martedì 19 ottobre 2021

TESTIMONIANZA DI ALEKSEI

 



V • La fortuna arride a Mitja Fu quasi una sorpresa per Alëša stesso. Egli era stato esonerato dal giuramento, e ricordo che entrambe le parti si rivolsero a lui con gentilezza e simpatia fin dalle prime battute dell'interrogatorio. Era evidente che lo precedeva una buona fama. Alëša rendeva la sua testimonianza con modestia e riserbo, tuttavia la sua ardente simpatia per il disgraziato fratello trapelava visibilmente. In risposta a una domanda, egli tratteggiò la personalità del fratello come quella di un uomo forse violento e in balia delle passioni, ma anche nobile, fiero, generoso, pronto al sacrificio all'occorrenza. Egli ammise, del resto, che negli ultimi giorni, a causa della passione per Grušen'ka e della rivalità con il padre, il fratello era venuto a trovarsi in una posizione insostenibile. Ma rigettò persino con indignazione anche la semplice ipotesi che il fratello avesse potuto uccidere a scopo di rapina, sebbene fosse pronto ad ammettere che quei tremila rubli, nella mente di Mitja, si erano trasformati in una sorta di fissazione; questi infatti li considerava come una parte dell'eredità che il padre gli aveva sottratto con l'inganno e, nonostante fosse disinteressato al denaro per sua natura, tuttavia non riusciva nemmeno a parlare di quei tremila rubli senza essere sopraffatto dal furore e dalla rabbia. Riguardo alla rivalità delle due "persone", come si espresse il procuratore, cioè Grušen'ka e Katja, egli rispondeva evasivamente, e a una o due domande non volle nemmeno rispondere. «Vostro fratello vi ha detto, per lo meno, che aveva intenzione di uccidere il padre?», domandò il procuratore. «Siete libero di non rispondere se lo ritenete necessario», soggiunse. «Non l'ha detto direttamente», rispose Alëša. «E come allora? Indirettamente?» «Una volta mi parlò dell'odio che nutriva nei confronti di nostro padre e che temeva... che in un momento particolare... in un momento di disgusto... forse, avrebbe anche potuto ucciderlo». «E voi, sentendo questo, gli credeste?» «Ho paura di dire che gli credetti. Ma sono sempre stato convinto che un certo sentimento superiore lo avrebbe salvato nel momento fatale, come infatti è avvenuto, perché non è stato lui a uccidere mio padre», concluse con fermezza Alëša a voce alta rivolto all'intera aula. Il procuratore trasalì come un cavallo in battaglia al suono della tromba. «Vi garantisco che credo pienamente alla profonda sincerità della vostra convinzione e che non la giustifico o identifico in alcun modo con l'affetto che vi lega al vostro infelice fratello. La vostra peculiare opinione su questo tragico episodio, che ha coinvolto la vostra famiglia, ci è già nota dall'istruttoria preliminare. Non vi nascondo che essa è estremamente personale e contraddice tutte le testimonianze raccolte dall'accusa. Ecco perché trovo necessario insistere nel domandarvi quali elementi abbiano indirizzato i vostri pensieri e vi abbiano condotto alla persuasione definitiva dell'innocenza di vostro fratello e, al contrario, della colpevolezza di un'altra persona, che voi avete chiaramente indicato nel corso dell'indagine preliminare». «Nel corso dell'indagine preliminare mi sono limitato a rispondere alle domande», disse Alëša con voce bassa e pacata, «non ho mosso alcuna accusa contro Smerdjakov di mia iniziativa». «Tuttavia avete indicato lui?» «L'ho fatto in base a quello che mi aveva detto mio fratello Dmitrij. Ancora prima di essere interrogato, mi hanno raccontato quello che era avvenuto durante l'arresto e come lui stesso aveva indicato Smerdjakov. Credo fermamente che mio fratello sia innocente. E se non è stato lui ad uccidere, allora...» «Allora è stato Smerdjakov? Ma perché proprio Smerdjakov? E per quale motivo esattamente vi siete convinto, senza ombra di dubbio, dell'innocenza di vostro fratello?» «Non posso fare a meno di credere a mio fratello. Io so che lui a me non mente. Ho capito dal suo viso che non mi stava mentendo». «Solo dal viso? Si riducono a questo le vostre prove?» «Non ho altre prove che queste». «E anche riguardo alla colpevolezza di Smerdjakov; non vi basate su nessuna altra prova che non siano le parole e l'espressione del viso di vostro fratello?» «Sì, non ho altre prove che queste». Il procuratore concluse il suo interrogatorio a questo punto. Le risposte di Alëša avevano sortito un effetto molto deludente nel pubblico. Si era parlato di Smerdjakov ancora prima che avesse inizio il processo, c'era chi aveva sentito qualcosa, chi aveva notato qualcos'altro, si diceva che Alëša avesse raccolto delle prove eccezionali per dimostrare l'innocenza di suo fratello e la colpevolezza del lacchè, ed ora ecco che non aveva nulla, niente prove, a parte le sue convinzioni di ordine morale, del tutto naturali nel fratello di un imputato. Ma cominciò ad interrogare anche Fetjukoviè. Alla domanda su quando esattamente l'imputato avesse detto a lui, ad Alëša, che odiava il padre e che avrebbe potuto anche ammazzarlo, se glielo avesse sentito dire, per esempio, nel corso dell'ultimo appuntamento prima della catastrofe, Alëša, tremando, ebbe un improvviso sussulto, come se si fosse ricordato di qualcosa che solo in quel momento stava comprendendo: «Adesso mi ricordo di una circostanza della quale mi ero quasi dimenticato, che allora non mi era chiara, ma adesso...» E così Alëša raccontò con trasporto - evidentemente era stato colpito per la prima volta da quella idea - che durante l'ultimo incontro con Mitja, di sera, accanto all'albero, sulla strada che portava al monastero, Mitja, colpendosi il petto, "la parte alta del petto", gli aveva ripetuto alcune volte di avere un mezzo per riconquistare il suo onore e che quel mezzo si trovava lì, sul suo petto... «Vedendo che si colpiva il petto, pensai che alludesse al cuore», proseguì Alëša, «al fatto che dal suo cuore avrebbe potuto trarre la forza di trovare una via d'uscita da quella terribile infamia che gli stava dinanzi e che non osava nemmeno confessare. Devo ammettere che allora pensai che stesse parlando di nostro padre e che stesse tremando per l'infamia al pensiero di andare da nostro padre e commettere qualche azione violenta contro di lui, eppure era come se volesse indicare qualcosa nel suo petto tanto che, me lo ricordo bene, a me balenò in mente l'idea che il cuore non si trova in quel punto del petto, ma più in basso, mentre lui si colpiva molto più in alto, ecco, qui, sotto il collo e continuava a indicare quel punto. Quel mio pensiero mi sembrò sciocco allora, ma forse in quel momento egli stava indicando proprio quell'amuleto dentro il quale conservava i millecinquecento rubli!..» «Proprio così!», gridò all'improvviso Mitja dal suo posto. «È così, Alëša, è così, battevo il pugno proprio sull'amuleto!» Fetjukovic si slanciò contro di lui implorandolo di calmarsi e un attimo dopo si aggrappò ad Alëša. Alëša, trasportato egli stesso dal proprio ricordo, espresse con fervore l'ipotesi che quell'infamia, con ogni probabilità, consistesse proprio nel fatto che, pur tenendo addosso quei millecinquecento rubli, che avrebbe potuto restituire a Katerina Ivanovna come metà del debito contratto, egli aveva deciso di non restituirli e di usarli per un altro scopo, cioè per fuggire con Grušen'ka, nel caso quest'ultima fosse stata d'accordo... «È così, è proprio così», esclamava Alëša in preda a un'improvvisa agitazione, «mio fratello allora mi gridò che metà, solo metà dell'infamia (ripeté più di una volta la parola la metà!) avrebbe potuto levarsi di dosso ma che era così disgraziato, per la debolezza del proprio carattere, che non l'avrebbe fatto... lo sapeva già che non poteva farlo, non ne aveva la forza!» «E voi ricordate con sicurezza, con chiarezza che egli si colpiva proprio in quel punto del petto?», incalzava avidamente Fetjukoviè. «Con chiarezza, con sicurezza, perché allora mi domandai perché stesse colpendo così in alto, se il cuore si trova più in basso e quel pensiero mi sembrò stupido... e io me lo ricordo che mi sembrò stupido... mi balenò alla mente. Ed ecco perché me ne sono ricordato in questo momento. Come ho fatto a dimenticarmene fino a questo momento?! Egli stava indicando proprio quell'amuleto come il suo mezzo, pensando però che non avrebbe restituito quei millecinquecento rubli! E quando fu arrestato, a Mokroe, egli gridò proprio - questo lo so, me l'hanno riferito - che l'atto più infame della sua vita lo aveva commesso quando, pur avendo il mezzo per restituire metà (proprio metà!) del suo debito a Katerina Ivanovna e non essere più un ladro ai suoi occhi, egli non si era deciso a restituire il denaro e aveva preferito rimanere un ladro nell'opinione di lei piuttosto che rinunciare a quei soldi! E come si tormentava, come si tormentava per quel debito!», concluse Alëša ad alta voce. Intervenne anche il procuratore, s'intende. Egli chiese ad Alëša di descrivere ancora una volta l'accaduto, e insisté diverse volte sulle domande: l'imputato, battendosi il petto, sembrava che stesse indicando qualcosa? Non poteva essere che si stesse battendo casualmente il petto con il pugno? «Ma non con il pugno!», esclamò Alëša. «Stava indicando proprio con le dita e indicava qui, molto in alto... Ma come ho fatto a dimenticarmene fino ad ora!» Il presidente domandò a Mitja se volesse dire qualcosa a proposito della testimonianza appena ascoltata. Mitja confermò che era accaduto tutto esattamente in quel modo, che egli stava indicando proprio quei millecinquecento rubli che aveva sul petto, un po' più in basso del collo, e che, ovviamente, quella era un'infamia, "un'infamia che non posso negare, l'azione più infame della mia vita!", esclamò Mitja. «Avrei potuto restituire quel denaro e non l'ho fatto. Ho preferito rimanere un ladro ai suoi occhi, ma non l'ho restituito e l'infamia più grande è che lo sapevo in anticipo che non l'avrei restituito! Alëša ha ragione! Grazie, Alëša!» Così ebbe termine l'interrogatorio di Alëša. Il dato importante e notevole che ne era emerso consisteva nell'aver rinvenuto se non altro un elemento, se non altro una prova, seppure piccolissima, quasi un accenno di prova, ma che tuttavia costituiva un piccolo passo avanti nel dimostrare che quell'amuleto era davvero esistito, che in esso erano contenuti millecinquecento rubli e che l'imputato non aveva mentito nel corso dell'istruttoria preliminare, quando a Mokroe aveva dichiarato che quei millecinquecento rubli "erano miei". Alëša era contento; tutto rosso per l'eccitazione, egli si avviò per sedersi nel posto che gli veniva indicato. A lungo continuò a ripetere tra sé e sé: "Come ho fatto a dimenticarlo! Come ho potuto dimenticarlo! E come mai me ne sono ricordato adesso, tutto d'un tratto?!" Ebbe inizio l'interrogatorio di Katerina Ivanovna.