X • L'arringa del difensore. Un'arma a doppio taglio
Il silenzio era assoluto quando si levarono le prime parole del celebre
oratore. L'aula intera puntava gli occhi su di lui. Egli esordì con molta
semplicità e immediatezza, con aria decisa, ma senza ombra di
presunzione. Non ricorse minimamente alla retorica, a note patetiche o a
certe paroline cariche di sentimento. Sembrava un uomo che parla a un
ristretto gruppo di persone comprensive. Aveva una voce magnifica,
sonora e affascinante, e sembrava che in quella voce stessa risuonasse
qualcosa di genuino e semplice. Ma tutti compresero all'istante che
l'oratore poteva assurgere all'improvviso al patetico puro e "penetrare i
cuori con una forza ignota". Forse parlava in maniera meno ricercata di
Ippolit Kirilloviè, ma non usava frasi molto lunghe ed era più preciso. Solo
una cosa non piacque alle signore: egli continuava a piegarsi in avanti,
soprattutto all'inizio dell'arringa, non che si inchinasse, ma era come se
fosse sul punto di spiccare il volo verso i suoi ascoltatori, inclinando la sua
lunga schiena in due, come se avesse una molla a metà della schiena, lunga
ed esile, che gli consentisse di piegarsi ad angolo retto. All'inizio
dell'arringa parlò in maniera alquanto sconnessa, non sistematica, si
sarebbe detto; prendeva in considerazione fatti isolati, ma alla fine quei
fatti vennero a formare un tutt'uno. Il suo discorso potrebbe essere diviso
in due parti: la prima consisté in una critica, una confutazione dell'accusa,
che talora assunse toni feroci e sarcastici. Mentre nella seconda parte
dell'arringa fu come se, tutto d'un tratto, avesse cambiato registro e persino
metodo: di colpo egli si elevò a tonalità patetiche; ma era come se il
pubblico in aula se lo fosse aspettato e fosse percorso da un brivido di
entusiasmo. Egli andò subito al nocciolo ed esordì dicendo che, sebbene
esercitasse la sua professione a Pietroburgo, quella non era la prima volta
che visitava altre città della Russia, in qualità di avvocato difensore, ma
solo per i casi in cui era convinto che gli imputati fossero innocenti oppure
avesse presentimento della loro innocenza. «La stessa cosa mi è avvenuta
nel presente caso», spiegò. «Sin da quando apparvero le prime
corrispondenze sui giornali mi balenò alla mente qualcosa che produsse in
me un'impressione favorevole nei confronti dell'imputato. Per farla breve,
quello che maggiormente catturò la mia attenzione fu una certa circostanza
legale che spesso si verifica nella pratica giudiziaria, ma che mai, a mio
parere, si presenta in una forma così estrema e peculiare come nel caso in
questione. Dovrei formulare questo fatto solo alla fine della mia arringa, a
conclusione del mio discorso, tuttavia esporrò la mia idea proprio
all'inizio, giacché è una mia debolezza passare immediatamente al sodo,
senza tenere da parte gli effetti sensazionali, né fare economia di
impressioni. Questo, forse, potrà essere imprudente da parte mia, ma in
compenso è sincero. La mia idea, la mia formula è la seguente: esiste una
schiacciante mole di circostanze a carico dell'imputato, eppure nemmeno
una di queste circostanze regge alla critica, se la si esamina singolarmente,
presa a sé stante! Man mano che seguivo il caso tramite le dicerie e i
giornali, questa mia idea si veniva rafforzando sempre di più, quando
all'improvviso ricevetti l'invito da parte dei parenti dell'imputato ad
assumere la sua difesa. Mi sono affrettato a venire sul posto e qui mi sono
convinto definitivamente della mia idea. Ecco, è stato allo scopo di
frantumare questa terribile mole di circostanze a carico, e dimostrare
l'infondatezza e l'assurdità di ogni circostanza presa singolarmente, che ho
accettato di assumere la difesa del caso».
Così esordì l'avvocato della difesa e ad un tratto esclamò:
«Signori della giuria, io sono l'ultimo arrivato in questa città. Le
impressioni che ho ricevuto non sono basate su preconcetti. L'imputato, un
uomo dal temperamento turbolento e sfrenato, non ha avuto occasione di
offendermi in passato, come ha fatto, c'è da supporre, con un centinaio di
persone in questa città: ecco perché molti sono prevenuti nei suoi
confronti. Anche io riconosco, certamente, che il senso morale della
società locale è giustamente esasperato contro di lui: l'imputato ha un
carattere turbolento e violento. Eppure egli venne ben accolto dalla società
del luogo, fu colmato di attenzioni persino nella famiglia del mio
abilissimo collega, il pubblico ministero». (Nota bene. Mentre pronunciava
queste parole, fra il pubblico si levarono due o tre risatine che, sebbene
subito represse, furono notate da tutti. A tutti era noto che il procuratore
aveva accolto in casa sua Mitja controvoglia, unicamente perché sua
moglie lo trovava, per qualche ragione, interessante - questa signora era
una donna estremamente virtuosa e rispettabile, ma capricciosa e dispotica,
una che amava, in alcuni casi, soprattutto nelle piccole cose, mettersi
contro suo marito. Mitja, del resto, frequentava abbastanza di rado la loro
casa.) «Nondimeno azzarderei l'ipotesi», proseguiva il difensore, «che a
dispetto dell'indipendenza di giudizio e del temperamento imparziale che
lo caratterizzano, anche nel mio opponente sia potuto nascere un
preconcetto erroneo sul conto del mio disgraziato cliente. Oh, è così
naturale: questo disgraziato si è meritato anche troppo i pregiudizi della
gente. Il senso morale oltraggiato e, peggio ancora, quello estetico, a volte
diventa implacabile. Noi tutti abbiamo sentito nella magistrale arringa
dell'accusa una severa analisi del carattere e della condotta dell'imputato,
un severo atteggiamento critico verso il caso in questione e, quel che più
conta, per spiegarci l'essenza del caso, l'accusa ci ha indicato tali
profondità psicologiche nelle quali non avrebbe mai potuto addentrarsi, se
fosse stata in mala fede e consapevolmente prevenuta contro la persona
dell'imputato. Eppure in tali casi esistono cose peggiori, persino più nocive
di un atteggiamento prevenuto e in mala fede nei confronti di un caso
giudiziario: per esempio, quando accade di lasciarsi trasportare da un
certo, diciamo così, gusto artistico, da un desiderio di creazione artistica,
per così dire, quando si tenta di creare un romanzo, soprattutto in presenza
di doti psicologiche che Dio abbia dispensato al nostro intelletto. A
Pietroburgo, prima ancora che partissi, ero stato avvisato - ma lo sapevo da
me, senza bisogno di preavvisi - che qui avrei trovato come opponente un
profondo e acutissimo psicologo, il quale, grazie a questa sua qualità, si è
conquistato una particolare fama nel nostro ancor giovane ambiente
forense. Eppure, signori, la psicologia, per quanto profonda, può agire
come un'arma a doppio taglio». Risatine fra il pubblico. «Certo voi mi
perdonerete il banale paragone: non sono un gran maestro d'eloquenza. Ma
ecco, prenderò un esempio a caso, il primo che mi viene in mente, tratto
dal discorso dell'accusa. L'imputato, di notte, nel giardino, fuggendo, sta
scavalcando lo steccato e atterra con il pestello di ottone il lacchè che gli
sta aggrappato a una gamba. Dopo di che, con un balzo, ritorna in giardino
e per cinque minuti buoni si affaccenda accanto alla vittima, cercando di
capire se lo abbia ucciso o meno. Ed ecco che l'accusa si rifiuta
categoricamente di credere alla sincerità dell'imputato, quando questi
dichiara di essere saltato giù dallo steccato per pietà verso il vecchio
Grigorij. "No", dice lui, "una sensibilità del genere è impossibile in un
momento simile, è innaturale: egli saltò giù in giardino solo per assicurarsi
che l'unico testimone della sua malefatta fosse morto, e proprio questo suo
gesto prova che egli aveva davvero compiuto quella malefatta, dal
momento che per nessun altro motivo, impulso o sentimento avrebbe
potuto ritornare in quel giardino". Ecco, questa è psicologia; ma
prendiamo questa stessa psicologia e applichiamola al caso in questione
dal taglio opposto e il nostro risultato non sarà meno plausibile.
L'assassino, ci viene detto, saltò giù per precauzione, per scoprire se il
testimone fosse vivo o meno; nel contempo, però, aveva appena lasciato
nello studio del padre, da lui ucciso - secondo quanto asserisce l'accusa
stessa - un indizio colossale a proprio carico nella forma di un plico
lacerato, sul quale si indicava il contenuto di tremila rubli. "Infatti se
avesse portato via con sé quel plico, nessuno al mondo avrebbe mai saputo
dell'esistenza di quel plico stesso e dei soldi in esso contenuti, e quindi
nessuno avrebbe saputo che quei soldi erano stati rubati dall'imputato".
Queste sono le parole dell'accusa. Allora, da un lato vediamo una completa
mancanza di cautela: l'uomo ha perso la testa e fugge spaventato, lasciando
sul pavimento un indizio; mentre, quando un paio di minuti più tardi
colpisce e ammazza un altro uomo, ecco che compare la più spietata e
calcolatrice cautela, pronta al nostro servizio. Ma ammettiamo,
ammettiamo pure che sia così: mi diranno che è proprio la sottigliezza
psicologica a far sì che, in date circostanze, io sia assetato di sangue e
perspicace come un'aquila del Caucaso e, un attimo dopo, sia cieco e
timoroso come una povera talpa. Ma se sono così sanguinario e
spietatamente calcolatore da saltare giù, dopo aver ucciso, solo per vedere
se sia morto un testimone pericoloso, come mai spreco cinque minuti
buoni ad affaccendarmi su questa mia nuova vittima a rischio di
procurarmi altri testimoni? A che scopo inzuppare il mio fazzoletto per
detergere il sangue che cola dalla testa della mia vittima, quando poi quel
fazzoletto potrebbe costituire un indizio contro di me? No, se siamo
davvero così avveduti e duri di cuore, allora, dopo essere saltati giù in
giardino, faremmo meglio ad assestare sulla testa del servo atterrato un
altro bel colpo e un altro ancora per ucciderlo, in maniera da farla finita
con il testimone e levarci questo peso dal cuore! E, certamente, quando
salteremo giù per assicurarci che il nostro testimone sia morto, lasceremo
sul sentierino, lì accanto, un altro testimone, proprio quel pestello che
abbiamo preso in casa delle due donne, e che in seguito entrambe potranno
riconoscere in modo da testimoniare che siamo stati noi a prenderlo da
casa loro. E non l'abbiamo mica dimenticato là sul sentierino, non
l'abbiamo mica perduto per distrazione, per la confusione nella quale ci
trovavamo, no: avevamo gettato via quell'arma di proposito, perché è stata
ritrovata a una quindicina di passi dal posto in cui era stato atterrato
Grigorij. Ci si domanda: a che scopo abbiamo agito in quel modo? Ecco,
abbiamo agito in questo modo per l'amarezza che ci ha invaso per aver
ucciso un uomo, un vecchio servitore; imprecando con stizza, abbiamo
gettato via quel pestello come arma del nostro delitto; non poteva essere
altrimenti, per quale altro motivo potevamo gettarlo con tanto impeto? Se
siamo stati in grado di provare dolore e pietà per aver ucciso un uomo,
questo dimostra, naturalmente, che non abbiamo ucciso nostro padre: se
avessimo ucciso nostro padre, non saremmo saltati giù verso l'uomo che
avevamo abbattuto, mossi da pietà: avremmo provato tutt'altri sentimenti,
non avremmo dato spazio alla pietà, ma solo all'istinto di conservazione,
questo è fuori di dubbio. Al contrario, gli avremmo definitivamente
fracassato il cranio e non avremmo perso quei cinque minuti accanto a lui.
Invece demmo spazio alla pietà e ai buoni sentimenti, proprio perché
avevamo la coscienza pulita. Ecco, dunque, una psicologia del tutto
diversa. Signori della giuria, io stesso ho fatto ricorso alla psicologia di
proposito, per darvi una dimostrazione evidente di come da essa sia
possibile dedurre quello che più fa comodo. Dipende dall'uso che ne fate.
La psicologia spinge anche le persone più serie a comporre dei romanzi, e
questo del tutto inconsapevolmente. Sto parlando della psicologia
superflua, signori della giuria, dell'abuso della psicologia». Anche a questo
punto si udirono risatine di consenso fra il pubblico, ancora una volta
all'indirizzo del procuratore. Non riporterò il discorso del difensore per filo
e per segno, sceglierò soltanto alcuni passaggi, i punti fondamentali.