LIBRO PRIMO
FORMAZIONE LIBERALE A PARIGI
Ma accadde che tornò da Parigi il cugino della defunta Adelaida Ivanovna, Pëtr Aleksandroviè Miusov. Questi in seguito visse molti anni all'estero, ma allora era ancora molto giovane e spiccava fra i Miusov per la sua cultura, perché era vissuto nella capitale e all'estero e, dopo essere stato di gusti europei per tutta una vita, alla fine era diventato un liberale degli anni '40 e '50. Nel corso della sua carriera aveva avuto rapporti con molti degli uomini più liberali della sua epoca, sia in Russia sia all'estero, conosceva personalmente Proudhon e Bakunin e amava in particolar modo ricordare e raccontare, oramai verso la fine dei suoi pellegrinaggi, dei tre giorni della rivoluzione del febbraio '48 a Parigi, alludendo al fatto che per poco non aveva preso parte personalmente agli scontri sulle barricate. Era uno dei ricordi più felici della sua giovinezza.
PROPRIETA'
Aveva una proprietà che gli garantiva una vita indipendente, di circa mille anime secondo le vecchie misurazioni. La magnifica tenuta si trovava alle porte della nostra cittadina e confinava con le terre del nostro rinomato monastero, con il quale Pëtr Aleksandroviè, sin dagli anni della prima giovinezza, subito dopo l'assegnazione dell'eredità, aveva intrapreso immediatamente una causa interminabile per il diritto di pesca nel fiume o di taglio nel bosco, non so con precisione, ma aveva ritenuto persino un suo dovere di cittadino e persona illuminata far causa ai "clericali".
RITORNO IN CITTA' E AFFIDAMENTO DI MITJA
Dopo aver appreso tutta la storia di Adelaida Ivanovna che lui, s'intende, ricordava e per la quale un tempo aveva persino avuto un certo interesse, e avendo saputo dell'esistenza di Mitja egli, nonostante tutto il suo sdegno giovanile e il disprezzo per Fëdor Pavloviè, s'immischiò nella faccenda. In quella occasione incontrò per la prima volta Fëdor Pavloviè. Gli comunicò su due piedi che avrebbe desiderato occuparsi dell'educazione del bambino. In seguito raccontò per molto tempo, come un fatto caratteristico, che quando aveva cominciato a parlare di Mitja con Fëdor Pavloviè, questi aveva avuto per un pezzo l'aria di quello che assolutamente non capisce di quale bambino si stia parlando e si meraviglia persino di avere un figlioletto in qualche angolo della casa. Forse il racconto di Pëtr Aleksandroviè poteva essere un po' esagerato, ma ci doveva pur essere qualcosa di vero.
Pëtr Aleksandroviè condusse la faccenda con fervore e fu persino nominato tutore del bambino (congiuntamente a Fëdor Pavloviè), visto che dopo la morte della madre gli erano pur sempre rimasti una piccola tenuta, una casa e un podere. Mitja si trasferì di fatto da questo cugino di secondo grado,
ANCORA A PARIGI (1848)
... ma questi non aveva una famiglia propria e, dal momento che lui stesso, subito dopo aver sistemato e assicurato i redditi delle sue proprietà, si affrettò subito a partire per Parigi per un lungo periodo, ecco che affidò il bambino a una sua zia di secondo grado, una nobildonna moscovita. Accadde che, vivendo permanentemente a Parigi, anche lui si dimenticò del bambino, soprattutto quando ebbe inizio quella rivoluzione di febbraio che tanto colpì la sua immaginazione e che egli non poté dimenticare per tutta la vita.
GIUDIZIO DU ALEKSEI
Una volta Pëtr Aleksandroviè Miusov, uomo estremamente sensibile rispetto ai soldi e alla rettitudine borghese, dopo aver osservato attentamente Aleksej, pronunciò su di lui il seguente aforisma: «Ecco, forse, l'unico uomo al mondo che se rimanesse all'improvviso da solo e senza soldi nella piazza di una città sconosciuta di un milione di abitanti, non si perderebbe affatto d'animo e non morirebbe né di fame né di freddo, perché in un batter d'occhio lo rifocillerebbero, in un batter d'occhio gli troverebbero una sistemazione e, qualora non gliela trovassero gli altri, se la troverebbe in un batter d'occhio da solo, e questo a lui non costerebbe nessuno sforzo e nessuna umiliazione, e a chi lo accogliesse nessun peso, ma forse, al contrario, questi lo considererebbe un piacere».
GIUDIZIO SU IVAN
. Pëtr Aleksandroviè Miusov, del quale ho già parlato prima, lontano parente di Fëdor Pavloviè da parte della prima moglie, si trovava ancora dalle nostre parti in quel periodo per visitare la sua proprietà alle porte della città, nel corso di un breve soggiorno lontano da Parigi, dove si era definitivamente stabilito. Ricordo che fu proprio lui a meravigliarsi più di tutti dopo aver conosciuto quel giovanotto, che destò un intenso interesse in lui, e con il quale, con suo dispiacere, ebbe parecchi battibecchi su argomenti intellettuali.
«Egli è orgoglioso», ci diceva allora di lui, «saprà sempre procurarsi denaro, anche adesso ha i soldi necessari per andare all'estero, a che gli serve stare qui? È chiaro a tutti che non è venuto qui per i soldi, perché in ogni caso il padre non glieli darebbe. Non ama bere né fare bagordi, e intanto il vecchio non può fare a meno di lui, tanto vanno d'accordo!».
Era la verità, il giovanotto aveva una palese influenza sul vecchio; questi aveva quasi cominciato a dargli ascolto, sebbene a volte fosse estremamente e, persino perfidamente, capriccioso; aveva persino cominciato a comportarsi in modo più decente...
L'IDEA DELLA RIUNIONE DI FAMIGLIA
Pëtr Aleksandroviè Miusov, che in quel periodo viveva nella nostra città, si attaccasse in modo particolare a quella idea di Fëdor Pavloviè. Liberale degli anni '40 e '50, libero pensatore e ateo, egli, forse per noia o forse per frivolo passatempo, ebbe un ruolo eccezionale in quella vicenda.
Gli venne improvvisamente voglia di vedere il monastero e il "santo". Dal momento che ancora si protraevano le vecchie dispute con il monastero ed andava per le lunghe la causa sul confine fondiario dei suoi possedimenti, sui diritti di taglio nel bosco e di pesca nel fiume e via dicendo, egli si affrettò a sfruttare la situazione con la scusa di volersi mettere d'accordo di persona con il padre igumeno per vedere se fosse possibile ricomporre i loro contrasti in maniera pacifica. Avrebbero certo accolto con maggiore attenzione e considerazione un visitatore animato da tali lodevoli intenzioni, piuttosto che un semplice curioso.
LIBRO SECONDO
Giunsero in due vetture: nella prima, una lussuosa carrozza tirata da una pariglia di costosi cavalli, arrivò Pëtr Aleksandroviè Miusov in compagnia di un lontano parente, un uomo molto giovane, sui vent'anni, Pëtr Fomiè Kalganov. Questo giovanotto stava per entrare all'Università; Miusov, presso il quale viveva in quel periodo, lo voleva indurre a seguirlo all'estero, per iscriversi all'Università di Zurigo o Jena e completare lì gli studi.
I visitatori lasciarono le carrozze fuori dal recinto, alla foresteria, ed entrarono a piedi nel portone del monastero. Tranne Fëdor Pavloviè, nessuno della compagnia aveva mai visitato un monastero; Miusov non entrava in una chiesa che erano più o meno trent'anni. Egli si guardava intorno con una certa curiosità, non priva di affettata disinvoltura. Ma per la sua mente osservatrice, oltre agli edifici religiosi e di servizio, per altro abbastanza ordinari, all'interno del monastero non c'era niente da vedere.
Miusov guardava distrattamente le pietre sepolcrali intorno alla chiesa e avrebbe voluto commentare che quelle tombette dovevano essere costate piuttosto care ai parenti dei defunti per il privilegio di sepoltura in un posto così "sacro", ma se ne stette zitto: la sua ironia liberale stava per trasformarsi in rabbia. «A chi diavolo dobbiamo rivolgerci in questa gabbia di matti?... Dobbiamo pur scoprirlo, qui il tempo passa», disse all'improvviso come parlando fra sé.
INVITO A PRANZO DALL'IGOUMENO
«Vedete, noi andiamo dallo starec per una faccenda nostra», osservò
severamente Miusov. «Quella personalità ci ha concesso un'udienza,
diciamo così, quindi, per quanto grati di averci indicato la strada, non
possiamo invitarvi ad entrare insieme a noi».
«Io ci sono stato, ci sono stato, ci sono già stato... Un chevalier
parfait!», e il proprietario schioccò le dita in aria.
«Chi sarebbe questo chevalier?», domandò Miusov.
«Lo starec, l'esimio starec, lo starec... L'onore e la gloria del
monastero, Zosima. È uno starec così...»
Ma il suo discorso sconclusionato venne interrotto dal
sopraggiungere di un monacello con il cappuccio sulla testa, di bassa
statura, molto pallido ed emaciato. Fëdor Pavloviè e Miusov si fermarono.
Il monaco, con un inchino estremamente cortese e profondo, annunciò:
«Dopo la visita all'eremo, il padre igumeno prega umilmente voi tutti
di recarvi a pranzo da lui. All'una, non più tardi. Anche voi», disse
rivolgendosi a Maksimov.