domenica 30 maggio 2021

Pëtr Aleksandroviè Miusov


LIBRO PRIMO








FORMAZIONE LIBERALE A PARIGI

Ma accadde che tornò da Parigi il cugino della defunta Adelaida Ivanovna, Pëtr Aleksandroviè Miusov. Questi in seguito visse molti anni all'estero, ma allora era ancora molto giovane e spiccava fra i Miusov per la sua cultura, perché era vissuto nella capitale e all'estero e, dopo essere stato di gusti europei per tutta una vita, alla fine era diventato un liberale degli anni '40 e '50. Nel corso della sua carriera aveva avuto rapporti con molti degli uomini più liberali della sua epoca, sia in Russia sia all'estero, conosceva personalmente Proudhon e Bakunin e amava in particolar modo ricordare e raccontare, oramai verso la fine dei suoi pellegrinaggi, dei tre giorni della rivoluzione del febbraio '48 a Parigi, alludendo al fatto che per poco non aveva preso parte personalmente agli scontri sulle barricate. Era uno dei ricordi più felici della sua giovinezza. 


PROPRIETA'

Aveva una proprietà che gli garantiva una vita indipendente, di circa mille anime secondo le vecchie misurazioni. La magnifica tenuta si trovava alle porte della nostra cittadina e confinava con le terre del nostro rinomato monastero, con il quale Pëtr Aleksandroviè, sin dagli anni della prima giovinezza, subito dopo l'assegnazione dell'eredità, aveva intrapreso immediatamente una causa interminabile per il diritto di pesca nel fiume o di taglio nel bosco, non so con precisione, ma aveva ritenuto persino un suo dovere di cittadino e persona illuminata far causa ai "clericali". 

RITORNO IN CITTA' E AFFIDAMENTO DI MITJA

Dopo aver appreso tutta la storia di Adelaida Ivanovna che lui, s'intende, ricordava e per la quale un tempo aveva persino avuto un certo interesse, e avendo saputo dell'esistenza di Mitja egli, nonostante tutto il suo sdegno giovanile e il disprezzo per Fëdor Pavloviè, s'immischiò nella faccenda. In quella occasione incontrò per la prima volta Fëdor Pavloviè. Gli comunicò su due piedi che avrebbe desiderato occuparsi dell'educazione del bambino. In seguito raccontò per molto tempo, come un fatto caratteristico, che quando aveva cominciato a parlare di Mitja con Fëdor Pavloviè, questi aveva avuto per un pezzo l'aria di quello che assolutamente non capisce di quale bambino si stia parlando e si meraviglia persino di avere un figlioletto in qualche angolo della casa. Forse il racconto di Pëtr Aleksandroviè poteva essere un po' esagerato, ma ci doveva pur essere qualcosa di vero.

Pëtr Aleksandroviè condusse la faccenda con fervore e fu persino nominato tutore del bambino (congiuntamente a Fëdor Pavloviè), visto che dopo la morte della madre gli erano pur sempre rimasti una piccola tenuta, una casa e un podere. Mitja si trasferì di fatto da questo cugino di secondo grado,

ANCORA A PARIGI (1848)

... ma questi non aveva una famiglia propria e, dal momento che lui stesso, subito dopo aver sistemato e assicurato i redditi delle sue proprietà, si affrettò subito a partire per Parigi per un lungo periodo, ecco che affidò il bambino a una sua zia di secondo grado, una nobildonna moscovita. Accadde che, vivendo permanentemente a Parigi, anche lui si dimenticò del bambino, soprattutto quando ebbe inizio quella rivoluzione di febbraio che tanto colpì la sua immaginazione e che egli non poté dimenticare per tutta la vita.


GIUDIZIO DU ALEKSEI

Una volta Pëtr Aleksandroviè Miusov, uomo estremamente sensibile rispetto ai soldi e alla rettitudine borghese, dopo aver osservato attentamente Aleksej, pronunciò su di lui il seguente aforisma: «Ecco, forse, l'unico uomo al mondo che se rimanesse all'improvviso da solo e senza soldi nella piazza di una città sconosciuta di un milione di abitanti, non si perderebbe affatto d'animo e non morirebbe né di fame né di freddo, perché in un batter d'occhio lo rifocillerebbero, in un batter d'occhio gli troverebbero una sistemazione e, qualora non gliela trovassero gli altri, se la troverebbe in un batter d'occhio da solo, e questo a lui non costerebbe nessuno sforzo e nessuna umiliazione, e a chi lo accogliesse nessun peso, ma forse, al contrario, questi lo considererebbe un piacere».


GIUDIZIO SU IVAN

. Pëtr Aleksandroviè Miusov, del quale ho già parlato prima, lontano parente di Fëdor Pavloviè da parte della prima moglie, si trovava ancora dalle nostre parti in quel periodo per visitare la sua proprietà alle porte della città, nel corso di un breve soggiorno lontano da Parigi, dove si era definitivamente stabilito. Ricordo che fu proprio lui a meravigliarsi più di tutti dopo aver conosciuto quel giovanotto, che destò un intenso interesse in lui, e con il quale, con suo dispiacere, ebbe parecchi battibecchi su argomenti intellettuali. 

«Egli è orgoglioso», ci diceva allora di lui, «saprà sempre procurarsi denaro, anche adesso ha i soldi necessari per andare all'estero, a che gli serve stare qui? È chiaro a tutti che non è venuto qui per i soldi, perché in ogni caso il padre non glieli darebbe. Non ama bere né fare bagordi, e intanto il vecchio non può fare a meno di lui, tanto vanno d'accordo!». 

Era la verità, il giovanotto aveva una palese influenza sul vecchio; questi aveva quasi cominciato a dargli ascolto, sebbene a volte fosse estremamente e, persino perfidamente, capriccioso; aveva persino cominciato a comportarsi in modo più decente...




L'IDEA DELLA RIUNIONE DI FAMIGLIA


Pëtr Aleksandroviè Miusov, che in quel periodo viveva nella nostra città, si attaccasse in modo particolare a quella idea di Fëdor Pavloviè. Liberale degli anni '40 e '50, libero pensatore e ateo, egli, forse per noia o forse per frivolo passatempo, ebbe un ruolo eccezionale in quella vicenda. 

Gli venne improvvisamente voglia di vedere il monastero e il "santo". Dal momento che ancora si protraevano le vecchie dispute con il monastero ed andava per le lunghe la causa sul confine fondiario dei suoi possedimenti, sui diritti di taglio nel bosco e di pesca nel fiume e via dicendo, egli si affrettò a sfruttare la situazione con la scusa di volersi mettere d'accordo di persona con il padre igumeno per vedere se fosse possibile ricomporre i loro contrasti in maniera pacifica. Avrebbero certo accolto con maggiore attenzione e considerazione un visitatore animato da tali lodevoli intenzioni, piuttosto che un semplice curioso.


LIBRO SECONDO


 Giunsero in due vetture: nella prima, una lussuosa carrozza tirata da una pariglia di costosi cavalli, arrivò Pëtr Aleksandroviè Miusov in compagnia di un lontano parente, un uomo molto giovane, sui vent'anni, Pëtr Fomiè Kalganov. Questo giovanotto stava per entrare all'Università; Miusov, presso il quale viveva in quel periodo, lo voleva indurre a seguirlo all'estero, per iscriversi all'Università di Zurigo o Jena e completare lì gli studi.



I visitatori lasciarono le carrozze fuori dal recinto, alla foresteria, ed entrarono a piedi nel portone del monastero. Tranne Fëdor Pavloviè, nessuno della compagnia aveva mai visitato un monastero; Miusov non entrava in una chiesa che erano più o meno trent'anni. Egli si guardava intorno con una certa curiosità, non priva di affettata disinvoltura. Ma per la sua mente osservatrice, oltre agli edifici religiosi e di servizio, per altro abbastanza ordinari, all'interno del monastero non c'era niente da vedere.



  Miusov guardava distrattamente le pietre sepolcrali intorno alla chiesa e avrebbe voluto commentare che quelle tombette dovevano essere costate piuttosto care ai parenti dei defunti per il privilegio di sepoltura in un posto così "sacro", ma se ne stette zitto: la sua ironia liberale stava per trasformarsi in rabbia. «A chi diavolo dobbiamo rivolgerci in questa gabbia di matti?... Dobbiamo pur scoprirlo, qui il tempo passa», disse all'improvviso come parlando fra sé.

INVITO A PRANZO DALL'IGOUMENO

«Vedete, noi andiamo dallo starec per una faccenda nostra», osservò severamente Miusov. «Quella personalità ci ha concesso un'udienza, diciamo così, quindi, per quanto grati di averci indicato la strada, non possiamo invitarvi ad entrare insieme a noi». «Io ci sono stato, ci sono stato, ci sono già stato... Un chevalier parfait!», e il proprietario schioccò le dita in aria. «Chi sarebbe questo chevalier?», domandò Miusov. «Lo starec, l'esimio starec, lo starec... L'onore e la gloria del monastero, Zosima. È uno starec così...» Ma il suo discorso sconclusionato venne interrotto dal sopraggiungere di un monacello con il cappuccio sulla testa, di bassa statura, molto pallido ed emaciato. Fëdor Pavloviè e Miusov si fermarono. Il monaco, con un inchino estremamente cortese e profondo, annunciò: «Dopo la visita all'eremo, il padre igumeno prega umilmente voi tutti di recarvi a pranzo da lui. All'una, non più tardi. Anche voi», disse rivolgendosi a Maksimov.
 




«Perdonatemi...», prese a dire Miusov rivolto allo starec, «forse anche io vi sembrerò complice di questo ignobile scherzo. Il mio errore è stato quello di credere che persino un tipo come Fëdor Pavloviè, in occasione della visita a un persona così venerabile, si rendesse conto dei propri doveri... Non immaginavo che avrei dovuto scusarmi per il fatto di essere venuto in sua compagnia...» Pëtr Aleksandroviè non finì di parlare e, tutto confuso, fece per uscire dalla stanza. «Non inquietatevi, vi prego», lo starec si alzò all'improvviso dal suo posto sulle gambe malferme e, prendendo Pëtr Aleksandroviè per entrambe le mani, lo fece risedere al suo posto. «State tranquillo, vi prego. Chiedo a voi, in modo particolare, di rimanere mio ospite». Fece un inchino, si girò e si sedette di nuovo sul suo divanetto.

quando lo starec fece ritorno nella cella trovò i suoi ospiti impegnati in una accesa discussione. I protagonisti principali della discussione erano Ivan Fëdoroviè e i due ieromonaci. Anche Miusov interveniva di tanto in tanto e, a quanto pareva, in modo abbastanza infervorato, ma anche questa volta la fortuna non era dalla sua parte: egli ricopriva un ruolo di secondo piano, le sue osservazioni erano tenute in poco conto e questa nuova circostanza non faceva che alimentare l'irritazione che si era accumulata in lui. Il fatto è che anche in passato egli aveva avuto degli scontri intellettuali con Ivan Fëdoroviè e non riusciva ad accettare, con il dovuto distacco, la noncuranza con la quale quel giovane lo trattava: "Fino ad oggi, sono sempre stato in prima linea in quanto di più progredito ci fosse in Europa, mentre questa nuova generazione ci ignora decisamente", pensava tra sé e sé. Fëdor Pavloviè, che aveva dato spontaneamente la parola di rimanersene zitto e al suo posto, era davvero rimasto buono buono per un po' di tempo, ma, con un sorrisetto beffardo, osservava il suo vicino Pëtr Aleksandroviè e si rallegrava visibilmente della sua irritazione.



«Permettetemi di raccontarvi un piccolo aneddoto, signori», disse all'improvviso Miusov con un tono grave e un'aria di particolare importanza. «A Parigi, alcuni anni or sono, subito dopo il colpo di stato di dicembre, un giorno, nel corso di una visita a un personaggio molto, molto importante, a quel tempo legato al governo, mi capitò di incontrare in casa sua un signore curiosissimo. Quell'individuo non era un semplice investigatore, ma una specie di sovrintendente di un'intera squadra di investigatori politici, e ricopriva una carica di grande potere nel suo genere. Spinto dalla curiosità, approfittai dell'occasione di conversare con lui; dal momento che egli era stato ricevuto non in qualità di visitatore, ma di funzionario subalterno che faceva il suo speciale rapporto, e considerato pure che, dal canto suo, aveva notato come ero stato ricevuto dal suo capo, si degnò di parlarmi con una certa franchezza, fino a un certo punto, s'intende, cioè fu più cortese che franco, proprio come sanno essere cortesi i francesi, tanto più che in me vedeva uno straniero. Io l'avevo inquadrato alla perfezione. La conversazione verteva sui rivoluzionari socialisti che in quel periodo erano oggetto di persecuzione. Tralasciando il succo della conversazione, riferirò soltanto un'osservazione molto curiosa che si lasciò sfuggire quel tipo: "Noi", disse, "in sostanza non abbiamo molta paura di tutti questi socialisti, anarchici e rivoluzionari; li teniamo d'occhio e conosciamo le loro mosse. Ma fra di loro militano, benché non in gran numero, degli individui particolari: essi credono in Dio, sono cristiani e nel contempo sono socialisti. Ecco, quelli li temiamo più di tutti, quella è gente formidabile! Un socialista cristiano è assai più temibile di un socialista ateo!" Queste parole mi colpirono anche allora, ma adesso, qui con voi, mi sono ritornate alla mente all'improvviso...»

«Chiedo ancora una volta il permesso di sorvolare su questo argomento», ribadì Pëtr Aleksandroviè, «invece vi racconterò un altro aneddoto, signori, su Ivan Fëdoroviè in persona, un aneddoto molto interessante e molto caratteristico. Non più tardi di cinque giorni fa, durante una riunione qui in città, alla quale prendevano parte in prevalenza signore, egli ha dichiarato solennemente, nel corso di una discussione, che in tutta la terra non esiste assolutamente nulla che possa costringere gli uomini ad amare i propri simili e che non esiste affatto una legge della natura in base alla quale l'uomo debba amare l'umanità, e che se esiste ed è finora esistito amore sulla terra, ciò non è dovuto a una legge naturale, ma esclusivamente al fatto che gli uomini hanno creduto nella propria immortalità. Ivan Fëdoroviè aggiunse, tra parentesi, che proprio in questo consiste la legge naturale, quindi, se provaste a distruggere nell'umanità la fede nella propria immortalità, in essa si estinguerebbe immediatamente non soltanto l'amore, ma qualunque forza vitale per continuare la vita sulla terra. E non solo: non ci sarebbe più nulla di immorale, sarebbe tutto permesso, persino l'antropofagia. E, come se non bastasse, ha concluso affermando che per ogni individuo, come noi adesso per esempio, che non crede né in Dio, né nella propria immortalità, la legge morale della natura dovrà immediatamente trasformarsi nell'esatto contrario della legge religiosa prima vigente e l'egoismo umano, spinto eventualmente addirittura al crimine, deve essere non solo consentito, ma persino riconosciuto come l'esito necessario, il più razionale e quasi il più nobile nella sua posizione. Da tale paradosso, signori, potete dedurre tutto il resto delle teorie che proclama e, forse, ha intenzione di proclamare anche adesso, il nostro caro eccentrico e paradossale Ivan Fëdoroviè».