giovedì 19 agosto 2021

Pellegrinaggio di un'anima attraverso le tribolazioni. Tribolazione seconda

 IV • Tribolazione seconda 






 «Voi non immaginate neppure quanto ci incoraggiate con la vostra disponibilità, Dmitrij Fëdoroviè...», cominciò a dire Nikolaj Parfenoviè con aria animata e un'evidente soddisfazione che risplendeva nei suoi grandi occhi sporgenti color grigio chiaro, molto miopi, dai quali proprio qualche minuto prima aveva tolto gli occhiali. «E avete fatto un'osservazione molto giusta a proposito di questa reciproca comprensione tra di noi, senza la quale a volte è persino impossibile procedere, in casi di tale importanza, purché l'indiziato abbia la speranza e il desiderio di difendersi e sia nella posizione di farlo. Da parte nostra, faremo tutto quello che è in nostro potere, come voi stesso avete potuto notare dal modo stesso in cui stiamo conducendo questo caso... Voi approvate, Ippolit Kirilloviè?» e si rivolse a bruciapelo al procuratore. «Oh, senza dubbio», approvò il procuratore, anche se in tono un po' asciutto rispetto all'impetuosità di Nikolaj Parfenoviè. 


 Noterò una volta per tutte che Nikolaj Parfenoviè, arrivato solo di recente nella nostra città, aveva nutrito sin dall'inizio una stima speciale nei confronti di Ippolit Kirilloviè, il procuratore, e si era persino molto affezionato a lui. Egli era praticamente l'unica persona a credere fermamente nello straordinario talento, sia di psicologo sia di oratore, del nostro Ippolit Kirilloviè "danneggiato nei suoi meriti di servizio", ed era l'unico a credere ciecamente che quello fosse stato danneggiato sul serio. Aveva sentito parlare di lui sin da quando studiava a Pietroburgo. 

In compenso, il giovane Nikolaj Parfenoviè, dal canto suo sembrava l'unica persona al mondo al quale il nostro procuratore "danneggiato" volesse veramente bene. Durante il tragitto i due avevano fatto in tempo a mettersi d'accordo e a raggiungere un'intesa riguardo al presente caso e adesso, a tavolino, l'intelligenza sveglia di Nikolaj Parfenoviè coglieva al volo e interpretava ogni indicazione, ogni movimento nel viso del suo collega più anziano: gli bastava una mezza parola, uno sguardo, un ammiccamento. 



 «Signori, lasciate soltanto che parli io, non mi interrompete con delle sciocchezze e io vi racconterò tutto in un batter d'occhio», disse Mitja concitato.

LE PISTOLE IMPEGNATE E I 10 RUBLI


 «Benissimo, signore. Vi ringrazio. Ma prima di passare all'ascolto della vostra comunicazione, permettetemi di constatare un piccolo fatto, per noi molto interessante, proprio riguardo a quei dieci rubli che voi ieri, verso le cinque del pomeriggio, avete preso in prestito, impegnando le vostre pistole, dal vostro conoscente Pëtr Il'iè Perchotin». «Le ho impegnate, signori, le ho impegnate per dieci rubli, che c'è da dire? È tutto lì, non appena ho fatto ritorno in città le ho impegnate subito». 

IL VIAGGIO A CERSNAJA


 «Tornavate da un viaggio, dunque? Siete stato fuori città?» «Sono stato fuori città, signori, a quaranta verste di distanza, ma non lo sapevate?» Il procuratore e Nikolaj Parfenoviè si scambiarono un'occhiata. «E se incominciaste il vostro racconto con la descrizione sistematica della vostra giornata di ieri a partire dalla mattina? Permetteteci, per esempio, di domandare: per quale motivo vi siete assentato dalla città, a che ora siete partito e a che ora siete tornato... e tutte le altre circostanze di questo genere...» «Avreste dovuto interrogarmi in questo modo sin dall'inizio», scoppiò a ridere Mitja, «e se volete, non cominceremo da ieri, ma dalla mattina di ieri l'altro, allora capirete dove sono andato, come e per quale motivo. La mattina di ieri l'altro, signori, mi sono recato dal nostro concittadino, il mercante, Samsonov, per prendere in prestito da lui la somma di tremila rubli a fronte di sicurissime garanzie, ne avevo un bisogno improrogabile, improrogabile...» 

I 3000 RUBLI


 «Permettetemi di interrompervi», lo interruppe gentilmente il procuratore, «come mai vi trovavate ad aver bisogno all'improvviso proprio di quella somma, cioè di tremila rubli?» «Signori, non occorre scendere in simili dettagli: come, quando e perché, e perché proprio quella somma e non un'altra, e tutte queste quisquilie... che non basterebbero tre tomi per scriverle tutte, e poi ci vorrebbe anche l'epilogo!» Mitja pronunciò queste parole con la familiarità bonaria, ma impaziente, di chi desidera dire tutta la verità ed è animato da tutte le migliori intenzioni. «Signori», sembrò correggersi in tutta fretta, «non ve ne abbiate a male per la mia irruenza, vi prego ancora una volta: credetemi, nutro il massimo rispetto verso di voi e comprendo l'attuale stato delle cose. Non pensiate che io sia ubriaco. Sono completamente sobrio adesso. E anche se fossi ubriaco, la cosa non sarebbe di alcun impedimento. Per me vale quel detto: 


"Smaltì la sbronza, rinsavì e divenne stupido 

 Si ubriacò, scimunì e divenne intelligente". 


 Ah, ah! Del resto, mi rendo conto, signori, che è disdicevole da parte mia fare dello spirito con voi, finché non ci saremo spiegati. Credo di dover tenere alto il mio onore. Capisco perfettamente la differenza che c'è adesso tra di noi: dopo tutto mi trovo qui davanti a voi in veste di reo: dunque, sono lungi dall'essere vostro pari, e voi avete il compito di sorvegliarmi: non mi aspetto che mi diate una pacca sulla testa per le percosse a Grigorij, non si può andare in giro a fracassare le teste dei vecchi, impunemente: penso che, per questo, mi farete rinchiudere per sei mesi, diciamo, forse anche un anno in una casa di correzione - non so come giudicano di solito da voi - senza perdere però i miei diritti, senza perdere i diritti, vero, procuratore? Ecco vedete, signori, che comprendo benissimo la differenza che c'è fra noi... Ma converrete pure che potreste confondere Dio in persona con domande come: dove ti trovavi, come, quando e che cosa hai fatto? Io mi confonderò del tutto se continuate a fare così e voi subito giù a scrivere, senza andare tanto per il sottile, ma che cosa ne verrà fuori? Non ne verrà fuori niente! Sì, anche se sto dicendo cose prive di senso, lasciatemi finire, e voi signori, che siete persone altamente istruite e di nobilissimi sentimenti, mi perdonerete. Concluderò con una richiesta: abbandonate la prassi burocratica dell'interrogatorio, signori, e cioè smettetela di prendere le mosse dai dettagli più squallidi e insignificanti: come mi sono alzato, che cosa ho mangiato, come ho sputato, e poi, "dopo aver addormentato l'attenzione del criminale", lo stordite a bruciapelo con una domanda stupefacente: "Chi hai ucciso, chi hai derubato?" Ah, ah! Questa è la prassi burocratica, questa è la norma per voi, lo capisco, ecco su cosa si fonda tutta la vostra astuzia! Potete buggerare i contadini con questi stratagemmi, non certo me. Io so come vanno le cose, ho prestato servizio anch'io, ah, ah, ah! Non ve la prendete, signori, perdonerete la mia impertinenza?», gridò guardandoli con una bonarietà quasi sbalorditiva. «L'ha detto Dmitrij Karamazov, dunque si può perdonare, sarebbe imperdonabile da parte di un uomo assennato, ma da Mit'ka si può perdonare! Ah, ah!» 



 Nikolaj Parfenoviè ascoltava e rideva anche lui. 

Il procuratore, anche se non rideva, teneva lo sguardo fisso e vigile su Mitja, senza abbassarlo mai, come se non volesse perdere neanche una parolina, neanche un gesto, neanche la minima contrazione di un tratto del suo viso. 

 «Ma vi abbiamo trattato a questo modo sin dall'inizio», replicò Nikolaj Parfenoviè continuando a ridere, «non abbiamo affatto cercato di confondervi con le domande: come vi siete alzato stamattina e che cosa avete mangiato, ma siamo andati, anche troppo, al sodo». 

 «Capisco, ho capito e ho apprezzato, e apprezzo ancora di più la bontà che adesso dimostrate nei miei confronti, una bontà senza precedenti, degna di nobili cuori. Siamo tutti e tre dei gentiluomini, che tutti quindi si proceda sulla base della fiducia reciproca tra persone istruite e di mondo, che hanno in comune il legame della nobiltà e dell'onore. In ogni caso, permettetemi di considerarvi tra i miei migliori amici in questo momento della mia vita, in questo momento di umiliazione del mio onore! Non è un'offesa per voi, non è un'offesa?» 

 «Al contrario, avete espresso meravigliosamente tutto questo, Dmitrij Fëdoroviè», convenne Nikolaj Parfenoviè con aria dignitosa e d'approvazione. 

 «Ma basta con i dettagli, signori, basta con tutti questi dettagli cavillosi», esclamò Mitja con entusiasmo, «altrimenti non sappiamo neanche dove si va a finire, non è vero?» 

 «Seguirò per filo e per segno i vostri assennati consigli», intervenne di punto in bianco il procuratore rivolgendosi a Mitja, «ma non ritirerò la mia domanda. È troppo essenziale per noi sapere come mai vi occorreva proprio quella cifra, vale a dire la somma di tremila rubli?» 

 «Perché mi occorreva? Per il fatto che... Be', per saldare un debito». 

 «Contratto con chi?» 


IL SEGRETO DI MITJA

 «Mi rifiuto categoricamente di dirlo, signori! Vedete, non è che non possa dirlo, che me ne manchi il coraggio, né che possa essere messo in pericolo, dal momento che è una faccenda di nessun conto, una sciocchezza, ma non lo dirò perché è una questione di principio: è la mia vita privata e io non ammetto alcuna intrusione nella mia vita privata. Questo è il mio principio. La vostra domanda non ha alcuna attinenza con questo caso, e tutto quello che non ha attinenza con questo caso riguarda soltanto la mia vita privata! Volevo saldare un debito, volevo saldare un debito d'onore, contratto con chi, non lo dirò». «Permettetemi di prendere nota di questo», disse il procuratore. «Fate come credete, scrivete proprio così, che non lo dirò, non lo dirò mai. Scrivete pure, signori, che considero persino disonorevole dirlo. Eh, sì, ne avete di tempo per scrivere!» 


 «Permettete che vi avvisi e vi ricordi un'altra volta, egregio signore, nel caso che non lo sapeste», disse il procuratore in tono di speciale e rigido ammonimento, «che avete tutti i diritti di non rispondere alle domande che vi vengono poste adesso, e noi, dal canto nostro, non abbiamo alcun diritto di estorcervi risposte, se voi stesso vi rifiutate di rispondere per un motivo o per l'altro. Spetta unicamente a voi scegliere di rispondere. 

Ma è nostro dovere, d'altro canto, in casi come questo, spiegarvi e farvi presente la misura del danno che procurate a voi stesso rifiutandovi di fornire questa o quella dichiarazione. 

Detto questo, vi invito a continuare».


 «Signori, non sono affatto adirato... io...», fece per borbottare Mitja con un tono un po' sconcertato dall'ammonimento, «ecco, vedete, quel Samsonov, dal quale mi sono recato...» 


 Noi, ovviamente, non staremo a riportare nei particolari il suo racconto riguardo ai fatti già noti al lettore. Il narratore era ansioso di non trascurare neanche il minimo dettaglio e allo stesso tempo aveva fretta di venirne a capo al più presto. 


Ma dal momento che stavano verbalizzando la sua deposizione, erano costretti a interromperlo di continuo. A Dmitrij Fëdoroviè questo non piaceva, ma si sottometteva alla procedura; si irritava, ma ancora con una certa bonarietà. Vero è che di tanto in tanto esclamava: 

"Signori, questo farebbe perdere la pazienza al Padreterno in persona", oppure "Signori, ma lo sapete che mi fate proprio uscire dai gangheri?"; eppure, mentre prorompeva in queste esclamazioni, egli continuava a conservare la sua espansiva disposizione di spirito. Così raccontò di come lo aveva "raggirato" Samsonov due giorni prima. (Si era ormai reso perfettamente conto di essere stato raggirato).

OROLOGIO VENDUTO PER 6 RUBLI 

La notizia della vendita dell'orologio al prezzo di sei rubli per procurarsi il denaro del viaggio - una novità per il giudice istruttore e il procuratore - suscitò immediatamente grande attenzione da parte loro, con somma indignazione da parte di Mitja, dal momento che quelli ritennero doveroso verbalizzare questo fatto in ogni dettaglio, ad ennesima conferma della circostanza che sino al giorno prima egli non aveva il becco di un quattrino. 

A poco a poco Mitja si faceva sempre più cupo. Poi, dopo aver descritto il suo viaggio per vedere Ljagavyj e la notte che aveva passato nell'izba asfissiante e tutto il resto, egli passò a raccontare il suo ritorno in città e a questo punto, senza essere sollecitato, egli cominciò a fornire un dettagliato resoconto delle sue pene di gelosia per Grušen'ka. 

Lo ascoltavano in silenzio, molto attenti, indagarono in particolare sulla circostanza che egli avesse da un pezzo un posto di vedetta per sorvegliare l'arrivo di Grušen'ka da Fëdor Pavloviè, "sul retro", in casa di Mar'ja Kondrat'evna e anche sul fatto che Smerdjakov lo tenesse informato: attribuirono particolare valore a queste informazioni e ne presero nota.

GELOSIA 

Sulla propria gelosia egli si diffuse con calore e, sebbene si vergognasse di esporre i propri sentimenti più intimi al "pubblico ludibrio", diciamo così, egli evidentemente si sforzava di superare la vergogna al fine di dire tutta la verità. La fredda severità con la quale lo fissavano il giudice istruttore e soprattutto il procuratore, mentre egli parlava, finirono per sconcertarlo del tutto: 

"Questo ragazzo, Nikolaj Parfenoviè, con il quale solo qualche giorno fa ho scambiato sciocchi commenti sulle donne e questo procuratore malato non meritano di ascoltare quello che gli sto raccontando", pensò con tristezza. "Che vergogna!" 

"Sii paziente, umile, taci", 

concluse con questo verso i suoi pensieri, ma cercò di farsi forza per proseguire il suo racconto.

LA VISITA ALLA CHOCHLAKOVA 

Quando passò a raccontare la visita alla Chochlakova, divenne persino allegro e avrebbe anche voluto soffermarsi su un certo aneddoto che circolava di recente sul conto di quella signora, che non c'entrava affatto con l'interrogatorio, ma il giudice istruttore lo fermò e lo pregò gentilmente di passare a "fatti più essenziali". Finalmente, quando descrisse la propria disperazione e disse loro che, dopo essere andato via da casa della Chochlakova, aveva pensato di "procurarsi quei tremila rubli anche a costo di scannare qualcuno", lo fermarono un'altra volta e misero agli atti che "aveva avuto intenzione di scannare qualcuno". E Mitja lasciò che scrivessero senza protestare. Alla fine raggiunse quel punto della sua storia, quando egli aveva appreso che Grušen'ka lo aveva ingannato e aveva lasciato la casa di Samsonov subito dopo che lui ce l'aveva accompagnata, mentre ella stessa aveva detto che sarebbe rimasta lì sino a mezzanotte: «Non ho ucciso Fenja in quel momento, signori, solo perché non ne avevo il tempo», si lasciò sfuggire a quel punto del suo racconto. E quelli ne presero diligentemente nota. 

Mitja attese con aria cupa ed era sul punto di raccontare di come si era precipitato dal padre, nel giardino, quando il giudice istruttore lo interruppe e, aperta la voluminosa cartella che giaceva accanto a lui sul divano, ne estrasse il pestello di ottone. 

IL PESTELLO

 «Riconoscete questo oggetto?», e lo mostrò a Mitja. 

 «Oh, sì!», sorrise lui cupamente. «Come non riconoscerlo? Datemelo qui che ci do un'occhiata... Ma al diavolo, che importa!» 

 «Avete dimenticato di menzionarlo», osservò il giudice istruttore. «Al diavolo! Non ve l'avrei mai nascosto, pensate che avrei potuto fare a meno di menzionarlo? Mi è semplicemente sfuggito». 

 «Abbiate la compiacenza di raccontarci la circostanza nella quale siete entrato in possesso di quell'arnese». «Certamente, avrò questa compiacenza, signori». E Mitja raccontò di come aveva preso il pestello ed era fuggito via. «Ma che scopo avevate nell'armarvi di un arnese simile?» «Che scopo? Nessuno scopo! L'ho preso e sono corso via». «Per quale motivo, se non avevate uno scopo?» 

 La rabbia ribolliva dentro di Mitja. Egli fissò il "ragazzo" e sorrise cupamente, con cattiveria. Il fatto era che si vergognava sempre di più per il fatto di aver raccontato con tanta sincerità la storia della propria gelosia "a gente del genere". 

 «All'inferno quel pestello!», proruppe all'improvviso. «Tuttavia...» «Be', per tenere lontani i cani. Diciamo perché era buio... insomma per ogni evenienza». «Anche in passato avete preso con voi qualche arma uscendo di notte, dal momento che il buio vi fa tanta paura?» «Ah, al diavolo, puah! Signori, con voi è letteralmente impossibile parlare!», gridò Mitja irritato sino all'esasperazione e, rivolgendosi allo scrivano, tutto rosso per la rabbia, con una nota di rabbia nella voce, gli disse in fretta: 

 «Scrivi, presto... presto... "che ho preso con me il pestello per andare ad ammazzare mio padre... Fëdor Pavloviè... con una botta in testa!" Be', siete soddisfatti adesso, signori? Vi sentite più sollevati?», disse fissando con aria di sfida il giudice istruttore e il procuratore. «Noi comprendiamo benissimo che avete fatto una simile dichiarazione perché siete esasperato da noi e adirato per le domande che vi poniamo, e che voi considerate di secondaria importanza, mentre invece sono essenziali», replicò seccamente il procuratore. 

 «Ma di grazia, signori! Be', ho preso il pestello... be', perché si prendono degli oggetti in mano in questi casi? Io non lo so perché. L'ho preso e sono corso via. Tutto qui. È vergognoso, signori, passons, dichiaro che non dirò più una parola!» 

 Egli puntò i gomiti sul tavolo e poggiò la testa sulla mano. Era seduto di lato rispetto a loro e guardava il muro, mentre cercava di reprimere un attacco di nausea. In realtà aveva una voglia terribile di alzarsi e dichiarare che non avrebbe detto più una sola parola "neanche se lo avessero condannato alla pena di morte". 

IL SOGNO DI MITJA

«Vedete, signori», disse all'improvviso sforzandosi di controllarsi, «vedete... io vi ascolto e mi viene in mente una cosa... io, sapete, faccio spesso un sogno... un sogno ricorrente, sempre lo stesso... che qualcuno mi dà la caccia, qualcuno del quale ho una paura terribile, mi insegue al buio, di notte, mi cerca, e io mi nascondo da qualche parte dietro una porta o un armadio, mi nascondo in modo mortificante e il peggio è che dovunque io mi nasconda, egli sa sempre il mio nascondiglio, ma fa finta di non saperlo a bella posta, per prolungare la mia agonia, per godere della mia paura... È quello che state facendo voi adesso! Esattamente lo stesso!» 

IL LUPO E I CACCIATORI

 «È questo il genere di sogni che fate?», si informò il procuratore. «Sì, è questo... Non volete verbalizzarlo?», disse Mitja con un ghigno. «No, non occorre verbalizzarlo; comunque fate dei sogni interessanti». «Non è questione di sogni adesso! È la vita reale questa, signori, la vita reale! Io sono il lupo e voi i cacciatori, allora abbattete questo lupo». 

 «Avete torto a fare un simile paragone...», prese a dire Nikolaj Parfenoviè in tono mellifluo. «Non ho torto, signori, non ho torto!», sbottò Mitja ancora una volta, anche se evidentemente quello scoppio d'ira gli aveva alleggerito il cuore ed egli diventava più buono ad ogni parola. «Potete pure non credere a un criminale o a un imputato sottoposto alle torture delle vostre domande, ma a un uomo nobile, signori, all'impeto nobilissimo di un'anima (lo grido a testa alta), no! Non potete non credere... non ne avete nemmeno il diritto... ma 

 Taci cuore Sii paziente, umile e taci! 

 E allora andiamo avanti o no?», tagliò corto con aria cupa. «Come no, siate così gentile», rispose Nikolaj Parfenoviè.