. Ma è un fatterello interessante, lo sa solo il diavolo che cosa ci potreste imbastire sopra, ah, ah! Calmatevi, signori, ve lo svelerò, qualche stupida idea vi frulla in testa. Non sapete con chi avete a che fare! Voi avete a che fare, vi dico, con un imputato che fornisce da solo prove contro se stesso, a proprio danno! Sì, giacché io sono un principe dell'onore, mentre voi no!» 

Il procuratore mandava giù tutte quelle pillole, tremava soltanto per l'impazienza di conoscere quella nuova circostanza. Mitja gli espose diffusamente e con precisione tutto ciò che riguardava quei segnali escogitati da Fëdor Pavloviè per Smerdjakov, raccontò che cosa significava ogni colpo alla porta, batté persino sul tavolo quei segni convenzionali e alla domanda di Nikolaj Parfenoviè se lui, Mitja, avesse bussato alla finestra del vecchio proprio quel segnale che significava: "Grušen'ka è arrivata", egli rispose che aveva bussato proprio il segnale che stava ad indicare "Grušen'ka è arrivata". 

 «Ecco a voi, adesso costruiteci sopra la vostra torre!», sbottò Mitja e ancora si girò dall'altra parte con aria di disprezzo. 

 «E nessun altro sapeva di quei segnali a parte il vostro defunto genitore, voi e il servo Smerdjakov? Nessun altro?», si informò ancora una volta Nikolaj Parfenoviè. «Sì, il servo Smerdjakov e poi il Cielo. Verbalizzate anche il Cielo: potrebbe sempre tornare utile. E poi anche voi potreste trovarvi ad avere bisogno di Dio». 

SMERDIAKOV E' L'OMICIDA?

Quelli ovviamente avevano già cominciato a verbalizzare, ma mentre verbalizzavano, il procuratore, all'improvviso, come se si fosse d'un tratto imbattuto in una nuova idea, disse: «E allora, se anche Smerdjakov sapeva di quei segni e voi negate nella maniera più assoluta ogni responsabilità nell'omicidio di vostro padre, non potrebbe essere stato lui a indurre vostro padre ad aprire la porta, dopo aver bussato quei segnali convenzionali e poi... avere commesso il delitto?» 

Mitja rivolse verso di lui uno sguardo ironico e allo stesso tempo carico d'odio. Il suo sguardo silenzioso durò così a lungo che il procuratore cominciò a battere le palpebre. «Avete catturato la volpe un'altra volta!», disse infine Mitja. «Avete agguantato quella canaglia per la coda, eh, eh! Leggo da parte a parte dentro di voi, procuratore! Voi naturalmente pensavate che sarei saltato su e mi sarei appigliato al vostro suggerimento per gridare a squarciagola: "Ahi, è stato Smerdjakov, è lui l'assassino!" Ammettetelo che pensavate questo, ammettetelo, e allora continueremo». Ma il procuratore non lo ammise. Taceva e aspettava. «Vi siete sbagliato, io non griderò contro Smerdjakov!», disse Mitja. «E non sospettate minimamente di lui?» «E voi sospettate di lui?» «Abbiamo sospettato anche di lui». Mitja fissò lo sguardo sul pavimento. «Scherzi a parte», disse lui cupamente, «ascoltate: sin dall'inizio, quasi sin dal momento in cui vi sono balzato davanti da dietro la tenda, mi è balenato in testa questo pensiero: "Smerdjakov!" Mentre sedevo qui, a questo tavolo, e gridavo di essere innocente di quel sangue, non facevo che pensare e ripensare: "Smerdjakov!" E Smerdjakov non mi usciva dall'anima. E infine adesso di punto in bianco: "Smerdjakov!", ma solo per un attimo, poi, immediatamente dopo, ho pensato: 

"No, non è stato Smerdjakov!" Non è opera sua, signori!» 

 «C'è qualcun altro sul quale nutrite sospetti in questo caso?», fece per domandargli con cautela Nikolaj Parfenoviè. «Non so chi potrebbe aver fatto una cosa del genere, la mano del Cielo o Satana, ma... non Smerdjakov!», tagliò corto bruscamente Mitja. «Ma cosa vi induce a dichiarare con tanta fermezza e insistenza che non è stato lui?» 

GIUDIZIO DI MITJA SU SMERDIAKOV

 «È una mia convinzione. Un'impressione. Perché Smerdjakov è una persona abietta per natura ed è un codardo. Anzi, non è un codardo, è il concentrato ambulante di tutta la codardia del mondo messa insieme. È stato generato da una gallina. Quando parlava con me tremava sempre per la paura che io lo ammazzassi, sebbene io non abbia mai alzato un dito contro di lui. Cadeva ai miei piedi e piangeva, baciava questi miei stivali, letteralmente, supplicandomi di "non spaventarlo". Avete sentito? "Non spaventarlo": ma sono queste cose da dirsi? E io che gli davo pure delle mance. Quello è una gallina malata di mal caduco, debole di cervello, uno che si farebbe battere da un ragazzetto di otto anni. È forse un carattere capace di commettere un simile delitto? Non è stato Smerdjakov, signori, e poi quello non è nemmeno attaccato ai soldi, non accettava mai le mie mance... E poi che motivo avrebbe avuto di uccidere il vecchio? Con ogni probabilità è suo figlio, suo figlio naturale, lo sapete questo, vero?» 


 «Abbiamo sentito di questa leggenda. Ma anche voi siete figlio di vostro padre, eppure avete dichiarato a destra e a manca che volevate ucciderlo». 


 «Questo è un brutto tiro! Un tiro abietto! Ma io non ho paura! Signori, non pensate che sia troppo meschino da parte vostra dirmi rinfacciarmi queste cose? Meschino proprio perché sono stato io stesso a dirvelo. Non solo volevo ammazzarlo, ma avrei potuto farlo e per di più mi sono accusato volontariamente dicendo di essere stato vicinissimo ad ucciderlo! Ma poi non l'ho ucciso, evidentemente mi ha salvato il mio angelo custode, ecco che cosa voi non avete preso in considerazione... Ecco perché è meschino, meschino da parte vostra! Perché io non ho ucciso, non ho ucciso, non ho ucciso! Mi sentite, procuratore: non ho ucciso!» 


 A momenti soffocava. Da quando era iniziato l'interrogatorio non era mai stato così agitato. «E lui che cosa vi ha detto, signori - Smerdjakov, intendo?», concluse poi dopo un breve silenzio. «Se è lecito porvi la domanda». «Voi potete farci qualsiasi domanda», rispose il procuratore in tono freddo e severo, «qualsiasi domanda che riguardi i fatti inerenti al caso, e noi, dal nostro canto, ve lo ripeto, siamo quasi obbligati a darvi soddisfazione per ogni vostra domanda. Abbiamo trovato il servo Smerdjakov che giaceva privo di conoscenza nel suo letto, in preda a un gravissimo attacco epilettico, che si ripeteva forse per la decima volta di seguito. Il dottore che era con noi, dopo averlo visitato, ci ha detto che forse non avrebbe passato la notte». 

IL DIAVOLO HA UCCISO MIO PADRE!

 «Be', in tal caso è stato il diavolo ad uccidere mio padre!», proruppe Mitja come se fino a quel momento non avesse fatto altro che domandarsi: "È stato Smerdjakov oppure no?" 

 «Torneremo ancora sull'argomento», decise Nikolaj Parfenoviè, «ma, adesso, non potreste proseguire con la vostra deposizione?» Mitja chiese un attimo di pausa. Glielo concessero con gentilezza. Dopo aver riposato, proseguì la sua storia. Ma era evidente che gli riusciva penoso. Egli era esausto, mortificato e moralmente scosso. Per di più il procuratore lo esasperava ad ogni pie' sospinto - si sarebbe detto che lo facesse apposta adesso - con la sua fissazione per i "dettagli".

GRIGORI

 



Mitja aveva appena finito di raccontare di come, a cavalcioni sullo steccato, avesse con il pestello ferito alla testa Grigorij, che gli stava aggrappato alla gamba sinistra, e poi era subito balzato giù, verso il servo atterrato, quando il procuratore lo fermò e gli chiese di descrivere con maggiori dettagli la posizione in cui stava seduto a cavalcioni sullo steccato. Mitja restò stupito. «Be', stavo seduto così, a cavalcioni, con una gamba qui e l'altra là...» «E il pestello?» «Il pestello in mano». «Non in tasca? Lo ricordate con precisione questo? Lo avete colpito con molta violenza?» «Credo di sì, ma perché me lo domandate?» «Vi dispiacerebbe mettervi a sedere sulla sedia nella stessa posizione in cui eravate seduto sullo steccato e mostrarci, per chiarirci le idee, come e dove lo avete colpito, da quale parte?» «Non vi state prendendo gioco di me, vero?», domandò Mitja guardando con aria altera l'inquirente, ma quello non batté ciglio. Mitja si voltò febbrilmente, si sedette cavalcioni sulla sedia e agitò il braccio come per assestare un colpo: «Ecco come lo ho colpito! Ecco come ho ucciso! Che volete ancora?» «Vi ringrazio. Vi dispiacerebbe adesso spiegarci il motivo esatto per cui siete saltato giù, a che scopo e che cosa avevate in mente?» «Ma al diavolo... sono saltato verso il servo atterrato... Non so il perché!» «Eppure eravate agitato e in fuga, non è vero?» «Sì, ero agitato e in fuga». «Volevate aiutarlo?» «Come, aiutarlo... Sì, forse anche aiutarlo, non ricordo». «Non ricordate? Allora vi trovavate come in stato di incoscienza?» «Oh no, non in stato di incoscienza, ricordo tutto. Tutto sino ai minimi particolari. Sono saltato giù per dare un'occhiata e gli ho asciugato il sangue con il fazzoletto». «Abbiamo visto il vostro fazzoletto. Speravate di riportare in vita colui che avevate abbattuto?» «Non so che cosa sperassi. Volevo semplicemente accertarmi se fosse vivo o no». «E così volevate accertarvi di questo? E allora?» «Non sono un medico, non riuscii a stabilirlo. Scappai pensando di averlo ammazzato, ma adesso si è ripreso». «Benissimo, signore», concluse il procuratore. 


«Vi ringrazio. Era tutto quello che volevo sapere. Andate avanti per cortesia». 


 Ahimè, a Mitja non passò neanche per la mente di raccontare, sebbene se ne ricordasse, che era saltato giù per pietà e che, accanto alla vittima, aveva persino pronunciato qualche parola di pietà: "Sei capitato, vecchio, non c'è niente da fare, adesso stattene lì". 

Invece, il procuratore non poté che trarre una sola conclusione e cioè che quell'uomo era saltato giù "in un momento simile e con una tale agitazione addosso" esclusivamente per accertarsi se fosse vivo l'unico testimone del proprio delitto. Che forza, che risolutezza, che sangue freddo e che capacità di calcolo aveva dimostrato quell'uomo in un momento simile... e così via. Il procuratore era soddisfatto: "Ho esasperato un soggetto irritabile con i 'dettagli' ed egli si è tradito". 

 Mitja proseguiva con uno sforzo penoso. Ma Nikolaj Parfenoviè lo interruppe per l'ennesima volta. «Come avete potuto irrompere in casa della serva Fedos'ja Markovna con tutto quel sangue sulle mani e, come è risultato in seguito, anche sul viso?» «Ma allora non mi ero affatto accorto di essere sporco di sangue!», rispose Mitja. «È verosimile, capita alle volte», e il procuratore scambiò un'occhiata con Nikolaj Parfenoviè. «Non me n'ero per nulla accorto, avete detto benissimo, procuratore», approvò ad un tratto Mitja. Ma poi seguì la storia dell'improvvisa decisione di Mitja di "farsi da parte" e di "lasciar passare le due creature felici". 

 Ormai non riusciva in nessun modo a svelare il proprio cuore, come prima, e a raccontare della "regina dell'anima sua". 

Gli ripugnava, davanti a quelle persone fredde, che "gli stavano addosso come cimici". E così, in risposta alle loro reiterate domande, dichiarò con brusca concisione: 

PROPOSITO DI SUICIDIO

 «Be', avevo deciso di uccidermi. A che scopo continuare a vivere? Questa domanda mi saltò in mente spontaneamente. Era tornato il suo primo e indiscutibile amore, colui che l'aveva oltraggiata, sì, ma che ora correva da lei con il suo amore per riparare all'offesa, dopo cinque anni, con un regolare matrimonio... Avevo capito che per me era finita...E poi alle spalle avevo quell'infamia: quel sangue, il sangue di Grigorij... A che scopo vivere? Così andai a riscattare le pistole che avevo pignorato per caricarle e spararmi un colpo alle cervella all'alba...» «E fare una gran baldoria la notte?» «Una gran baldoria la notte. Ma al diavolo, signori, facciamola finita al più presto. 

IL BIGLIOTTO DI ADDIO

Avevo davvero intenzione di spararmi non lontano da qui, nei dintorni del villaggio; avevo progettato di farlo verso le cinque del mattino, avevo preparato un bigliettino, che è qui in tasca, l'avevo scritto da Perchotin, dopo aver caricato le pistole. Ecco qui il bigliettino, leggete. Non è per voi che sto raccontando questo!», soggiunse di punto in bianco in tono sprezzante. Gettò sul tavolo verso di loro quel foglietto che aveva tratto dalla tasca del panciotto; gli inquirenti lessero con grande attenzione e, com'è di prassi, lo allegarono agli atti. «Ma non vi venne in mente di lavarvi le mani neanche quando arrivaste a casa del signor Perchotin? Non temevate di destare sospetti?» «Quali sospetti? Sospetti o non sospetti, sarei comunque corso qui e alle cinque mi sarei sparato e non avrebbero fatto in tempo a farmi nulla. Se non fosse stato per l'incidente di mio padre, non ne avreste saputo niente e non sareste mai venuti qui. Oh, ma è stato il diavolo, è stato il diavolo ad uccidere mio padre, è per colpa del diavolo che siete venuti a saperlo così presto! Come avete fatto ad arrivare così presto? È stupefacente, è fantastico!»

I BIGLIETTI DA 100 RUBLI



 «Il signor Perchotin ci ha riferito che al momento di entrare in casa sua tenevate in mano... con quelle mani insanguinate... i vostri soldi... molti soldi... un mucchio di banconote da cento rubli che ha notato anche il ragazzo di servizio!» «È così, signori, mi ricordo che è andata proprio così». 

 «Adesso sorge una piccola questione. Potreste dirci», prese a dire Nikolaj Parfenoviè in tono estremamente mellifluo, «dove vi siete procurato tanto denaro, tutto d'un tratto, quando dal resoconto dei fatti e dal calcolo dei tempi, risulta che non siete nemmeno passato di casa?» 

 Il procuratore si accigliò leggermente a quella domanda posta senza mezzi termini, ma non interruppe Nikolaj Parfenoviè. 

 «No, non sono passato da casa», rispose Mitja, all'apparenza estremamente calmo, ma con gli occhi abbassati. «Permettete che vi ripeta la domanda in questo caso», incalzava Nikolaj Parfenoviè, insidiandolo. «Dove potevate procurarvi una simile somma, quando, secondo le vostre stesse dichiarazioni, solo alle cinque del pomeriggio di quello stesso giorno...» 

IL SEGRETO DEI RUBLI

 «Mi sono trovato ad aver bisogno di dieci rubli e ho impegnato le pistole da Perchotin, poi mi sono recato dalla Chochlakova per chiederle tremila rubli e quella non me li ha dati e così di seguito, tutto il resto», lo interruppe bruscamente Mitja. «Sì, proprio così, avevo bisogno di soldi e poi tutto d'un tratto sono comparse quelle migliaia di rubli, e allora? Sapete, signori, adesso tutti e due avete una gran paura che io non vi dica da dove ho preso quei soldi! Ed è proprio così: non ve lo dirò, signori, avete indovinato, non lo saprete», scandì Mitja all'improvviso con estrema determinatezza. I giudici tacquero per un momento. 

 «Cercate di capire, signor Karamazov, che è essenziale per noi sapere questo», disse Nikolaj Parfenoviè in tono sommesso e pacato. «Lo capisco, ma non ve lo dirò lo stesso». Intervenne anche il procuratore e gli ricordò un'altra volta che l'interrogato aveva certo la facoltà di non rispondere alle domande, se riteneva tale comportamento confacente ai propri interessi, ma considerato il danno che l'indiziato poteva arrecare a se stesso con la propria reticenza, soprattutto in relazione a domande di una tale importanza che... «Eccetera, eccetera, signori! Basta così, questo sermone l'ho già sentito prima!», Mitja li interruppe nuovamente. «Mi rendo conto da me dell'importanza della questione e che questo è un punto vitale, ma non lo dirò lo stesso». «A noi che importa? Non sono mica fatti nostri, ma vostri: procurate un danno a voi stesso», osservò innervosito Nikolaj Parfenoviè. 

GENTILUOMINI

 «Vedete, signori, scherzi a parte», Mitja alzò di scatto lo sguardo verso di loro e li guardò entrambi con espressione decisa. «Sin dall'inizio ho avuto il presentimento che noi avremmo cozzato la testa proprio su questo punto. Ma all'inizio, quando ho cominciato a rilasciare la mia deposizione, tutto questo era lontano, avvolto nella nebbia, fluttuante, e sono stato così ingenuo da partire con la proposta di una "reciproca fiducia fra di noi". Adesso mi rendo conto che questa fiducia è fuori discussione, dal momento che in ogni caso saremmo arrivati a questa maledetta barriera! Ed ecco che ci siamo arrivati! Non si può andare oltre e tutto è finito! Del resto, non ve ne faccio una colpa, non è possibile neanche per voi credermi sulla parola, questo lo capisco, certo!» E si chiuse in un cupo silenzio. 

 «E non potreste, senza minimamente trasgredire il vostro proposito di tacere su un punto così fondamentale, non potreste nel contempo darci anche solo un minimo accenno a quei gravi motivi che vi indurrebbero al silenzio in un momento così delicato della vostra deposizione?» 

 Mitja sorrise mestamente e come sovrappensiero. 


L'INFAMIA PER MITJA


«Sono molto più buono di quanto voi pensiate, signori, io vi dirò il perché e vi darò questo accenno anche se non ve lo meritate. Io taccio, signori, perché qui per me si nasconde un'infamia. Nella risposta alla domanda "da dove avete preso questi soldi?" si racchiude per me un'infamia di fronte alla quale impallidirebbe anche la colpa dell'assassinio e del furto contro mio padre, nel caso in cui fossi stato davvero io a ucciderlo e derubarlo. Ecco perché non posso parlare. Non posso a causa di questa infamia. Ma, signori, volete verbalizzare anche questo?» 

 «Sì, lo verbalizziamo», balbettò Nikolaj Parfenoviè. 

 «Non dovreste scrivere questo fatto dell'"infamia". Vi ho reso questa testimonianza solo per bontà, avrei potuto anche non dirvi una parola, vi ho fatto un regalo in questo modo e invece voi giù a scrivere, senza andare tanto per il sottile. Ma sì, scrivete, scrivete quello che volete», concluse con disprezzo e avversione, «non mi fate paura e... posso andare a testa alta davanti a voi». 

 «E non potreste dirci di che genere di infamia si tratta?», fece per sussurrare Nikolaj Parfenoviè. Il procuratore si accigliò visibilmente. 

 «No, no, c'est fini, non vi date pensiero, e poi non vale la pena sporcarsi le mani. Mi sono già sporcato a sufficienza grazie a voi. Non ve lo meritate, né voi né nessun altro... Basta, signori, non dirò una parola di più». Pronunciò queste parole molto perentoriamente.

QUANTI ERANO? 

Nikolaj Parfenoviè smise di insistere, ma dagli sguardi di Ippolit Kirilloviè intuì in un attimo che quello non aveva ancora perso le speranze. «Non potreste per lo meno dichiarare a quanto ammontava la somma in vostro possesso quando vi recaste a casa del signor Perchotin, cioè quanti rubli erano per l'esattezza?» 

 «Non posso dichiarare neanche questo». 

3000 RUBLI?

 «Pare che al signor Perchotin abbiate parlato di tremila rubli, dicendo che li avevate ricevuti dalla signora Chochlakova: è così?» «Può darsi che gli abbia detto una cosa del genere. Basta signori, non dirò quanti soldi erano». «In tal caso descriveteci per cortesia come siete arrivato qui e tutto quello che avete fatto una volta arrivato». «Ma a questo proposito potete interrogare tutti quelli che erano presenti. Ma del resto, posso raccontarvelo pure io». E infatti raccontò l'accaduto, ma non staremo qui a riportarlo. Il suo racconto fu asciutto, frettoloso. Non accennò nemmeno ai propri entusiasmi amorosi. Tuttavia riferì che aveva abbandonato la decisione di spararsi "in considerazione di fatti nuovi". Egli raccontava senza spiegare i vari motivi, senza scendere in dettagli. E nemmeno gli inquirenti lo seccarono molto questa volta: era chiaro che nemmeno per loro quello era il punto fondamentale al momento. 

 «Verificheremo tutto questo, ci ritorneremo nel corso degli interrogatori dei testimoni, che avverranno, naturalmente, in vostra presenza», concluse l'interrogatorio Nikolaj Parfenoviè. 

LA SPOGLIAZIONE

«Adesso vogliate gentilmente poggiare qui sul tavolo tutti gli oggetti che avete con voi, e soprattutto tutto il denaro che avete al momento». «Il denaro, signori? Certo, capisco che è necessario. Mi meraviglio persino che non abbiate curiosato prima. Vero è che non sarei scappato da nessuna parte, me ne stavo seduto in bella vista. Eccoli qui i miei soldi, ecco contateli, prendeteli, sono tutti, mi pare». Egli estrasse tutto il contenuto delle tasche, persino gli spiccioli, tirò fuori pure due monetine da venti copeche dalla tasca laterale del panciotto. 

836,40 RUBLI

 Contarono i soldi, risultarono ottocentotrentasei rubli e quaranta copeche. «E questo è tutto?», domandò il giudice istruttore. «Tutto». «Poc'anzi avete detto, durante la deposizione, che avete speso trecento rubli nella bottega dei Plotnikov, ne avete dati dieci a Perchotin, venti al vetturino, qui ne avete persi duecento, poi...» Nikolaj Parfenoviè fece tutto il conto. Mitja lo aiutò volentieri. Ricordarono e inclusero nel conto ogni copeca. Nikolaj Parfenoviè tirò subito le somme. «Compresi questi ottocento, dovevate averne millecinquecento all'incirca all'inizio?» «Credo di sì», tagliò corto Mitja. «E come mai tutti affermano che ne avevate molti di più?» «E che lo affermino pure». «Ma lo avete affermato voi stesso». «Già, l'ho affermato io stesso». 

 «Controlleremo ancora attraverso le testimonianze delle persone che non sono state ancora interrogate; dei vostri soldi non vi preoccupate, verranno custoditi dove si conviene e torneranno a vostra disposizione alla fine di tutto... quello che abbiamo cominciato... se risulterà, come dire, se verrà provato che ne avete l'indiscutibile diritto. Be', ma adesso...» Nikolaj Parfenoviè si alzò di scatto e dichiarò a Mitja in tono deciso che era suo "suo dovere e obbligo" eseguire un'accuratissima e completa perquisizione "degli abiti e di tutto il resto..." «Prego, signori, rivolterò tutte le tasche, se volete». 

 E si mise per davvero a rivoltare le tasche. «È necessario che vi togliate i vestiti». «Come? Spogliarmi? Ma che diamine! Ma perquisitemi così, non si può così?» «Non è assolutamente possibile, Dmitrij Fëdoroviè. Occorre che vi togliate i vestiti». 

 «Come volete», si sottomise cupamente Mitja. «Solo, vi prego, non qui, ma dietro la tenda. Chi eseguirà la perquisizione?» «Naturalmente, dietro la tenda», annuì con il capo Nikolaj Parfenoviè. Il suo visetto aveva preso persino un'espressione di particolare solennità.