mercoledì 27 ottobre 2021

IX • IPPOLIT KIRILLOVIE Psicologia a tutto vapore.

 IX • Psicologia a tutto vapore. 





La trojka galoppante. 


Il finale dell'arringa del procuratore Giunto a questo punto della sua arringa, Ippolit Kirilloviè, che evidentemente aveva scelto un metodo d'esposizione rigorosamente storico - quello a cui amano molto ricorrere tutti gli oratori nervosi che cercano a bella posta limiti rigorosamente fissati per contenere il loro irruente fervore - Ippolit Kirilloviè, dicevo, si dilungò particolarmente sul "primo" e "indiscutibile" amante, ed espresse alcune idee a loro modo interessanti sull'argomento. «Karamazov, che era geloso di chiunque fino alla follia, di colpo sembra cedere e scomparire dinanzi al "primo", all'"indiscutibile". Ed è tanto più strano, in quanto in passato non aveva prestato la minima attenzione a questo nuovo pericolo, che si avvicinava a lui in persona del rivale inatteso. Ma egli immaginava che fosse ancora lontano, mentre Karamazov vive sempre e soltanto il momento presente. Probabilmente lo considerava soltanto una finzione. Ma il suo cuore ferito intuì all'istante che la donna gli aveva tenuto nascosto quel nuovo rivale e lo aveva ingannato poco prima, proprio perché quel sopraggiunto rivale era tutt'altro che una fantasia, tutt'altro che una finzione per lei, perché egli era l'unica speranza della sua vita; egli intuì tutto questo in un attimo e si mise l'animo in pace. Signori della giuria, non posso passare sotto silenzio questo sorprendente tratto del carattere dell'imputato, il quale, a prima vista, sarebbe sembrato totalmente incapace di manifestare simili sentimenti: tutt'a un tratto, era sorto in lui un insopprimibile desiderio di giustizia, un profondo rispetto per la donna e il riconoscimento dei diritti del suo cuore; e quando avvenne tutto questo? Proprio nello stesso momento in cui, a causa di lei, egli si era imporporato le mani del sangue del proprio padre! È anche vero che il sangue versato in quel momento gridava già vendetta, giacché egli, dopo aver rovinato la propria anima e il proprio destino terreno, involontariamente doveva avvertire e domandarsi in quell'istante: "Che cosa significo io e che cosa posso significare adesso per lei, per quella creatura che amo più dell'anima mia, a confronto con quello il 'primo', con l''indiscutibile' che è tornato pentito dalla donna che un giorno ha rovinato, con rinnovato amore, con profferte oneste, con la promessa di una vita rigenerata e felice. Mentre io, disgraziato, che cosa potrei darle adesso, che cosa potrei offrirle?" Karamazov aveva compreso tutto questo, aveva compreso che il suo delitto gli aveva precluso tutte le strade, e che ormai egli era soltanto un criminale condannato alla pena capitale e non un uomo che ha tutta la vita dinanzi a sé! Questo pensiero lo aveva schiacciato, distrutto. E così, istantaneamente, si sofferma su un piano disperato che, a un carattere come il suo, doveva sembrare l'unica e fatale via d'uscita dalla terribile situazione in cui si trovava. La via d'uscita è il suicidio. Egli corre a riprendere le pistole che aveva pignorato presso l'impiegato Perchotin e nel contempo, durante il tragitto, mentre corre, tira fuori dalla tasca tutti i soldi che ha, quelli per i quali si è appena macchiato le mani del sangue di suo padre. Oh, il denaro gli serviva più di ogni altra cosa: Karamazov sarebbe morto, Karamazov si sarebbe sparato, e questo sarebbe stato un gesto per il quale lo avrebbero ricordato! Non per niente siamo dei poeti, non per niente abbiamo bruciato la nostra vita come una candela che si consuma da entrambi i lati. "Da lei, da lei - e lì, oh sì, lì, io darò un festino per tutti, uno di quei festini che non hanno mai visto affinché se ne ricordino e ne parlino a lungo. Tra le urla sfrenate, le folli canzoni e le danze zigane, noi innalzeremo il calice e berremo alla salute della donna adorata e alla sua rinnovata felicità e poi - lì stesso, ai suoi piedi, ci fracasseremo il cranio e ci puniremo! Un giorno si ricorderà di Mitja Karamazov, si accorgerà di quanto Mitja l'ha amata e avrà pietà di lui!" Vediamo qui una buona dose di pittoresco, di frenesia romantica, di selvaggia sfrenatezza karamazoviana e di sentimentalismo - ma c'è anche qualcos'altro, signori della giuria, qualcosa che grida nell'anima, che rimbomba incessantemente nel cervello e avvelena il suo cuore fino alla morte: quel qualcosa è la coscienza, signori della giuria, il giudizio della coscienza, i suoi terribili scrupoli! Ma la pistola sistemerà ogni cosa, la pistola è l'unica via d'uscita, non ce n'è un'altra, e nell'aldilà... io non so se Karamazov in quel momento pensasse a quello che "ci sarà nell'aldilà", non so se Karamazov in quel momento potesse domandarsi, come Amleto, che cosa ci sarà là? No, signori giurati, quelli hanno i loro Amleti ma noi, per ora, abbiamo i nostri Karamazov!» A questo punto Ippolit Kirilloviè dipinse un quadro minuziosissimo dei preparativi di Mitja, della scena da Perchotin, nella bottega e con i vetturini. Egli citò una massa di dichiarazioni, commenti, gesti, tutti confermati da testimoni, e il quadro che ne emerse produsse un effetto formidabile sugli ascoltatori. Fece impressione soprattutto la mole dei fatti riportati. La colpevolezza di quell'uomo tormentato fino alla disperazione, incapace ormai di cautelarsi, emergeva inconfutabile. «Non aveva più motivo di cautelarsi», diceva Ippolit Kirilloviè, «due o tre volte fu persino sul punto di confessarsi, fece delle mezze allusioni, mancò solo che parlasse francamente». A questo punto seguirono le dichiarazioni dei testimoni. «Persino al vetturino gridò: "Ma lo sai che stai trasportando un assassino?" Eppure gli fu impossibile parlare francamente: doveva prima giungere al villaggio di Mokroe e concludere là il suo poema. E invece che cosa aspettava là quel disgraziato? Il fatto è che quasi dai primissimi minuti che trascorre a Mokroe egli si accorge e, alla fine, comprende fino in fondo che il suo "indiscutibile" rivale forse non è affatto così indiscutibile, e che il brindisi alla loro nuova felicità e il suo calice innalzato in loro onore quelli non lo vogliono e non lo avrebbero accettato. Ma voi, signori della giuria, siete già al corrente dei fatti emersi dall'istruttoria. Il trionfo di Karamazov sul rivale era completo e a questo punto - oh, a questo punto ebbe inizio una fase completamente nuova nella sua anima, addirittura la fase più terribile che quest'anima avesse mai vissuto e dovrà ancora vivere! Si può asserire con sicurezza, signori della giuria», esclamò Ippolit Kirilloviè, «che una natura oltraggiata e un cuore criminale si vendicano contro se stessi in maniera molto più completa di qualsiasi tribunale terreno! E non solo: la giustizia e la punizione terrena alleviano la punizione della natura e sono, in realtà, essenziali all'anima del criminale in quei momenti, come via di salvezza dalla disperazione, giacché io non posso immaginare l'orrore e le sofferenze morali di Karamazov quando egli apprese che ella lo amava, che per amor suo ella respingeva il suo "primo" amore, l'"indiscutibile" e che invitava lui, lui, "Mitja", ad accompagnarla nella sua vita rinnovata, a lui prometteva felicità, e in quale momento avveniva tutto questo? Proprio quando tutto per lui era ormai finito e quando nulla era più possibile! A proposito, farò una rapida considerazione, estremamente importante per spiegare la vera essenza della situazione in cui allora si trovava l'imputato: quella donna, il suo amore, fino all'ultimissimo istante, quasi fino al momento dell'arresto, per lui era sempre stata un essere inaccessibile, appassionatamente desiderato, ma irraggiungibile. Ma perché, perché egli non si sparò in quel momento stesso, perché accantonò la decisione presa e addirittura dimenticò le sue pistole? Fu proprio quella appassionata brama di amore e la speranza di appagarla in quel momento stesso, in quel luogo stesso, che lo trattennero. Tra i fumi del festino, egli rimane incatenato alla sua innamorata che festeggia insieme a lui, incantevole e seducente più che mai - non si allontana da lei nemmeno di un passo, si perde nell'ammirazione di lei, si annulla davanti a lei. Quella brama appassionata, per un istante, poté persino soffocare non solo il timore dell'arresto, ma gli stessi rimorsi di coscienza! Per un istante, solo per un istante! Mi immagino lo stato d'animo del criminale in quel momento, assoggettato, servilmente e disperatamente, a tre forze che lo sopraffacevano del tutto: in primo luogo, l'ubriachezza, i fumi dell'alcool e il trambusto, il rimbombo delle danze, gli strepiti delle canzoni e lei, lei, arrossata dall'alcool, che cantava e danzava, ubriaca, che rideva guardandolo! In secondo luogo: l'incoraggiante e vago sogno che il fatale epilogo fosse ancora lontano o, per lo meno, non così vicino, che lo venissero a prendere soltanto l'indomani, soltanto la mattina dopo. Dunque una manciata di ore: era molto, moltissimo! In alcune ore si poteva pensare a un mucchio di cose! Posso immaginare che egli si sentisse un po' come quando il condannato viene condotto alla pena capitale, alla forca: gli rimane ancora da attraversare una strada lunga lunga e per di più a passo d'uomo, in mezzo a migliaia di persone, poi svolterà in un'altra strada e, soltanto alla fine di quella strada, c'è la terribile piazza! Immagino che all'inizio della processione il condannato, mentre monta sul carro dell'infamia, senta che davanti a sé c'è ancora una vita lunghissima. Ma ecco che le case passano, il carro continua a incedere - oh, non è nulla, manca ancora molto per svoltare nella seconda strada, ed ecco che egli guarda ancora fieramente a destra, a sinistra, quelle migliaia di persone animate da curiosità indifferente che fissano su di lui i loro sguardi, e gli sembra ancora di essere esattamente come loro, una persona. Ma ecco che si svolta nell'altra strada, oh! Non è niente, non è niente! C'è una strada intera da percorrere ancora, e per quanto le case continuino a scorrere via, egli continua a pensare: "Rimangono ancora molte altre case". E così fino alla fine, fino alla piazza stessa. Ecco, immagino che Karamazov provasse la stessa sensazione in quel momento. "Non hanno ancora fatto in tempo in città", pensava, "si può escogitare ancora qualcosa, oh, ci sarà ancora tempo per costruire qualche piano di difesa, inventare una forma di resistenza, ma adesso, adesso, adesso lei è così incantevole!" La sua anima traboccava di confusione e terrore, ma egli fa in tempo, tuttavia, a mettere da parte metà dei suoi soldi per nasconderli in qualche posto - altrimenti non riesco a spiegarmi che fine abbia fatto quella buona metà dei tremila rubli che egli aveva appena preso da sotto il cuscino del padre. Era già stato a Mokroe più di una volta, vi aveva già fatto baldoria per due giorni e due notti. Gli era ben nota quella grande casa di legno con tutti i suoi sgabuzzini e i suoi passaggi. Io suppongo che una parte di quel denaro sia stata nascosta proprio allora, in quella stessa casa, non molto tempo prima dell'arresto, in qualche buco, in qualche fessura, sotto qualche asse, in qualche angolo, sotto il tetto - ma a che scopo? Come, a che scopo? La catastrofe poteva sopraggiungere da un momento all'altro, naturalmente, e noi non abbiamo ancora escogitato il modo di affrontarla, non ne abbiamo il tempo, la testa ci rimbomba e il cuore è attirato soltanto verso di lei, e i soldi, quelli sono utili per ogni evenienza! Un uomo con i soldi rimane un uomo in qualsiasi luogo. Forse una tale avvedutezza in un momento simile vi sembrerà innaturale? Ma è lui stesso a dichiarare che un mese prima della catastrofe, in un momento critico e fatale, analogo a quello, egli aveva messo da parte la metà dei tremila rubli e li aveva cuciti dentro il suo amuleto; e anche se questo non corrisponde al vero, come proveremo subito, tuttavia dimostra che il pensiero era familiare a Karamazov, che lo aveva preso in considerazione. E non basta: quando egli assicurava in seguito agli inquirenti di aver messo da parte millecinquecento rubli nell'amuleto (amuleto che non è mai esistito), probabilmente quell'amuleto se l'era inventato lì per lì, proprio perché solo due ore prima aveva messo da parte la metà dei suoi soldi e l'aveva nascosta da qualche parte a Mokroe, per ogni evenienza, fino al mattino seguente, soltanto per evitare di tenerli addosso, spinto dall'ispirazione del momento. Due abissi, signori della giuria, ricordate che un Karamazov può contemplare due abissi ed entrambi nello stesso momento! Abbiamo perquisito quella casa, ma non abbiamo trovato nulla. Quei soldi potrebbero essere ancora là, oppure potrebbero essere scomparsi il giorno dopo e trovarsi adesso in possesso dell'imputato. In ogni caso, quando lo hanno arrestato, egli si trovava accanto a lei, in ginocchio davanti a lei, ella era sdraiata sul letto ed egli protendeva le braccia verso di lei: in quel momento aveva dimenticato tutto, tanto che non udì nemmeno l'approssimarsi di coloro che lo avrebbero arrestato. Non aveva avuto il tempo di preparare una linea di difesa nella sua mente. Lui e la sua mente furono colti alla sprovvista. Ed eccolo davanti ai giudici, davanti a coloro che decideranno del suo destino. Signori della giuria, ci sono momenti, nell'esecuzione del nostro dovere, nei quali ci fa paura affrontare un uomo, paura anche per lui! Sono i momenti in cui si osserva quell'orrore animalesco che invade il reo quando si accorge di essere perduto, ma lotta ancora e intende ancora lottare contro di noi. Sono i momenti in cui di colpo in lui insorgono tutti gli istinti di conservazione ed egli, nel tentativo di salvarsi, vi guarda con uno sguardo che trafigge, implora e soffre, egli vi coglie al volo, vi studia, studia il vostro viso, i vostri pensieri, aspetta per vedere da che parte lo colpirete e in un istante concepisce, nella sua mente sconvolta, mille piani, ma ha pur sempre paura di parlare, ha paura di tradirsi! Questi momenti umilianti per un'anima umana, questo pellegrinaggio per le tribolazioni, questa brama animalesca di salvezza sono terribili e a volte suscitano tremore e compassione per il criminale persino nei giudici! E noi fummo testimoni di tutto questo. All'inizio egli era sbigottito e nel terrore del momento gli sfuggirono alcune parole che lo compromisero gravemente: "Sangue! Me lo sono meritato!" Ma ben presto riacquistò il controllo di sé. Che dire, che cosa rispondere - questo non se l'era ancora preparato, si era preparato solo un'infondata negazione: "Non sono colpevole della morte di mio padre!" Quello era il nostro muro di difesa per il momento, e lì, dietro il muro di difesa, forse facciamo in tempo a costruire ancora qualche cosa, una specie di barricata. Egli si affrettò a spiegare le sue prime compromettenti esclamazioni (prevenendo le nostre domande), dichiarando di essere colpevole soltanto della morte del servo Grigorij. "Di quel sangue sono colpevole, ma chi ha ucciso mio padre, signori, chi lo ha ucciso? Chi altri poteva ucciderlo, se non io?" Capite: egli lo domandava a noi, proprio a noi che eravamo andati a domandarlo a lui! Avete sentito le paroline che gli erano sfuggite: "se non io", ne percepite l'astuzia animalesca, l'ingenuità e la smania tutta karamazoviana? Non l'ho ucciso io, e voi non potete pensare che sia stato io. "Volevo uccidere, signori, volevo uccidere", confessa egli in fretta (aveva fretta, una fretta tremenda!), "ma non sono colpevole, non sono stato io ad uccidere!" Egli ci concede di ammettere che voleva uccidere, come a dire: "Vedete come sono sincero, così mi crederete al più presto quando vi dirò che non l'ho ucciso io!" Oh, in questi casi, il criminale diventa, a volte, incredibilmente superficiale e credulone. A questo punto, come per caso, uno degli inquirenti gli pose la più semplice delle domande: "Sarà stato Smerdjakov l'assassino?" E allora successe quello che ci aspettavamo: egli si infuriò perché lo avevamo anticipato e colto alla sprovvista, quando non aveva ancora fatto in tempo a preparare, scegliere e cogliere il momento nel quale sarebbe stato più opportuno tirare fuori il nome di Smerdjakov. Egli, com'è nella sua natura, si lanciò subito all'estremo opposto e cominciò ad assicurare, con tutte le sue energie, che Smerdjakov non poteva aver ucciso, che non sarebbe stato capace di uccidere. Ma non credetegli, è solo uno dei suoi trucchetti: egli non abbandona affatto l'idea di Smerdjakov: al contrario, intende portarla avanti, perché chi altri potrebbe accusare? Solo che intende farlo in un secondo momento, per adesso gli hanno rovinato quella linea di difesa. Egli tornerà ad avanzare il nome di Smerdjakov soltanto domani, forse, o anche fra qualche giorno, cercando il momento giusto per gridare lui stesso: "Vedete, io stesso ho negato che potesse essere Smerdjakov con maggiore forza di voi - certamente lo ricordate anche voi - ma adesso anch'io mi sono convinto: è stato lui a uccidere, deve essere stato lui!" Ma, per il momento, egli precipita dinanzi a noi in una negazione cupa e irritabile, però l'impazienza e l'ira gli suggeriscono la più inetta e inverosimile spiegazione sul modo in cui guardò suo padre dalla finestra per poi allontanarsene rispettosamente. Il fatto è che egli non era ancora al corrente delle circostanze e della gravità della testimonianza resa da Grigorij, il quale nel frattempo aveva ripreso conoscenza. Procediamo alla perquisizione personale. La perquisizione lo fa andare su tutte le furie, ma allo stesso tempo lo incoraggia: non si riesce a trovare l'intera somma, ma solo millecinquecento rubli. E, senza dubbio, solo in quel momento di silenzio incollerito, in cui egli nega tutto, gli salta in mente, per la prima volta in vita sua, l'idea dell'amuleto. Senza dubbio lui stesso è consapevole della inverosimiglianza della trovata e si tormenta, si tormenta da morire per renderla più credibile, e si arrovella perché venga fuori un romanzo verosimile. In questi casi la prima cosa da fare, il primo compito che l'inquirente deve assolvere è quello di non dare il tempo di prepararsi, di attaccare inaspettatamente, affinché il criminale esprima le proprie idee segrete in tutta la loro palese semplicità, inverosimiglianza e contraddittorietà. Si può costringere il criminale a parlare soltanto con un'improvvisa e apparentemente casuale comunicazione di qualche fatto nuovo, di qualche circostanza del caso che sia di importanza colossale, ma tale che fino a quel momento egli non ne abbia idea, né possa in alcun modo averla prevista. Noi avevamo a disposizione un fatto del genere e già da un pezzo: era la testimonianza del servo Grigorij - che aveva ripreso conoscenza - sulla porta aperta dalla quale era fuggito l'imputato. Egli si era completamente dimenticato di quella porta e non immaginava nemmeno che Grigorij potesse averla vista. Ottenemmo un effetto colossale. Egli balzò in piedi e ci gridò: "È stato Smerdjakov a uccidere, Smerdjakov!", e così tradì il suo pensiero segreto, fondamentale, nella sua forma meno verosimile, giacché Smerdjakov avrebbe potuto uccidere soltanto dopo che lui aveva colpito Grigorij ed era fuggito. Quando invece gli abbiamo comunicato che Grigorij aveva visto la porta aperta prima di cadere sotto i suoi colpi, e che, mentre usciva dalla sua camera da letto, aveva sentito i gemiti di Smerdjakov dietro il tramezzo, Karamazov rimase davvero tramortito. Il mio collega, il nostro stimato e perspicace collega Nikolaj Parfenoviè, mi confidò in seguito che in quel momento egli provò una tale compassione per lui da avere le lacrime agli occhi. Ed ecco che in quel momento stesso, per aggiustare le cose, egli si affrettò a raccontarci la storia di quel famigerato amuleto, come a dire: sia pure così, sentite quello che vi racconto adesso! Signori della giuria, vi ho già esposto le mie idee e i motivi per cui considero la trovata del denaro cucito nell'amuleto un mese addietro non soltanto un'assurdità, ma l'invenzione più inverosimile che si potesse escogitare in simili circostanze. Se pure per scommessa si tentasse di raccontare e avanzare una storia più inverosimile, anche in quel caso non se ne troverebbe una peggiore di quella. Ma in questo caso è possibile mettere alle corde e ridurre in frantumi il romanziere trionfante per mezzo dei particolari, quei particolari dei quali la realtà è sempre così ricca e che puntualmente questi disgraziati e improvvisati autori trascurano, quali banalità inutili e prive di senso, che non si degnano nemmeno di prendere in considerazione. Oh, in quei momenti non hanno tempo per i particolari, la loro mente si concentra unicamente sulla grande invenzione nella sua totalità, essi ridono se si sottopongono loro tali piccolezze. Invece è proprio sui particolari che li si coglie in fallo! All'imputato viene posta la domanda: "E dove vi siete procurato il materiale per il vostro amuleto, chi ve lo ha cucito?" "Me lo sono cucito da me". "E dove, di grazia, avete preso la stoffa?" L'imputato già comincia a offendersi, la considera una banalità offensiva per lui e il suo sentimento è sincero, sincero! Ma sono tutti uguali. "L'ho strappata dalla mia camicia". "Benissimo, signore: dunque, fra la vostra biancheria domani stesso potremo trovare la camicia con la parte lacerata". E pensate, signori della giuria, che se solo avessimo trovato quella camicia lacerata (e come avremmo potuto non trovarla nella sua cassettiera o nel baule, se solo fosse esistita davvero?) quella sarebbe stata una prova, una prova materiale che avrebbe dimostrato che stava dicendo la verità! Ma egli era incapace di una simile riflessione. "Non ricordo, forse non l'ho strappato dalla camicia, ma l'ho cucito in una cuffietta della mia padrona di casa" "In una cuffietta di che tipo?" "L'ho presa da lei, l'aveva buttata da qualche parte, un vecchio straccio di percalle". "E questo ve lo ricordate con sicurezza?" "No, non ricordo con sicurezza..." E perde la pazienza, perde la pazienza, eppure, figurarsi: come faceva a non ricordarsene? Nei momenti più critici della vita di un uomo, per esempio, quando lo conducono al patibolo, si ricordano proprio questi dettagli. Il condannato dimentica tutto tranne un certo tetto verde che gli è balenato davanti agli occhi durante il percorso o una cornacchia grigia su una croce - ecco quello che rimane in mente. Egli, cucendo il suo amuleto, di nascosto dai padroni di casa, doveva pur ricordare l'umiliante paura che qualcuno entrasse e lo cogliesse con l'ago in mano, doveva pur ricordare come al minimo rumore balzasse in piedi e si nascondesse dietro al tramezzo (nel suo appartamento c'è un tramezzo)... Ma signori giurati, a che scopo vi dico tutto questo, mi perdo in questi dettagli, in queste piccolezze?», esclamò ad un tratto Ippolit Kirilloviè. «Proprio per il fatto che l'imputato continua a tutt'oggi a sostenere testardamente questa assurda versione! Nel corso di questi due mesi, a partire da quella notte per lui fatale, egli non ha fornito alcuna spiegazione, non ha aggiunto alcuna reale circostanza chiarificatrice alle sue fantastiche dichiarazioni iniziali, come a dire: sono tutte piccolezze, credete alla mia parola d'onore! Oh, noi saremmo contenti di crederci, noi desideriamo crederci, anche solo sulla base di una parola d'onore! Non siamo mica degli sciacalli avidi di sangue umano! Forniteci, mostrateci anche una sola prova a favore dell'imputato e noi ci rallegreremo, ma che sia una prova sostanziale, reale, non la conclusione che ha tratto suo fratello semplicemente dall'espressione del viso dell'imputato o la congettura che battendo il pugno sul petto egli volesse sicuramente indicare l'amuleto, e per di più con il buio che c'era. Noi ci rallegreremmo di una nuova prova, saremmo i primi a ritirare l'accusa, ci affretteremmo a ritirarla. Ma così come stanno le cose, la giustizia grida vendetta e noi rimaniamo sulle nostre posizioni, non possiamo ritirare un bel niente». Ippolit Kirilloviè passò alla conclusione. Sembrava che avesse la febbre, gridò vendetta per il sangue versato, il sangue di un padre ucciso dal figlio "mosso dall'abietto scopo di derubarlo". Mise in risalto la tragica e ignominiosa mole dei fatti. «E qualunque cosa possiate ascoltare dalle labbra del difensore, illustre per il suo talento», non riuscì a trattenersi Ippolit Kirilloviè, «per quanto eloquenti e commoventi possano risuonare gli appelli rivolti alla vostra sensibilità, ricordatevi sempre che in questo momento vi trovate in un tempio della nostra giustizia. Rammentatevi che siete i campioni della nostra giustizia, i campioni della nostra santa Russia, dei suoi principi, della sua famiglia e di tutto ciò che in essa vi è di sacro! Sì, in questo momento voi rappresentate la Russia e il vostro verdetto non avrà risonanza soltanto in quest'aula, ma nell'intera Russia e la Russia intera vi ascolterà come i propri campioni e giudici e sarà incoraggiata o afflitta dal vostro verdetto. Non deludete la Russia e le sue aspettative, la nostra fatale trojka galoppa a rotta di collo e, forse, verso la distruzione. E da molto tempo ormai in tutta la Russia si protendono braccia e si levano invocazioni per fermare questa corsa forsennata e spudorata. E se le altre nazioni si fanno da parte al passaggio della trojka che galoppa a rotta di collo, forse non è affatto per rispetto nei suoi confronti, come voleva il poeta, ma solo per l'orrore che provano: tenetelo a mente questo. Per orrore e forse per disgusto, ed è ancora un bene che si facciano da parte, ma forse un giorno smetteranno di farsi da parte e formeranno un muro compatto dinanzi all'irruente apparizione, ed essi stessi fermeranno la folle corsa della nostra sfrenatezza per il bene della loro salvezza, della loro cultura e della loro civiltà! Abbiamo già sentito voci di allarme provenire dall'Europa! Cominciano già a diffondersi. Non inducetele in tentazione, non aizzate il loro odio crescente con un verdetto che giustifichi l'assassinio di un padre da parte di un figlio!...» Insomma, Ippolit Kirilloviè, sebbene si fosse molto infervorato, concluse tuttavia la sua arringa con un tono davvero patetico e l'effetto che ottenne fu veramente straordinario. Egli, dopo aver concluso il suo discorso, uscì in fretta e, lo ripeto, per poco non cadde svenuto nell'altra stanza. L'aula non applaudì, ma le persone serie furono soddisfatte. Solo le signore non erano molto contente, ma anche a loro era piaciuta quella prova di eloquenza, tanto più che non ne temevano affatto le conseguenze e riponevano tutte le loro speranze in Fetjukoviè: "Finalmente parlerà lui e sicuramente batterà tutti!" Tutti guardavano Mitja; per tutta l'arringa del procuratore, egli era rimasto in silenzio, con le mani serrate, a denti stretti e capo chino. Solo di tanto in tanto aveva sollevato il capo e si era messo in ascolto. Soprattutto nel momento in cui aveva iniziato a parlare di Grušen'ka. Quando il procuratore aveva riferito l'opinione che Rakitin aveva di lei, sul suo volto era affiorato un sorriso sprezzante e perfido e aveva pronunciato in maniera abbastanza udibile: "Questi Bernard!" Quando, invece, Ippolit Kirilloviè aveva descritto il modo in cui lo aveva interrogato e tormentato a Mokroe, Mitja aveva sollevato il capo e