TERZO GIORNO DI IVAN
... si
svegliò presto, verso le sette, ad alba fatta. Aprendo gli occhi, fu sorpreso
di sentirsi pieno di un'insolita energia, balzò rapidamente giù dal letto e si
vestì in fretta, poi tirò fuori la valigia e cominciò subito a riempirla. La
biancheria gli era arrivata giusto la mattina prima dalla lavandaia. Ivan
Fëdoroviè sorrise persino al pensiero che tutto contribuisse a facilitare
l'improvvisa partenza. E la sua partenza era senza dubbio improvvisa.
Sebbene Ivan Fëdoroviè avesse detto il giorno prima (a Katerina Ivanovna,
ad Alëša e poi a Smerdjakov) che sarebbe partito l'indomani, si ricordò di
non aver affatto pensato alla partenza quando era andato a letto o, almeno,
non aveva minimamente pensato che la prima cosa che avrebbe fatto
l'indomani, svegliandosi, sarebbe stata quella di affrettarsi a fare le valigie.
Finalmente la valigia e la borsa da viaggio furono pronte: erano all'incirca
le nove quando Marfa Ignat'evna entrò nella sua stanza con la solita
domanda di ogni giorno: "Dove volete prendere il tè, in camera o di
sotto?" Ivan Fëdoroviè scese con un'aria quasi allegra, sebbene in lui, nelle
sue parole, nei suoi gesti ci fosse qualcosa di scomposto e affrettato. Dopo
aver affabilmente salutato il padre ed essersi premurosamente informato
sulla sua salute - senza aspettare tuttavia che il padre finisse di rispondere -
egli gli annunciò che sarebbe partito per Mosca di lì a un'ora, per sempre, e
gli chiese di mandare a prendere i cavalli al più presto.
FEDOR CHIEDE AD IVAN DI ANDARE A Cermašnja
Il vecchio ascoltò
la notizia senza manifestare la minima meraviglia, e dimenticò, in modo a dir poco sconveniente, di rammaricarsi per la partenza del caro figliolo.
Invece si mise subito in agitazione, come ricordando, a proposito, un suo
affare personale della massima importanza.
«Che tipo che sei! Potevi dirmelo ieri... ma non fa niente,
sistemeremo ogni cosa lo stesso. Fammi un grande favore, ragazzo mio,
passa da Èermašnja. Devi soltanto svoltare a sinistra alla stazione di
Volov'ja, in tutto una dozzina di verste e sei arrivato a Èermašnja».
«Spiacente, ma non posso: è a ottanta verste dalla ferrovia
e il treno
per Mosca parte dalla stazione alle sette di sera, faccio appena in tempo a
prenderlo».
«Lo prenderai domani o dopodomani, ma oggi svolta a Èermašnja.
Che ti costa far contento tuo padre?
CONGEDO
«Be', va' con Dio, va' con Dio!», gli ripeteva dal terrazzino.
«Tornerai ancora, una volta o l'altra nella vita? Cerca di venire, ne sarò
sempre felice. Be', che Cristo ti accompagni!»
Ivan Fëdoroviè salì in carrozza.
«Addio, Ivan, non mi biasimare troppo!», gli gridò il padre per
ultimo.
La servitù al completo era uscita per salutarlo:
Smerdjakov, Marfa
Ignat'evna e Grigorij.
Ivan Fëdoroviè regalò loro dieci rubli a testa.
Quando fu seduto in carrozza, Smerdjakov gli balzò accanto per
sistemargli la coperta da viaggio.
«Vedi...sto andando a Èermašnja...», sfuggì a Ivan Fëdoroviè; ancora
una volta, come il giorno prima, le parole gli uscirono involontariamente e
accompagnate da un risolino nervoso.
Ricordò a lungo questo fatto.
«Vuol dire che la gente ha ragione quando dice che anche due
chiacchiere, con un uomo intelligente, sono interessanti», replicò con
fermezza Smerdjakov, guardando con aria significativa Ivan Fëdoroviè.
IVAN IN VIAGGIO
La carrozza dette uno scossone e partì a spron battuto.
Tutto era confuso nell'anima del viaggiatore, ma egli guardava avidamente i
campi tutt'intorno, le colline, gli alberi, gli stormi di oche che volavano
alto nel
cielo limpido. E sentì un improvviso benessere. Provò ad attaccare discorso
con il vetturino e si interessò enormemente alle risposte che il contadino gli
dava, ma un minuto dopo si rese conto che non aveva nemmeno prestato orecchio a
quanto diceva il contadino e che neppure aveva capito quello che rispondeva.
Tacque, ma stava bene anche così: l'aria era tersa, fresca, pungente, il cielo era limpido. Fecero per balenargli in mente le immagini di Alëša e di Katerina Ivanovna, ma sorrise dolcemente e dolcemente soffiò via i loro cari fantasmi, ed essi svanirono. "Ci sarà tempo anche per loro", pensò.
CAMBIAMENTO DI PROGRAMMA
Raggiunsero presto la stazione,
cambiarono i cavalli e partirono al galoppo alla volta di Volov'ja. "Perché
anche due chiacchiere, con un uomo intelligente, sono interessanti?" Che
cosa aveva voluto dire? Questo pensiero sembrò togliergli il respiro. "E
perché io gli ho detto che andavo a Èermašnja?"
Raggiunsero di gran
carriera la stazione di Volov'jà. Ivan Fëdoroviè scese dalla carrozza e i
vetturini gli si fecero intorno. Mercanteggiarono il prezzo per portarlo a
Èermašnja, dodici verste di strada vicinale, su cavalli privati. Egli ordinò
di attaccare i cavalli. Entrò dentro la stazione di posta, si guardò intorno,
gettò uno sguardo alla moglie del sorvegliante e subito tornò sul terrazzino
d'ingresso.
«Non serve andare a Èermašnja. Faccio in tempo a raggiungere la
stazione ferroviaria per le sette, fratelli?»
«Vi accontenteremo subito. Attacchiamo i cavalli, allora?»
«Immediatamente. Qualcuno di voi si reca in città domani?»
«Come no, ci andrà Mitrij ».
«Puoi farmi un servizio, Mitrij? Va' da mio padre, da Fëdor Pavloviè
Karamazov e digli che non sono andato a Èermašnja. Puoi farlo?»
«Perché no, ci passerò; conosciamo da un pezzo Fëdor Pavloviè».
«Eccoti qualcosa per il tè, perché credo che lui non ti darà nulla...»,
scoppiò a ridere allegramente Ivan Fëdoroviè.
«Ci potete scommettere che non mi darà nulla», si mise a ridere
anche Mitrij. «Grazie signore, eseguirò senz'altro...»
Alle sette di sera Ivan Fëdoroviè saliva sul treno e partiva per Mosca.
"Alle spalle il passato, ho chiuso con il vecchio mondo per sempre, che
non me ne giunga più alcuna notizia, alcuna eco; verso un nuovo mondo,
verso luoghi nuovi, senza più guardare indietro". Ma invece che
dall'entusiasmo, la sua anima fu invasa all'improvviso dalle tenebre e il suo
cuore si riempì di una tristezza quale non aveva mai provato in vita sua. Passò tutta la notte a pensare, intanto il treno viaggiava veloce;
solo verso
l'alba, alle porte di Mosca, fu come se tornasse in sé.
«Sono un vigliacco!», sussurrò a se stesso.
TERZO GIORNO DI FEDOR
Invece Fëdor Pavloviè, dopo aver accompagnato il figlio, rimase
molto soddisfatto.
Per due ore buone si sentì quasi felice mentre
sorseggiava il suo cognacchino.
Ma ad un tratto, in casa successe un
incidente molto fastidioso ed estremamente spiacevole per tutti, che
sconvolse in un baleno la disposizione di spirito di Fëdor Pavloviè:
Smerdjakov era andato in cantina a prendere qualcosa ed era caduto dalla
cima della scala. Per fortuna Marfa Ignat'evna in quel momento si trovava
nel cortile e aveva sentito in tempo. Non aveva assistito alla caduta, però
aveva sentito un urlo, un urlo particolare, strano, ma che conosceva da
tempo: il grido dell'epilettico in preda ad un attacco. Nessuno fu in grado
di stabilire se l'attacco gli fosse venuto mentre scendeva gli scalini - in
questo caso doveva essere cascato in stato di incoscienza, oppure, al
contrario, se l'attacco fosse sopravvenuto in Smerdjakov, epilettico
dichiarato, in seguito alla caduta e all'agitazione; fatto sta che lo trovarono
che si dibatteva sul pavimento della cantina, in preda a brividi e
convulsioni, con la bava alla bocca. All'inizio pensarono che si fosse rotto
qualcosa, un braccio o una gamba, e che si fosse storpiato, invece "Dio lo
aveva risparmiato", come si espresse Marfa Ignat'evna: non era accaduto
nulla del genere, solo che fu difficile tirarlo fuori dalla cantina alla luce del
sole. Ma chiesero aiuto ai vicini e in un modo o nell'altro ce la fecero.
Fëdor Pavloviè in persona assistette a tutta la cerimonia, anche lui dette
una mano, visibilmente spaventato a morte e come smarrito. Il malato,
però, non riacquistò conoscenza: anche se gli attacchi cessavano ad
intervalli, si rinnovavano in continuazione e tutti giunsero alla conclusione
che sarebbe accaduta la stessa cosa dell'anno prima, quando era
accidentalmente caduto giù dalla soffitta. Si ricordarono che quella volta
gli avevano messo il ghiaccio in testa. C'era ancora del ghiaccio in cantina
e Marta Ignat'evna provvide a prenderlo e applicarlo, mentre Fëdor
Pavloviè, verso sera, mandò a chiamare il dottor Gercenštube che si
presentò immediatamente. Sottopose il malato ad una visita accurata (era il
medico più accurato e scrupoloso di tutto il governatorato, un vecchietto
avanti con gli anni e rispettabilissimo), e concluse che si era trattato di un
gravissimo attacco che "poteva minacciare serie conseguenze" e che dal
momento che lui, Gercenštube, non aveva ancora capito del tutto,
l'indomani mattina, se non avessero apportato beneficio i rimedi somministrati, ne avrebbe adottati degli altri. Il malato fu trasportato alla
dipendenza, nella stanzetta accanto alle stanze di Grigorij e Marfa
Ignat'evna. Nel resto della giornata,
Fëdor Pavloviè dovette subire una
disgrazia dopo l'altra: toccò a Marfa Ignat'evna preparare il pranzo e la sua
zuppa, in confronto a quella di Smerdjakov, riuscì "pari pari alla
risciacquatura dei piatti", mentre il pollo era così secco che non c'era verso
di masticarlo. Ai duri, ma giusti rimproveri del padrone, Marfa Ignat'evna
replicò che comunque il pollo era molto vecchio e che lei non aveva mai
studiato per diventare cuoca.
Verso sera un altro guaio aspettava Fëdor
Pavloviè: gli riferirono che Grigorij, che negli ultimi tre giorni non era
stato bene, adesso era assolutamente costretto a stare a letto per il mal di
reni.
Fëdor Pavloviè finì il suo tè al più presto e si serrò in casa, tutto solo.
Si trovava in uno stato di attesa spasmodica e agitata. Il fatto è che era
convinto che Grušen'ka sarebbe andata da lui proprio quella sera; o,
almeno, Smerdjakov gli aveva dato quasi per certo quella mattina, sul
presto, che "ella aveva promesso di venire sicuramente".
Il cuore
dell'incorreggibile vecchietto batteva eccitato, egli si aggirava per le sue
stanze vuote con l'orecchio teso all'ascolto. Doveva stare all'erta: Dmitrij
Fëdoroviè poteva stare appostato da qualche parte, e quando lei avrebbe
picchiato alla finestra (Smerdjakov aveva assicurato due giorni prima a
Fëdor Pavloviè di averle riferito dove e come bussare), allora bisognava
aprire la porta al più presto, a nessun costo ella doveva rimanere un
secondo di più nell'andito per evitare che - Dio ce ne scampi - si
spaventasse e scappasse via.
Fëdor Pavloviè aveva molte cose delle quali
preoccuparsi, eppure il suo cuore non si era mai deliziato in un mare di
dolci speranze come quella sera: questa volta si poteva infatti dire, quasi
con certezza, che ella sarebbe andata da lui!
TERZO GIORNO DI GRUSHENKA
Vedi, l'ho appena ingannato, gli ho fatto promettere che mi avrebbe creduta e io invece gli ho mentito. Gli ho detto che sarei rimasta da Kuz'ma Kuz'miè, dal mio vecchio, per tutta la sera e che mi sarei trattenuta sino a notte fonda a contare il denaro. Ogni settimana vado da lui per una serata intera a tenergli i conti. Ci chiudiamo a chiave: lui batte sul pallottoliere e io lì seduta ad annotare i registri, si fida soltanto di me. Mitja ha creduto che sarei rimasta lì, e invece io mi sono chiusa in casa; me ne sto qui ad aspettare una certa notizia.
Alëša, oggi tuo fratello Mitja mi fa paura», disse Grušen'ka a voce alta, sebbene fosse in allarme; ma sembrava pure presa da una certa esultanza. «Perché hai tanta paura di Miten'ka oggi?», si informò Rakitin. «Sembrava che non fossi affatto impaurita con lui, lo comandi a bacchetta».
«Ti ho detto che aspetto una certa notizia, una piccola notizia tutta d'oro e l'ultima cosa che voglio è avere Miten'ka fra i piedi adesso. E non ci ha nemmeno creduto che sarei andata da Kuz'ma Kuz'miè, me lo sento. Quindi starà sicuramente nel suo nascondiglio, sul retro della casa di Fëdor Pavloviè nel giardino, a fare la guardia che io non arrivi. E se starà lì, non verrà qui, tanto meglio! Ma io ho davvero fatto un salto da Kuz'ma Kuz'miè, mi ci ha accompagnato Mitja stesso, gli ho detto che mi sarei trattenuta sino a mezzanotte e gli ho chiesto che venisse assolutamente a prendermi per riportarmi a casa a mezzanotte in punto. Se n'è andato, e io mi sono trattenuta una decina di minuti dal vecchio e poi sono subito tornata qui, avevo paura, ho fatto una corsa nel timore di incontrarlo»
«Il suo starec è morto oggi, lo starec Zosima, il santo».
«Padre Zosima è morto! Ma è vero?», gridò Grušen'ka. «Dio mio! E
io che non lo sapevo!». E si fece devotamente il segno di croce. «Dio mio!
E io che cosa sto facendo, gli sto seduta sulle ginocchia!», gridò ad un
tratto come spaventata, poi scivolò in tutta fretta dalle sue ginocchia e si
sedette sul divano. Alëša la guardò a lungo stupito e sembrò che il suo viso
cominciasse a raggiare
Ma ecco che adesso è
arrivato il mio oltraggiatore e io me ne sto seduta ad aspettare sue notizie.
E sai in che modo mi ha oltraggiato quell'uomo? Cinque anni fa, quando
Kuz'ma mi portò qui, io me ne stavo rintanata in casa, mi nascondevo alla
vista degli altri perché non mi vedessero e non mi sentissero, ero
magrolina e stupida, me ne stavo qui a singhiozzare, non chiudevo occhio
per notti intere e pensavo: "Dove sarà mai in questo momento il mio
oltraggiatore? Forse sta ridendo di me con un'altra, se solo lo potessi
vedere, se solo lo potessi incontrare un giorno: gliela farei pagare per
quello che mi ha fatto, gliela farei pagare!" Di notte, al buio, singhiozzavo
nel cuscino e rimuginavo su questo, mi laceravo il cuore a bella posta e lo
saziavo con la mia rabbia: "Gliela farò pagare, gliela farò pagare!" Così
gridavo al buio. Ma quando mi sovveniva di colpo che non gli avrei potuto
fare un bel niente, e che lui in quel momento forse se la rideva di me, o
forse si era completamente dimenticato di me e non mi ricordava affatto,
allora dal letto mi gettavo sul pavimento, mi scioglievo in lacrime di
impotenza e giacevo lì tremante sino all'alba. La mattina mi alzavo più
arrabbiata di una cagna, pronta a sbranare il mondo intero. E poi, sai cosa
mi misi a fare? Cominciai ad accumulare un capitale, diventai spietata, mi
rimpinguai, ma tu credi che mi sia fatta più saggia nel frattempo, eh?
Neanche per sogno: nessuno lo vede, nessuno in tutto l'universo lo sa, ma
quando si fa notte, alcune volte me ne sto sdraiata esattamente come
quando ero una ragazzina, come cinque anni fa, digrigno i denti e piango tutta la notte: "Gliela farò pagare, gliela farò pagare!", penso. Hai ascoltato
tutto quello che ti ho detto? Ecco, adesso mi puoi capire, un mese fa mi
arriva all'improvviso una lettera: è lui, sta venendo, è rimasto vedovo,
vuole vedermi. Mi sentii mancare il respiro, Santo Iddio, e all'improvviso
pensai: "Lui arriva, mi fa un fischio e io gli corro incontro come un
cagnolino bastonato, colpevole!" Penso questo e non credo a me stessa:
"Ma sono proprio così vigliacca o no? Correrò da lui oppure no?" E sono
stata in preda a quella stessa rabbia contro me stessa per tutto il mese, una
rabbia ancora peggiore di cinque anni fa. Adesso vedi, Alëša, quanto sono
violenta e vendicativa, ti ho detto proprio tutta la verità! Mi sono divertita
con Mitja per non correre da quell'altro. Sta zitto, Rakitka, non tocca a te
giudicarmi, non stavo parlando con te. Prima del vostro arrivo me ne stavo
sdraiata qui, aspettavo, pensavo, decidevo il mio destino e voi non saprete
mai che cosa provavo nel mio cuore. No, Alëša, di' alla tua signorina che
non se la prenda per quello che è avvenuto tre giorni fa!... E nessuno al
mondo saprà come mi sento in questo momento e non potrà mai saperlo...
Perché forse prenderò con me un coltello, non mi sono ancora decisa...
«Non ridere, Rakitin, non ti burlare di lui, non parlare del defunto:
egli è superiore a tutti nel mondo!», gridò Alëša con la voce rotta dal
pianto. «Non ti ho parlato come un giudice, ma come l'ultimo degli
imputati. Chi sono io davanti a lei? Ero venuto qui per rovinarmi e mi
dicevo: 'Sia quel che sia, che importa?', e questo per la mia pusillanimità,
mentre lei, dopo cinque anni di tormenti, non appena il primo arrivato le
dice una parola sincera, ha perdonato tutto, ha dimenticato tutto e piange! Il suo oltraggiatore è tornato, la chiama e lei gli perdona tutto e corre da lui
felice e non prenderà il coltello, non lo prenderà! No, io non sono come
lei! Non so come sia tu, Miša, ma io non sono come lei! Oggi, adesso ho
imparato la lezione... Ella è superiore a noi per capacità di amare... Hai
mai sentito prima quello che ha appena raccontato? No, non l'hai sentito;
se l'avessi sentito, avresti capito tutto da un pezzo... e anche la persona che
lei ha insultato due giorni fa la perdonerà! La perdonerà se verrà a sapere...
e lo verrà a sapere... Quest'anima non è ancora in pace con se stessa,
occorre essere indulgenti con essa... in quest'anima si può celare un
tesoro...
«Ci andrò!», esclamò all'improvviso. «Cinque dei miei anni! Addio!
Addio, Alëša, il mio destino è deciso... Andate, andate, andatevene via
tutti, che non vi veda mai più! Grušen'ka ha preso il volo verso una nuova
vita... Non ricordarmi con rancore nemmeno tu, Rakitka. Forse sto
andando incontro alla morte! Uh! È come se fossi ubriaca!»
Ella li abbandonò in men che non si dica e corse in camera da letto. «Be', adesso non ha più tempo di pensare a noi!», grugnì Rakitin.
«Andiamo, altrimenti ci toccherà sentire ancora tutte quelle urla femminee,
mi hanno seccato tutti questi strilli lacrimevoli».
Alëša, macchinalmente, si lasciò portare via. Nel cortile sostava una
carrozza, avevano staccato i cavalli, andavano avanti e indietro con una
lanterna, si davano un gran da fare. Introdussero i tre cavalli freschi
attraverso il portone spalancato. Alëša e Rakitin erano appena scesi dal
terrazzino d'ingresso, quando si spalancò la finestra della camera da letto
di Grušen'ka e quella, con voce squillante, gridò dietro ad Alëša:
«Alëšeèka, porta i miei saluti al tuo caro fratello Miten'ka e digli di
non serbare rancore per me, anche se gli ho fatto del male. E riferiscigli
pure queste mie parole: "A Grušen'ka è toccato un mascalzone, non un
gentiluomo come te". E digli pure che Grušen'ka lo ha amato per un'oretta,
solo per un'oretta, ma lo ha amato - che ricordi quindi quell'oretta per tutta
la vita a partire da oggi, digli che è Grušen'ka che lo ordina, per tutta la
vita».
«Che, mi "disprezzi" per i venticinque rubli di poco fa? Dirai tu: ha
venduto un amico sincero. Ma tu non sei Cristo e io non sono Giuda».
«Ah, Rakitin te lo assicuro, me n'ero persino dimenticato!», esclamò
Alëša. «Sei stato tu a ricordarmelo adesso...»
Ma ormai Rakitin aveva perso completamente le staffe.
«Ma che il diavolo vi pigli tutti, uno per uno!», strillò
inaspettatamente. «E perché diavolo mi sono attaccato a uno come te!
D'ora in poi non ti conosco più. Vattene per conto tuo, la strada è tutta
tua!»
Ed egli svoltò bruscamente in un'altra strada lasciando Alëša da solo
nell'oscurità.
ALEKSIEJ RITORNA AL MONASTERO
Alëša si lasciò alle spalle la città e proseguì verso il
monastero attraverso la campagna.
IV • Cana di Galilea
Era molto tardi, secondo le abitudini del monastero, quando Alëša
giunse all'eremo; il frate guardiano lo fece entrare in via del tutto
eccezionale. Erano appena suonate le nove: l'ora del riposo e della quiete
generale, dopo una giornata così inquietante per tutti. Alëša aprì
timidamente la porta ed entrò nella cella dello starec, dove adesso c'era la
sua bara.
Di nuovo la bara, la finestra aperta, di nuovo la pacata, solenne,
chiara lettura del Vangelo. Ma Alëša non prestava più ascolto a quanto si
leggeva.
Strano: si era addormentato in ginocchio, mentre adesso si
trovava in piedi; poi, ad un tratto, come se lo qualcosa lo spingesse in
avanti, con tre rapidi passi egli si accostò alla bara. Sfiorò persino padre
Paisij con la spalla, senza nemmeno accorgersene. Questi per un istante
fece per sollevare verso di lui lo sguardo, ma poi lo distolse subito,
comprendendo che al ragazzo era accaduto qualcosa di inconsueto. Alëša
si trattenne a guardare la bara per mezzo minuto, guardava il cadavere
coperto, immobile, allungato nella bara, con un'icona sul petto e il cappuccio con la croce a otto punte sul capo. Aveva appena udito la sua
voce ed essa gli risuonava ancora nelle orecchie. Egli si mise ancora
all'ascolto, in attesa di altre parole... ma all'improvviso, giratosi
bruscamente, egli uscì dalla cella.
FUORI NELLA NOTTE STELLATA
Non si soffermò nemmeno sul terrazzino d'ingresso, ma scese
rapidamente giù per le scale. La sua anima traboccante anelava alla libertà,
allo spazio, all'infinito. La volta celeste, punteggiata di placide stelle
splendenti, si stendeva ampia e sconfinata sopra di lui. La Via Lattea si
allungava in due pallide striature dallo zenit all'orizzonte. La notte fresca e
tranquilla sino all'immobilità avvolgeva la terra intera. Le bianche torri e le
cupole dorate della cattedrale rilucevano sullo sfondo del cielo color
zaffiro. I lussureggianti fiori autunnali delle aiuole intorno alla casa si
erano assopiti in attesa del giorno. Il silenzio della terra sembrava fondersi
con quello del cielo, il segreto della terra faceva tutt'uno con quello delle
stelle... Alëša stava in piedi, ad osservare la notte, quando ad un tratto si
gettò di colpo per terra.