venerdì 12 novembre 2021

XII • E nemmeno omicidio

 



XII • E nemmeno omicidio 

 «Permettetemi, signori della giuria, di ricordarvi che qui è in gioco la vita di un uomo e che bisogna essere un po' più cauti. Abbiamo sentito, come ha dichiarato il pubblico ministero in persona, che fino all'ultimo momento, fino ad oggi, il giorno del processo, è stato incerto se accusare l'imputato di piena e consapevole premeditazione dell'omicidio, è stato incerto fino a quella fatale lettera da "ubriaco", che oggi è stata consegnata alla corte. "È avvenuto tutto secondo quanto aveva scritto!". Lo ripeto ancora una volta: egli si precipitò da lei, per cercare lei, unicamente per sapere dove fosse. Questo è un fatto indiscutibile. Se ella si fosse trovata in casa, egli non sarebbe corso da nessuna parte, sarebbe rimasto da lei e non avrebbe fatto quello che aveva promesso nella lettera. Egli si precipitò lì casualmente e inaspettatamente, e quella sua lettera da "ubriaco" non gli venne nemmeno in mente in quel momento. "Aveva preso il pestello però", mi si dirà. E vi ricordate quale trattato di psicologia sono stati capaci di costruire sulla base di quel semplice pestello: perché l'imputato avrebbe considerato quel pestello come un'arma, perché l'avrebbe afferrato a mo' di arma, e così via. A questo proposito mi viene in mente la più semplice delle idee: se quel pestello non fosse stato in vista, se non si fosse trovato su quel ripiano dal quale lo ha preso l'imputato, ma fosse stato riposto dentro la credenza, che cosa sarebbe accaduto? Che non avrebbe catturato l'attenzione dell'imputato in quel momento e lui sarebbe corso via senz'arma, a mani vuote e quindi, forse, non avrebbe ucciso nessuno? In quale modo posso giungere alla conclusione che quel pestello sia una prova che egli volesse armarsi, una prova della sua premeditazione? Sì, è vero, aveva sbandierato ai quattro venti che avrebbe ucciso il padre, e due giorni prima, quella sera in cui, ubriaco, aveva scritto quella lettera, se n'era stato tranquillo e aveva litigato soltanto con un commesso di bottega alla trattoria, "perché Karamazov non può fare a meno di litigare", ci è stato detto. A questo replicherò che se egli avesse davvero concepito l'idea di quell'omicidio, e, per di più, sulla base di un piano, secondo quanto aveva scritto, sicuramente non avrebbe attaccato briga nemmeno con quel commesso e, forse, non sarebbe affatto passato da quella trattoria, perché un'anima che ha concepito un tale disegno cerca la quiete, cerca di tenersi nell'ombra, di dileguarsi per non essere visto né sentito, come se volesse dire: "Dimenticatevi di me, se potete", e questo non solo per calcolo, ma per un'esigenza istintiva. Signori della giuria, la psicologia è a doppio taglio e anche noi siamo in grado di comprenderla. Quanto a tutti quegli strepiti per le trattorie durante tutto quel mese, non capita forse di sentire ragazzini o ubriaconi che all'uscita dalle osterie, litigando l'uno con l'altro, gridano: "Io ti ammazzo", eppure non ammazzano mica? E allora pure quella fatale lettera, non è forse anche quella soltanto irascibilità da ubriachi? Non è come un grido da ubriacone all'uscita di un'osteria: "Vi ammazzo, vi ammazzo tutti!"? Perché non potrebbe essere così? Perché, di grazia, dovremmo considerare quella lettera fatale per l'imputato, anziché riderci sopra? Ecco perché: perché è stato rinvenuto il cadavere del padre assassinato, perché un testimone ha visto l'imputato armato mentre fuggiva dal giardino ed è stato da questi aggredito, dunque, tutto è avvenuto secondo quanto era scritto nella lettera, ecco perché quella lettera è considerata fatale per l'imputato e non c'è da riderci sopra. Grazie a Dio, siamo arrivati al punto: "Se si trovava nel giardino, deve essere stato lui l'assassino". Su queste sole paroline: se si trovava, allora sicuramente deve, si fonda l'intero caso, l'intera accusa: "Dal momento che si trovava lì, deve essere stato lui". E se non dovesse essere stato lui, sebbene lì si trovasse? Oh, sì, ne convengo, la mole di indizi, la coincidenza di circostanze sono abbastanza eloquenti, questo è fuori di dubbio. Tuttavia, considerate tutti questi fatti separatamente, senza curarvi della loro totalità: perché, per esempio, l'accusa non vuole ammettere a nessun costo che l'imputato dica il vero quando dichiara di essere fuggito via dalla finestra della camera del padre? Ricordate il sarcasmo al quale il pubblico ministero si è lasciato andare quando parlava dei sentimenti "devoti" e rispettosi che tutto ad un tratto vengono ad animare l'imputato. Ma che ci sarebbe di strano se si fosse verificato davvero qualcosa del genere, una sorta di devozione se non proprio di rispetto filiale? "Mia madre deve aver pregato per me in quel momento", ha dichiarato il testimone durante l'istruttoria, e quindi scappò via subito dopo aver accertato che la Svetlova non era in casa del padre. "Ma non poteva averne la certezza lì, dalla finestra", ci contesta l'accusa. Perché no? La finestra era stata aperta ai segnali dell'imputato. Forse in quel momento Fëdor Pavloviè pronunciò qualche parola, si lasciò scappare un gridolino e allora l'imputato poté dedurre con certezza che la Svetlova non si trovava lì. Perché dovremmo pretendere che le cose siano andate esattamente come le immaginiamo noi, come ci siamo proposti di immaginarcele? Nella realtà possono presentarsi migliaia di particolari che eludono la capacità di osservazione del più acuto romanziere. "Sì, ma Grigorij ha visto la porta aperta, dunque l'imputato doveva essere sicuramente entrato in casa e quindi avere ucciso". A proposito di quella porta, signori della giuria... Vedete, a proposito di quella porta aperta abbiamo soltanto la testimonianza di una persona che in quel momento si trovava in una condizione un po'... Ma ammettiamo, ammettiamo pure che fosse aperta, che fosse stata aperta dall'imputato, che questi abbia mentito mosso da un istinto di autodifesa, così comprensibile nella sua posizione, ammettiamo, ammettiamo pure che si sia introdotto in casa, che si sia trovato all'interno della casa - perché mai, per il solo fatto di essere stato dentro quella casa, dovrebbe essere stato lui a uccidere? Potrebbe aver fatto irruzione, aver girato di corsa tutte le stanze, dato uno spintone al padre, avrebbe persino potuto colpirlo, ma, una volta assicuratosi che la Svetlova non c'era, avrebbe potuto fuggire contento che lei non ci fosse e di essere fuggito senza aver ucciso il padre. Proprio per questo, forse, egli saltò giù dallo steccato, un minuto più tardi, per soccorrere Grigorij dopo averlo atterrato nell'eccitazione del momento: egli era in grado di nutrire un sentimento puro, un sentimento di compassione e pietà proprio perché era sfuggito alla tentazione di uccidere il padre, perché aveva la coscienza a posto ed era felice di non aver ucciso il padre. Il pubblico ministero ci ha descritto con un'eloquenza che suscita persino orrore il terribile stato in cui si trovava l'imputato al villaggio di Mokroe, quando l'amore si era dischiuso nuovamente dinanzi a lui, invitandolo a una nuova vita, e invece gli era ormai impossibile amare, dal momento che alle spalle aveva il cadavere insanguinato del padre e davanti a sé l'esecuzione. Eppure il pubblico ministero gli ha concesso di amare, spiegando questo sentimento con la sua solita psicologia: "Lo stato di ebbrezza di quando conducono il criminale alla forca, ma gli rimane ancora molto da aspettare, eccetera, eccetera". Ma vi domando ancora una volta, signor pubblico ministero, non vi pare di aver costruito un personaggio del tutto diverso? L'imputato sarebbe davvero una persona così rozza e insensibile da poter ancora pensare all'amore e ai tentativi di raggirare la giustizia in quel momento, se davvero si fosse sporcato del sangue del padre? No, no e ancora no! Non appena egli scoprì che ella lo amava, che lo invitava a sé e gli prometteva una nuova felicità, oh, ci giurerei che egli dovette sentire l'impulso al suicidio due volte, tre volte più forte, e si sarebbe sicuramente suicidato se avesse avuto alle spalle il cadavere del padre! Oh, no, non avrebbe dimenticato dove aveva messo le pistole! Io conosco l'imputato: la spietatezza selvaggia e coriacea che l'accusa gli attribuisce non si addice al suo carattere. Si sarebbe ucciso, questo è certo; egli non si uccise proprio perché "la madre aveva pregato per lui" e il suo cuore non si era macchiato del sangue del padre. Egli si tormentava e soffriva quella notte a Mokroe solo per il vecchio Grigorij da lui aggredito, e dentro di sé supplicava Dio che il vecchio si alzasse e si riprendesse, che il colpo non fosse stato mortale e che non dovesse essere punito per quel delitto. Perché non assumere una tale interpretazione degli avvenimenti? Di quale prova schiacciante disponiamo per dire che l'imputato ci sta mentendo? Ma torneranno a dirci che c'è il cadavere del padre: se l'imputato è fuggito e non ha ucciso, chi è stato allora a uccidere il vecchio? Qui, torno a dire, risiede tutta la logica dell'accusa: chi mai può essere stato se non lui? Non abbiamo nessuno da accusare al posto suo, ci dicono. Signori della giuria, ma è proprio vero questo? È sicuramente, realmente vero che non c'è proprio nessuno da accusare al posto suo? Abbiamo sentito che l'accusa contava sulle dita tutti quelli che si trovavano o passarono in quella casa quella notte. C'erano cinque persone. Tre di queste, ne convengo, sono fuori questione: la vittima, il vecchio Grigorij e sua moglie. Dunque rimangono l'imputato e Smerdjakov ed ecco che il pubblico ministero esclama pateticamente che l'imputato accusa Smerdjakov perché non ha altri da accusare, perché se ci fosse stata una sesta persona, anche solo il fantasma di una sesta persona, l'imputato avrebbe immediatamente smesso di accusare Smerdjakov, anzi se ne sarebbe vergognato, e avrebbe accusato questa sesta persona. Ma signori della giuria, perché non giungere a una conclusione completamente opposta? Ci sono due persone: l'imputato e Smerdjakov, perché non potrei dire che voi accusate il mio cliente unicamente perché non avete nessun altro da accusare? E non avete nessuno, perché avete escluso Smerdjakov da ogni sospetto sulla base di un mero pregiudizio. Sì, è vero, Smerdjakov viene accusato soltanto dall'imputato, dai suoi due fratelli, dalla Svetlova e basta. Ma ci sono anche altri che lo accusano: ci sono vaghe voci in società su una certa questione, un certo sospetto, gira una voce oscura, si sente nell'aria una certa attesa. Infine, abbiamo la prova di una combinazione di fatti molto significativa, sebbene, devo ammetterlo, anch'essa vaga: in primo luogo, quell'attacco di epilessia proprio il giorno della catastrofe, un attacco la cui autenticità l'accusa, per qualche ragione, si è vista costretta a sostenere e difendere. Poi, l'inatteso suicidio di Smerdjakov alla vigilia del processo. Dopo di che, la non meno inattesa testimonianza, oggi, qui al processo, del maggiore dei due fratelli dell'imputato, il quale fino ad oggi aveva creduto alla colpevolezza del fratello, ed ecco che all'improvviso consegna il denaro e proclama ancora una volta il nome di Smerdjakov come quello dell'assassino! Oh, condivido la ferma convinzione della corte e del procuratore che Ivan Karamazov sia malato e soffra di febbre cerebrale, che la sua testimonianza possa essere un tentativo disperato, concepito per di più nel delirio, di salvare il fratello gettando la colpa sul defunto. Nondimeno il nome di Smerdjakov viene pronunciato e, ancora una volta, esso evoca un non so che di enigmatico. Come se ci fosse qualcosa di inespresso, signori della giuria, qualcosa di incompleto. Qualcosa che un giorno, forse, sarà espresso pienamente. Ma per il momento lasciamo stare questo argomento, ne parleremo in seguito. La corte ha deciso di proseguire la seduta, ma nel frattempo, potrei fare qualche considerazione riguardo al bozzetto di carattere del defunto Smerdjakov tracciato con tanto acume e abilità dal nostro pubblico ministero. Pur ammirando il suo talento, non posso tuttavia concordare del tutto con la sostanza di quel bozzetto. Sono andato a trovare Smerdjakov, l'ho incontrato e gli ho parlato, e lui mi ha fatto un'impressione completamente diversa. Certo, era debole di costituzione, questo è vero, ma il suo carattere, il suo animo non erano affatto così deboli come l'accusa ritiene che fossero. Soprattutto, in lui non ho trovato la minima traccia di timidezza, proprio di quella timidezza che il pubblico ministero ci ha descritto in maniera così pittoresca. Non c'era ombra di semplicità in lui: al contrario, ho riscontrato una terribile diffidenza mascherata da ingenuità, e un cervello dalle notevolissime potenzialità. Oh! L'accusa è stata molto ingenua a considerarlo una persona debole di mente. Egli ha prodotto su di me un'impressione molto precisa: mi sono congedato da lui con la convinzione che egli fosse una creatura decisamente perfida, smisuratamente ambiziosa, vendicativa e riarsa di invidia. Ho raccolto qualche informazione sul suo conto: egli detestava la propria origine, se ne vergognava, gli stridevano i denti quando gli ricordavano che era "venuto fuori dalla Smerdjascaja". Mancava di rispetto al servo Grigorij e a sua moglie, che si erano presi cura di lui quando era piccolo. Malediceva la Russia e la scherniva. Sognava di andarsene in Francia per sempre e trasformarsi in un francese. Spesso e volentieri in passato aveva dichiarato che gli mancavano i mezzi per realizzare questo progetto. Mi sembra che non amasse nessuno al di fuori di se stesso, e aveva un altissimo concetto di sé. La sua idea di civiltà si riduceva agli abiti di buona fattura, agli sparati lindi e agli stivali lucidati. Lui stesso si considerava (e ne abbiamo le prove) figlio illegittimo di Fëdor Pavloviè, e poteva ben risentirsi della propria posizione a confronto con quella dei figli legittimi del suo padrone: a loro tutto e a lui niente, a loro tutti i diritti, a loro l'eredità, mentre lui era soltanto un cuoco. Egli mi disse di aver aiutato Fëdor Pavloviè a infilare i soldi nel plico. La destinazione di quel denaro - una somma che avrebbe potuto rendere possibile la sua carriera - doveva essere certamente odiosa per lui. Per di più, egli aveva visto la somma di tremila rubli in banconote iridate fiammanti (lo interrogai a questo proposito). Oh, diffidate dal mostrare a un uomo invidioso e pieno di amor proprio una grossa somma di denaro tutta in un colpo! Ed era la prima volta che egli vedeva tanto denaro nelle mani di un uomo. L'impressione del mazzetto iridato poté avere ripercussioni negative sulla sua immaginazione, sia pure senza risultati immediati. L'abilissimo pubblico ministero, con straordinaria precisione, ci ha esposto tutti i pro e i contra dell'ipotesi di una imputazione di omicidio contro Smerdjakov e, in particolare, si è domandato quale motivo potesse avere di simulare un attacco di epilessia. Ma poteva benissimo non aver avuto motivo di simulare, l'attacco poteva essere sopraggiunto in maniera del tutto naturale e il malato poi poteva essersi ripreso. Supponiamo che il malato non fosse guarito del tutto, ma avesse avuto modo di rinvenire e riprendersi, come accade alle volte nei casi di epilessia. L'accusa domanda: in quale momento Smerdjakov avrebbe potuto compiere il delitto? Ma è facilissimo indicare quel momento. Egli poté riprendersi e svegliarsi dal sonno profondo (giacché egli stava soltanto dormendo: dopo gli attacchi di epilessia insorge sempre una profonda sonnolenza), proprio nell'istante in cui il vecchio Grigorij, afferrata la gamba dell'imputato che cercava di scavalcare lo steccato, gridava a squarciagola: "Parricida!" Quel grido eccezionale, nel silenzio e nell'oscurità, potrebbe aver svegliato Smerdjakov, che in quel momento forse aveva il sonno più leggero: potrebbe pure darsi che avesse cominciato a riaversi un'ora prima. Alzatosi dal letto, egli si dirige, quasi inconsciamente, e senza alcun preciso motivo in direzione del grido, per vedere di cosa si tratti. La sua mente è ancora annebbiata dal malore, le facoltà mentali sono ancora mezze assopite, ma eccolo in giardino: si avvicina alle finestre illuminate e sente la terribile notizia dalle labbra del padrone, che naturalmente è molto contento di vederlo. La sua immaginazione si mette subito a lavorare febbrilmente. Apprende tutti i dettagli dal padrone atterrito. Ed ecco che gradualmente, nel suo cervello sconvolto e malato, si forma un'idea terribile, ma seducente e dalla logica irresistibile: uccidere, prendere i tremila rubli e poi scaricare tutta la colpa sul signorino. A chi altri potrebbero pensare adesso se non al signorino, chi altri potrebbero accusare se non lui, egli era lì, ci sono tutte le prove! Una terribile avidità di denaro, di bottino, potrebbe avergli ghermito l'anima al pensiero di rimanere impunito. Oh, questi improvvisi e irresistibili slanci sono così comuni all'occasione e, soprattutto, sopraggiungono agli assassini che solo un attimo prima non avevano idea che avrebbero commesso un omicidio! Ed ecco che Smerdjakov potrebbe essere entrato in casa del padrone e aver eseguito il suo piano; ma con che cosa, con quale arma? Ma con la prima pietra trovata in giardino. Ma perché? Con quale scopo? Per quei tremila rubli, il suo futuro. Oh! Non sto cadendo in contraddizione: il denaro poteva benissimo esistere. E può darsi pure che Smerdjakov fosse l'unico a sapere in quale posto precisamente si trovasse in casa del padrone. "E l'involucro vuoto? E la busta lacerata sul pavimento?" Poco fa, quando il pubblico ministero, parlando di quel plico, esponeva il suo acutissimo ragionamento in base al quale solo un ladro casuale, com'era appunto Karamazov, avrebbe lasciato quel plico sul pavimento e non certo uno come Smerdjakov, che non avrebbe mai lasciato in giro una tale prova contro se stesso - ecco, allora, signori della giuria, mentre ascoltavo, mi è sembrato, tutto ad un tratto, di udire qualcosa di molto familiare. Figuratevi: ho sentito quello stesso ragionamento, quella stessa congettura - di come cioè si sarebbe comportato Karamazov con quel plico - dalle labbra stesse di Smerdjakov esattamente due giorni fa. E non solo, la cosa mi aveva molto meravigliato allora: mi era giusto sembrato che egli facesse il finto tonto, che mettesse le mani avanti, che volesse impormi quell'idea in modo che io giungessi da solo a quello stesso ragionamento, mentre lui quasi me lo suggeriva. Non ha insinuato la stessa idea anche negli inquirenti? Non ha forse insinuato questa stessa idea anche all'abilissimo procuratore? Mi diranno: e la vecchia, la moglie di Grigorij? Infatti ella ha sentito per tutta la notte gemere il malato nel letto vicino al suo. Sì, l'ha sentito, ma la sua testimonianza è estremamente inaffidabile. Ho conosciuto una signora che si lamentava amaramente di non aver chiuso occhio a causa di un cane ringhioso nel cortile. Eppure, quel povero cagnolino, come hanno accertato in seguito, aveva abbaiato solo due o tre volte nel corso di tutta la notte. Ed è naturale: una persona dorme e all'improvviso ode un gemito, si sveglia irritata che abbiano interrotto il suo sonno, ma si riaddormenta subito. Dopo un paio d'ore, si sente di nuovo quel gemito, quello si sveglia di nuovo e si riaddormenta; infine quel gemito si ode per la terza volta, sempre dopo un paio d'ore, in tutto tre volte in una notte. L'indomani il dormiente si alza e si lamenta che qualcuno non ha fatto che gemere tutta la notte, svegliandolo in continuazione. Ed è normale che abbia questa impressione; negli intervalli fra un gemito e l'altro, di circa due ore, egli ha dormito e non lo ricorda, si ricorda invece soltanto dei momenti in cui è stato svegliato, e quindi gli sembra di essere stato svegliato in continuazione tutta la notte. Ma perché, perché Smerdjakov non ha confessato nel messaggio scritto in punto di morte? "La coscienza lo ha indotto a fare una cosa e non l'altra". Ma di grazia: la coscienza implica pentimento, e l'omicida poteva non provare pentimento, ma solo disperazione. La disperazione e il pentimento sono due cose completamente diverse. La disperazione può essere vendicativa e aliena dal desiderio di riconciliazione e il suicida, nel momento in cui colpiva se stesso, poteva avere doppiamente in odio coloro che aveva invidiato per tutta la vita. Signori della giuria, guardatevi da un errore giudiziario! Che cosa c'è di improbabile in tutto quello che vi ho or ora esposto e descritto? Cercate un errore nella mia esposizione, cercate qualcosa di impossibile, di assurdo. Se però c'è soltanto un'ombra di possibilità, anche solo un'ombra di verosimiglianza nelle mie supposizioni, astenetevi dal condannarlo. Ma nel nostro caso c'è forse solo un'ombra di probabilità? Vi giuro su quello che ho di più sacro che credo fermamente nella versione del delitto che vi ho appena esposto. Ma soprattutto, soprattutto, mi turba e mi rende furioso il pensiero che di tutta quella massa di circostanze accumulate dal pubblico ministero contro l'imputato, non ce ne sia una, una sola, che sia, anche solo in parte, certa e inconfutabile: eppure quel disgraziato rischia di essere rovinato da quella mole di fatti. Sì, quella mole è terribile; quel sangue, quel sangue che grondava dalle dita, la biancheria insanguinata, quella notte scura lacerata dal grido "Parricida!", e quell'uomo che urla, che cade con il cranio fracassato, e poi quella massa di versioni, testimonianze, gesti, grida - oh, tutto questo può influenzare, può falsare il giudizio, ma il vostro, il vostro giudizio, signori della giuria, può falsarlo? Ricordatevi, vi è stato attribuito un potere assoluto, il potere di sciogliere o di legare. Ma tanto più forte è il potere, tanto più terribile la sua applicazione! Non rinnego una parola di quello che ho detto finora, ma ammettiamo, ammettiamo per un solo momento che io convenga con l'accusa sul fatto che il mio disgraziato cliente si sia macchiato le mani del sangue di suo padre. È solo un'ipotesi, lo ripeto, io non ho dubitato nemmeno per un istante della sua innocenza, ma sopponiamo che l'imputato, mio cliente, sia colpevole di parricidio: ascoltate bene quello che vi dico, nel caso ammettessi una tale ipotesi. Nel cuore ho ancora qualcosa da dirvi, perché sento che pure nei vostri cuori e nelle vostre menti ci deve essere un profondo conflitto... Perdonatemi se parlo così della vostra mente e dei vostri cuori, signori della giuria. Ma voglio essere schietto e sincero fino all'ultimo. Anzi, vorrei che tutti noi fossimo sinceri!...» A quel punto l'avvocato difensore fu interrotto da un applauso piuttosto forte. Infatti, egli aveva pronunciato queste ultime parole con una nota di sincerità così intensa che tutti, probabilmente, pensarono che egli avesse davvero qualcosa da dire e che quello che avrebbe detto in quel momento sarebbe stata la cosa più importante. Ma il presidente a quell'applauso minacciò ad alta voce di far "sgombrare" l'aula se si fosse ripetuto "un simile incidente". Calò il silenzio assoluto e Fetjukoviè proseguì con un tono di voce nuovo, vibrante di sentimento, completamente diverso da quello con cui aveva parlato fino a quel momento.