mercoledì 22 settembre 2021

KOLIA RACCONTA LA STORIA DI ZUCKA

 

LIBRO DECIMO-CAPITOLO QUARTO

ZUCKA







 [...]

Ditemi: è vostro questo cane?» «È mio. Si chiama Perezvon». «E non Žuèka?», Alëša guardò Kolja negli occhi con un'espressione piena di compassione. «Quello è proprio sparito nel nulla?» «So che tutti vorreste che fosse Žuèka, ho sentito tutto», e Kolja sorrise con un'aria enigmatica. «Ascoltate, Karamazov, vi spiegherò ogni cosa, per questo sono venuto e per questo vi ho fatto chiamare, per spiegarvi l'intero episodio prima di entrare», prese a dire animato. «Vedete, Karamazov, Iljuša è entrato nella classe preparatoria in primavera. Be', si sa come sono da noi le classi preparatorie: tutti ragazzini, mocciosi. Cominciarono subito a stuzzicarlo. Io sono due classi più avanti e, s'intende, guardavo il tutto da lontano, restando in disparte. Vedevo che il ragazzo era piccolo, deboluccio, ma non si sottometteva, si prendeva persino a botte con loro, tutto orgoglioso, con gli occhietti in fiamme. Mi piacciono molto i tipi così. Ma quelli lo trattavano ancora peggio. Il peggio era che allora aveva un orribile cappottuccio, dei pantaloncini che gli andavano corti e gli stivaletti con i buchi, e quelli lo stuzzicavano pure per questo. Lo umiliavano. No, io queste cose non le sopporto, intervenni immediatamente e detti loro una bella strapazzata. Io li picchio e quelli mi adorano, lo sapevate questo, Karamazov?» si vantò impulsivamente Kolja. «E poi in generale i mocciosi mi piacciono. Anche a casa ho sul groppone due uccellini che oggi mi hanno persino fatto fare tardi. Così, smisero di picchiare Iljuša e io lo presi sotto la mia protezione. Vedevo che era un ragazzino orgoglioso, ve l'ho già detto che è orgoglioso, ma andò a finire che divenne servilmente devoto nei miei confronti, eseguiva tutti i miei ordini, mi stava ad ascoltare come fossi Dio in terra, cercava di emularmi. Durante gli intervalli fra le lezioni correva sempre da me e ce ne andavamo insieme. E anche di domenica. Da noi a scuola, ridono quando un ragazzo grande stringe amicizia con uno più piccolo, ma è solo un pregiudizio. Mi andava di fare così e basta, non è giusto? Gli insegnavo, lo facevo crescere, perché non avrei dovuto farlo, se mi piaceva? Ecco: voi, per esempio, Karamazov, frequentate tutti quei piccoletti, vuol dire che volete influenzare la giovane generazione, volete aiutarla a crescere, essere utile? E devo ammettere che questo lato del vostro carattere, del quale sono venuto a conoscenza per sentito dire, è quello che mi ha interessato di più in voi. Ma passiamo ai fatti: mi accorgevo che nel ragazzo si stava sviluppando una certa sensibilità, una vena sentimentale, mentre io, vedete, sono sempre stato contrario a queste smancerie, sin dalla nascita. C'erano pure delle contraddizioni in lui: era orgoglioso, ma servilmente devoto nei miei confronti - servilmente devoto, ma poi, a volte, gli lampeggiavano gli occhietti e non voleva mai darmi ragione, litigava, usciva dai gangheri. Certe volte gli esponevo delle idee: non che fosse contrario a quelle idee, ma mi accorgevo semplicemente che era in rivolta contro di me, perché alle sue tenerezze io rispondevo con la freddezza. E così, al fine di addestrarlo nella maniera giusta, più tenero diventava lui, più freddo mi facevo io, lo facevo apposta, ero convinto di agire per il meglio. Intendevo forgiare il suo carattere, smussarlo, farne un uomo... insomma... voi mi capite al volo, credo. All'improvviso notai che per un giorno e poi un altro e poi un terzo, egli era turbato, triste, ma non per le tenerezze, per qualcos'altro di più grave, di superiore. Mi domandavo, ma che tragedia sarà mai questa? Lo costrinsi a parlare e venni a scoprire di che si trattava: in qualche modo egli aveva fatto conoscenza con Smerdjakov, il lacchè del vostro defunto padre (che a quel tempo era ancora fra i vivi) e quello, imbecille, gli aveva insegnato uno stupido scherzo, uno scherzo cattivo, brutale: prendere un pezzetto di pane, la mollica del pane, infilarci dentro uno spillo e gettarlo a qualche cane da cortile, di quelli che per fame ingoiano tutto senza masticare, e stare a vedere che cosa succede. Così prepararono un pezzo di pane in quella maniera e lo gettarono proprio a Žuèka, quel cane irsuto sul quale si fa tanto chiasso adesso, un cane da guardia di una casa dove semplicemente non gli davano mai da mangiare e il cane non faceva che abbaiare tutto il giorno. (A voi piace questo stupido abbaiare, Karamazov? Io non lo sopporto.) E così il cane si precipitò sul pezzo di pane, lo ingoiò e cominciò a guaire, a roteare, a correre, correva e guaiva e poi scomparve, è stato Iljuša stesso a raccontarmelo. Mi confessò questo e mentre lo faceva, piangeva, piangeva, mi abbracciava, tremava: "Correva e guaiva, correva e guaiva", non faceva che ripetere, questa immagine gli era rimasta molto impressa. Vedevo che era sopraffatto dai rimorsi di coscienza. Io la presi seriamente. Volevo soprattutto dargli una lezione anche per le altre cose che aveva combinato in passato e così, lo confesso, feci il furbo e finsi di essere molto più indignato di quello che ero veramente: "Tu hai commesso un'azione abietta, sei un mascalzone, io certo non lo dirò a nessuno, ma per il momento non voglio avere più niente a che fare con te. Ci penserò su e ti farò sapere, attraverso Smurov (quello stesso ragazzo che è venuto con me adesso, e che mi è sempre stato devoto), se in futuro vorrò avere a che fare con te o se ti lascerò perdere per sempre, come si fa con i mascalzoni". Questo lo impressionò terribilmente. Devo confessare che sin da allora intuii di essere stato troppo severo con lui, ma che farci? Quella era la mia idea allora. Il giorno dopo gli mandai Smurov con il messaggio che non gli avrei mai più "rivolto la parola", noi diciamo così quando due compagni rompono ogni rapporto di amicizia. Il segreto era che volevo tenerlo al bando per qualche giorno e poi, preso atto del suo pentimento, tendergli di nuovo la mano. Era mia ferma intenzione fare così. E invece a lui, pensate un po', dopo aver sentito il messaggio di Smurov, gli scintillarono gli occhi. "Riferisci a Krasotkin da parte mia", gridò, "che da adesso in poi getterò i pezzi di pane con gli spilli a tutti i cani, a tutti, a tutti!" "C'è arietta di sommossa, vediamo di soffiarla via!", pensai e cominciai a trattarlo con profondo disprezzo, ogni volta che lo incontravo mi giravo dall'altra parte o sorridevo ironicamente. Quando, all'improvviso, avvenne l'episodio del padre, vi ricordate, quello dello "straccio di stoppa". Capite che allora egli si trovava già predisposto all'esasperazione. I ragazzi, vedendo che io lo avevo abbandonato, si scagliarono contro di lui e lo schernivano: "Straccio! Straccio di stoppa!" E così ebbero inizio le loro scaramucce, per le quali nutro un gran rammarico, perché pare che una volta lo abbiano colpito davvero forte. Una volta lui si gettò solo contro tutti all'uscita da scuola, io quel giorno stavo a una decina di passi di distanza e lo guardavo. E lo giuro, non ricordo di aver riso: al contrario, provai una tale pena per lui che poco mancò che non prendessi le sue difese. Ma lui ad un tratto incrociò il mio sguardo: non so che cosa gli passò per la mente, ma estrasse il temperino, si scagliò contro di me e mi ferì alla coscia, qui sulla gamba destra. Io non mi mossi, non esito a dire che a volte sono molto coraggioso, Karamazov, mi limitai a guardarlo con disprezzo come a dirgli: "Questo è il ringraziamento per tutta la mia amicizia, fallo ancora se ti va, sono a tua disposizione". Ma lui non mi colpì un'altra volta, crollò, si spaventò lui stesso, gettò il temperino, scoppiò a piangere e scappò via. Io chiaramente non feci la spia e ordinai a tutti di tenere la bocca chiusa ché la voce non arrivasse ai superiori; non lo dissi nemmeno a mia madre finché la ferita non fu guarita, e poi era una cosa da nulla, un graffietto. Poi venni a sapere che quello stesso giorno si era preso a sassate con i compagni e vi aveva morso un dito, ma capite in quale stato si trovava! Ma che fare? Mi comportai da stupido: quando si ammalò non andai a perdonarlo, cioè a fare la pace con lui, e adesso me ne pento. Ma a questo punto sono sorte ragioni particolari. E così adesso sapete tutta la storia... solo che credo di aver agito stupidamente...» «Ah, che peccato», esclamò Alëša emozionato, «che non abbia saputo prima dei vostri rapporti, altrimenti sarei venuto di persona da voi a chiedervi di venire a trovarlo insieme a me. Ci credete che con la febbre, nel delirio egli parlava di voi? Io non sapevo nemmeno quanto gli foste caro! Ma veramente non siete riuscito a trovare quel cane, Žuèka? Il padre e tutti i ragazzi lo hanno cercato per tutta la città. Ci credete che malato, fra le lacrime, tre volte in mia presenza ha ripetuto al padre: "È stato per quello che mi sono ammalato, papà, perché ho ucciso Žuèka, Dio mi ha punito per questo". Non riesce a levarsi quel pensiero dalla testa! E se solo si potesse trovare quello Žuèka adesso e gli si dimostrasse che non è morto, ma che è vivo, forse resusciterebbe per la gioia. Noi tutti abbiamo riposto le nostre speranze in voi». «Dite, che cosa vi ha indotto a sperare che avrei trovato Žuèka, cioè che sarei stato proprio io a ritrovarlo?», domandò Kolja estremamente incuriosito. «Perché avete fatto affidamento proprio su di me e non su di un altro?» «Girava voce che voi stavate conducendo delle ricerche e che, una volta trovato il cane, lo avreste riportato. Smurov ha detto qualcosa del genere. Noi, soprattutto, abbiamo cercato di convincere Iljuša che Žuèka fosse vivo e fosse stato visto da qualche parte. I ragazzi gli hanno portato un leprotto vivo che si erano procurati, lui gli ha solo dato uno sguardo, ha sorriso appena appena e ha chiesto che lo lasciassero libero. E così abbiamo fatto. Proprio adesso è tornato a casa suo padre e gli ha portato un cucciolo di mastino che pure si è procurato chissà dove, pensava di consolarlo in questo modo, solo che, pare, abbia peggiorato le cose...»