lunedì 29 maggio 2017

TERZO GIORNO di IVAN E FEDOR

TERZO GIORNO DI IVAN
... si svegliò presto, verso le sette, ad alba fatta. Aprendo gli occhi, fu sorpreso di sentirsi pieno di un'insolita energia, balzò rapidamente giù dal letto e si vestì in fretta, poi tirò fuori la valigia e cominciò subito a riempirla. La biancheria gli era arrivata giusto la mattina prima dalla lavandaia. Ivan Fëdoroviè sorrise persino al pensiero che tutto contribuisse a facilitare l'improvvisa partenza. E la sua partenza era senza dubbio improvvisa. Sebbene Ivan Fëdoroviè avesse detto il giorno prima (a Katerina Ivanovna, ad Alëša e poi a Smerdjakov) che sarebbe partito l'indomani, si ricordò di non aver affatto pensato alla partenza quando era andato a letto o, almeno, non aveva minimamente pensato che la prima cosa che avrebbe fatto l'indomani, svegliandosi, sarebbe stata quella di affrettarsi a fare le valigie. Finalmente la valigia e la borsa da viaggio furono pronte: erano all'incirca le nove quando Marfa Ignat'evna entrò nella sua stanza con la solita domanda di ogni giorno: "Dove volete prendere il tè, in camera o di sotto?" Ivan Fëdoroviè scese con un'aria quasi allegra, sebbene in lui, nelle sue parole, nei suoi gesti ci fosse qualcosa di scomposto e affrettato. Dopo aver affabilmente salutato il padre ed essersi premurosamente informato sulla sua salute - senza aspettare tuttavia che il padre finisse di rispondere - egli gli annunciò che sarebbe partito per Mosca di lì a un'ora, per sempre, e gli chiese di mandare a prendere i cavalli al più presto.
FEDOR CHIEDE AD IVAN DI ANDARE A Cermašnja
Il vecchio ascoltò la notizia senza manifestare la minima meraviglia, e dimenticò, in modo a dir poco sconveniente, di rammaricarsi per la partenza del caro figliolo. Invece si mise subito in agitazione, come ricordando, a proposito, un suo affare personale della massima importanza. «Che tipo che sei! Potevi dirmelo ieri... ma non fa niente, sistemeremo ogni cosa lo stesso. Fammi un grande favore, ragazzo mio, passa da Èermašnja. Devi soltanto svoltare a sinistra alla stazione di Volov'ja, in tutto una dozzina di verste e sei arrivato a Èermašnja». 
 «Spiacente, ma non posso: è a ottanta verste dalla ferrovia 
e il treno per Mosca parte dalla stazione alle sette di sera, faccio appena in tempo a prenderlo». 
 «Lo prenderai domani o dopodomani, ma oggi svolta a Èermašnja. Che ti costa far contento tuo padre? 
CONGEDO
«Be', va' con Dio, va' con Dio!», gli ripeteva dal terrazzino. «Tornerai ancora, una volta o l'altra nella vita? Cerca di venire, ne sarò sempre felice. Be', che Cristo ti accompagni!» Ivan Fëdoroviè salì in carrozza. «Addio, Ivan, non mi biasimare troppo!», gli gridò il padre per ultimo. La servitù al completo era uscita per salutarlo: 
Smerdjakov, Marfa Ignat'evna e Grigorij. 
Ivan Fëdoroviè regalò loro dieci rubli a testa. Quando fu seduto in carrozza, Smerdjakov gli balzò accanto per sistemargli la coperta da viaggio. «Vedi...sto andando a Èermašnja...», sfuggì a Ivan Fëdoroviè; ancora una volta, come il giorno prima, le parole gli uscirono involontariamente e accompagnate da un risolino nervoso. 
Ricordò a lungo questo fatto. 
 «Vuol dire che la gente ha ragione quando dice che anche due chiacchiere, con un uomo intelligente, sono interessanti», replicò con fermezza Smerdjakov, guardando con aria significativa Ivan Fëdoroviè. 

IVAN IN VIAGGIO


La carrozza dette uno scossone e partì a spron battuto.

Tutto era confuso nell'anima del viaggiatore, ma egli guardava avidamente i campi tutt'intorno, le colline, gli alberi, gli stormi di oche che volavano alto nel
cielo limpido. E sentì un improvviso benessere. Provò ad attaccare discorso con il vetturino e si interessò enormemente alle risposte che il contadino gli dava, ma un minuto dopo si rese conto che non aveva nemmeno prestato orecchio a quanto diceva il contadino e che neppure aveva capito quello che rispondeva.
Tacque, ma stava bene anche così: l'aria era tersa, fresca, pungente, il cielo era limpido. Fecero per balenargli in mente le immagini di Alëša e di Katerina Ivanovna, ma sorrise dolcemente e dolcemente soffiò via i loro cari fantasmi, ed essi svanirono. "Ci sarà tempo anche per loro", pensò. 


CAMBIAMENTO DI PROGRAMMA
 

Raggiunsero presto la stazione, cambiarono i cavalli e partirono al galoppo alla volta di Volov'ja. "Perché anche due chiacchiere, con un uomo intelligente, sono interessanti?" Che cosa aveva voluto dire? Questo pensiero sembrò togliergli il respiro. "E perché io gli ho detto che andavo a Èermašnja?" 

Raggiunsero di gran carriera la stazione di Volov'jà. Ivan Fëdoroviè scese dalla carrozza e i vetturini gli si fecero intorno. Mercanteggiarono il prezzo per portarlo a Èermašnja, dodici verste di strada vicinale, su cavalli privati. Egli ordinò di attaccare i cavalli. Entrò dentro la stazione di posta, si guardò intorno, gettò uno sguardo alla moglie del sorvegliante e subito tornò sul terrazzino d'ingresso. 

 «Non serve andare a Èermašnja. Faccio in tempo a raggiungere la stazione ferroviaria per le sette, fratelli?» «Vi accontenteremo subito. Attacchiamo i cavalli, allora?» «Immediatamente. Qualcuno di voi si reca in città domani?» «Come no, ci andrà Mitrij ». «Puoi farmi un servizio, Mitrij? Va' da mio padre, da Fëdor Pavloviè Karamazov e digli che non sono andato a Èermašnja. Puoi farlo?» «Perché no, ci passerò; conosciamo da un pezzo Fëdor Pavloviè». «Eccoti qualcosa per il tè, perché credo che lui non ti darà nulla...», scoppiò a ridere allegramente Ivan Fëdoroviè. «Ci potete scommettere che non mi darà nulla», si mise a ridere anche Mitrij. «Grazie signore, eseguirò senz'altro...» 

 Alle sette di sera Ivan Fëdoroviè saliva sul treno e partiva per Mosca. 
 "Alle spalle il passato, ho chiuso con il vecchio mondo per sempre, che non me ne giunga più alcuna notizia, alcuna eco; verso un nuovo mondo, verso luoghi nuovi, senza più guardare indietro". Ma invece che dall'entusiasmo, la sua anima fu invasa all'improvviso dalle tenebre e il suo cuore si riempì di una tristezza quale non aveva mai provato in vita sua. Passò tutta la notte a pensare, intanto il treno viaggiava veloce; 
solo verso l'alba, alle porte di Mosca, fu come se tornasse in sé.
 «Sono un vigliacco!», sussurrò a se stesso.

TERZO GIORNO DI FEDOR
Invece Fëdor Pavloviè, dopo aver accompagnato il figlio, rimase molto soddisfatto. 
Per due ore buone si sentì quasi felice mentre sorseggiava il suo cognacchino. 

Ma ad un tratto, in casa successe un incidente molto fastidioso ed estremamente spiacevole per tutti, che sconvolse in un baleno la disposizione di spirito di Fëdor Pavloviè: Smerdjakov era andato in cantina a prendere qualcosa ed era caduto dalla cima della scala. Per fortuna Marfa Ignat'evna in quel momento si trovava nel cortile e aveva sentito in tempo. Non aveva assistito alla caduta, però aveva sentito un urlo, un urlo particolare, strano, ma che conosceva da tempo: il grido dell'epilettico in preda ad un attacco. Nessuno fu in grado di stabilire se l'attacco gli fosse venuto mentre scendeva gli scalini - in questo caso doveva essere cascato in stato di incoscienza, oppure, al contrario, se l'attacco fosse sopravvenuto in Smerdjakov, epilettico dichiarato, in seguito alla caduta e all'agitazione; fatto sta che lo trovarono che si dibatteva sul pavimento della cantina, in preda a brividi e convulsioni, con la bava alla bocca. All'inizio pensarono che si fosse rotto qualcosa, un braccio o una gamba, e che si fosse storpiato, invece "Dio lo aveva risparmiato", come si espresse Marfa Ignat'evna: non era accaduto nulla del genere, solo che fu difficile tirarlo fuori dalla cantina alla luce del sole. Ma chiesero aiuto ai vicini e in un modo o nell'altro ce la fecero. Fëdor Pavloviè in persona assistette a tutta la cerimonia, anche lui dette una mano, visibilmente spaventato a morte e come smarrito. Il malato, però, non riacquistò conoscenza: anche se gli attacchi cessavano ad intervalli, si rinnovavano in continuazione e tutti giunsero alla conclusione che sarebbe accaduta la stessa cosa dell'anno prima, quando era accidentalmente caduto giù dalla soffitta. Si ricordarono che quella volta gli avevano messo il ghiaccio in testa. C'era ancora del ghiaccio in cantina e Marta Ignat'evna provvide a prenderlo e applicarlo, mentre Fëdor Pavloviè, verso sera, mandò a chiamare il dottor Gercenštube che si presentò immediatamente. Sottopose il malato ad una visita accurata (era il medico più accurato e scrupoloso di tutto il governatorato, un vecchietto avanti con gli anni e rispettabilissimo), e concluse che si era trattato di un gravissimo attacco che "poteva minacciare serie conseguenze" e che dal momento che lui, Gercenštube, non aveva ancora capito del tutto, l'indomani mattina, se non avessero apportato beneficio i rimedi somministrati, ne avrebbe adottati degli altri. Il malato fu trasportato alla dipendenza, nella stanzetta accanto alle stanze di Grigorij e Marfa Ignat'evna. Nel resto della giornata, 

Fëdor Pavloviè dovette subire una disgrazia dopo l'altra: toccò a Marfa Ignat'evna preparare il pranzo e la sua zuppa, in confronto a quella di Smerdjakov, riuscì "pari pari alla risciacquatura dei piatti", mentre il pollo era così secco che non c'era verso di masticarlo. Ai duri, ma giusti rimproveri del padrone, Marfa Ignat'evna replicò che comunque il pollo era molto vecchio e che lei non aveva mai studiato per diventare cuoca. 

Verso sera un altro guaio aspettava Fëdor Pavloviè: gli riferirono che Grigorij, che negli ultimi tre giorni non era stato bene, adesso era assolutamente costretto a stare a letto per il mal di reni. 

Fëdor Pavloviè finì il suo tè al più presto e si serrò in casa, tutto solo. Si trovava in uno stato di attesa spasmodica e agitata. Il fatto è che era convinto che Grušen'ka sarebbe andata da lui proprio quella sera; o, almeno, Smerdjakov gli aveva dato quasi per certo quella mattina, sul presto, che "ella aveva promesso di venire sicuramente". 

Il cuore dell'incorreggibile vecchietto batteva eccitato, egli si aggirava per le sue stanze vuote con l'orecchio teso all'ascolto. Doveva stare all'erta: Dmitrij Fëdoroviè poteva stare appostato da qualche parte, e quando lei avrebbe picchiato alla finestra (Smerdjakov aveva assicurato due giorni prima a Fëdor Pavloviè di averle riferito dove e come bussare), allora bisognava aprire la porta al più presto, a nessun costo ella doveva rimanere un secondo di più nell'andito per evitare che - Dio ce ne scampi - si spaventasse e scappasse via. 

Fëdor Pavloviè aveva molte cose delle quali preoccuparsi, eppure il suo cuore non si era mai deliziato in un mare di dolci speranze come quella sera: questa volta si poteva infatti dire, quasi con certezza, che ella sarebbe andata da lui!



TERZO GIORNO DI GRUSHENKA
Vedi, l'ho appena ingannato, gli ho fatto promettere che mi avrebbe creduta e io invece gli ho mentito. Gli ho detto che sarei rimasta da Kuz'ma Kuz'miè, dal mio vecchio, per tutta la sera e che mi sarei trattenuta sino a notte fonda a contare il denaro. Ogni settimana vado da lui per una serata intera a tenergli i conti. Ci chiudiamo a chiave: lui batte sul pallottoliere e io lì seduta ad annotare i registri, si fida soltanto di me. Mitja ha creduto che sarei rimasta lì, e invece io mi sono chiusa in casa; me ne sto qui ad aspettare una certa notizia.

 Alëša, oggi tuo fratello Mitja mi fa paura», disse Grušen'ka a voce alta, sebbene fosse in allarme; ma sembrava pure presa da una certa esultanza. «Perché hai tanta paura di Miten'ka oggi?», si informò Rakitin. «Sembrava che non fossi affatto impaurita con lui, lo comandi a bacchetta». 
 «Ti ho detto che aspetto una certa notizia, una piccola notizia tutta d'oro e l'ultima cosa che voglio è avere Miten'ka fra i piedi adesso. E non ci ha nemmeno creduto che sarei andata da Kuz'ma Kuz'miè, me lo sento. Quindi starà sicuramente nel suo nascondiglio, sul retro della casa di Fëdor Pavloviè nel giardino, a fare la guardia che io non arrivi. E se starà lì, non verrà qui, tanto meglio! Ma io ho davvero fatto un salto da Kuz'ma Kuz'miè, mi ci ha accompagnato Mitja stesso, gli ho detto che mi sarei trattenuta sino a mezzanotte e gli ho chiesto che venisse assolutamente a prendermi per riportarmi a casa a mezzanotte in punto. Se n'è andato, e io mi sono trattenuta una decina di minuti dal vecchio e poi sono subito tornata qui, avevo paura, ho fatto una corsa nel timore di incontrarlo»


 «Il suo starec è morto oggi, lo starec Zosima, il santo». «Padre Zosima è morto! Ma è vero?», gridò Grušen'ka. «Dio mio! E io che non lo sapevo!». E si fece devotamente il segno di croce. «Dio mio! E io che cosa sto facendo, gli sto seduta sulle ginocchia!», gridò ad un tratto come spaventata, poi scivolò in tutta fretta dalle sue ginocchia e si sedette sul divano. Alëša la guardò a lungo stupito e sembrò che il suo viso cominciasse a raggiare
Ma ecco che adesso è arrivato il mio oltraggiatore e io me ne sto seduta ad aspettare sue notizie. E sai in che modo mi ha oltraggiato quell'uomo? Cinque anni fa, quando Kuz'ma mi portò qui, io me ne stavo rintanata in casa, mi nascondevo alla vista degli altri perché non mi vedessero e non mi sentissero, ero magrolina e stupida, me ne stavo qui a singhiozzare, non chiudevo occhio per notti intere e pensavo: "Dove sarà mai in questo momento il mio oltraggiatore? Forse sta ridendo di me con un'altra, se solo lo potessi vedere, se solo lo potessi incontrare un giorno: gliela farei pagare per quello che mi ha fatto, gliela farei pagare!" Di notte, al buio, singhiozzavo nel cuscino e rimuginavo su questo, mi laceravo il cuore a bella posta e lo saziavo con la mia rabbia: "Gliela farò pagare, gliela farò pagare!" Così gridavo al buio. Ma quando mi sovveniva di colpo che non gli avrei potuto fare un bel niente, e che lui in quel momento forse se la rideva di me, o forse si era completamente dimenticato di me e non mi ricordava affatto, allora dal letto mi gettavo sul pavimento, mi scioglievo in lacrime di impotenza e giacevo lì tremante sino all'alba. La mattina mi alzavo più arrabbiata di una cagna, pronta a sbranare il mondo intero. E poi, sai cosa mi misi a fare? Cominciai ad accumulare un capitale, diventai spietata, mi rimpinguai, ma tu credi che mi sia fatta più saggia nel frattempo, eh? Neanche per sogno: nessuno lo vede, nessuno in tutto l'universo lo sa, ma quando si fa notte, alcune volte me ne sto sdraiata esattamente come quando ero una ragazzina, come cinque anni fa, digrigno i denti e piango tutta la notte: "Gliela farò pagare, gliela farò pagare!", penso. Hai ascoltato tutto quello che ti ho detto? Ecco, adesso mi puoi capire, un mese fa mi arriva all'improvviso una lettera: è lui, sta venendo, è rimasto vedovo, vuole vedermi. Mi sentii mancare il respiro, Santo Iddio, e all'improvviso pensai: "Lui arriva, mi fa un fischio e io gli corro incontro come un cagnolino bastonato, colpevole!" Penso questo e non credo a me stessa: "Ma sono proprio così vigliacca o no? Correrò da lui oppure no?" E sono stata in preda a quella stessa rabbia contro me stessa per tutto il mese, una rabbia ancora peggiore di cinque anni fa. Adesso vedi, Alëša, quanto sono violenta e vendicativa, ti ho detto proprio tutta la verità! Mi sono divertita con Mitja per non correre da quell'altro. Sta zitto, Rakitka, non tocca a te giudicarmi, non stavo parlando con te. Prima del vostro arrivo me ne stavo sdraiata qui, aspettavo, pensavo, decidevo il mio destino e voi non saprete mai che cosa provavo nel mio cuore. No, Alëša, di' alla tua signorina che non se la prenda per quello che è avvenuto tre giorni fa!... E nessuno al mondo saprà come mi sento in questo momento e non potrà mai saperlo... Perché forse prenderò con me un coltello, non mi sono ancora decisa...

«Non ridere, Rakitin, non ti burlare di lui, non parlare del defunto: egli è superiore a tutti nel mondo!», gridò Alëša con la voce rotta dal pianto. «Non ti ho parlato come un giudice, ma come l'ultimo degli imputati. Chi sono io davanti a lei? Ero venuto qui per rovinarmi e mi dicevo: 'Sia quel che sia, che importa?', e questo per la mia pusillanimità, mentre lei, dopo cinque anni di tormenti, non appena il primo arrivato le dice una parola sincera, ha perdonato tutto, ha dimenticato tutto e piange! Il suo oltraggiatore è tornato, la chiama e lei gli perdona tutto e corre da lui felice e non prenderà il coltello, non lo prenderà! No, io non sono come lei! Non so come sia tu, Miša, ma io non sono come lei! Oggi, adesso ho imparato la lezione... Ella è superiore a noi per capacità di amare... Hai mai sentito prima quello che ha appena raccontato? No, non l'hai sentito; se l'avessi sentito, avresti capito tutto da un pezzo... e anche la persona che lei ha insultato due giorni fa la perdonerà! La perdonerà se verrà a sapere... e lo verrà a sapere... Quest'anima non è ancora in pace con se stessa, occorre essere indulgenti con essa... in quest'anima si può celare un tesoro...

«Ci andrò!», esclamò all'improvviso. «Cinque dei miei anni! Addio! Addio, Alëša, il mio destino è deciso... Andate, andate, andatevene via tutti, che non vi veda mai più! Grušen'ka ha preso il volo verso una nuova vita... Non ricordarmi con rancore nemmeno tu, Rakitka. Forse sto andando incontro alla morte! Uh! È come se fossi ubriaca!» Ella li abbandonò in men che non si dica e corse in camera da letto. «Be', adesso non ha più tempo di pensare a noi!», grugnì Rakitin. «Andiamo, altrimenti ci toccherà sentire ancora tutte quelle urla femminee, mi hanno seccato tutti questi strilli lacrimevoli». Alëša, macchinalmente, si lasciò portare via. Nel cortile sostava una carrozza, avevano staccato i cavalli, andavano avanti e indietro con una lanterna, si davano un gran da fare. Introdussero i tre cavalli freschi attraverso il portone spalancato. Alëša e Rakitin erano appena scesi dal terrazzino d'ingresso, quando si spalancò la finestra della camera da letto di Grušen'ka e quella, con voce squillante, gridò dietro ad Alëša: «Alëšeèka, porta i miei saluti al tuo caro fratello Miten'ka e digli di non serbare rancore per me, anche se gli ho fatto del male. E riferiscigli pure queste mie parole: "A Grušen'ka è toccato un mascalzone, non un gentiluomo come te". E digli pure che Grušen'ka lo ha amato per un'oretta, solo per un'oretta, ma lo ha amato - che ricordi quindi quell'oretta per tutta la vita a partire da oggi, digli che è Grušen'ka che lo ordina, per tutta la vita».

«Che, mi "disprezzi" per i venticinque rubli di poco fa? Dirai tu: ha venduto un amico sincero. Ma tu non sei Cristo e io non sono Giuda». «Ah, Rakitin te lo assicuro, me n'ero persino dimenticato!», esclamò Alëša. «Sei stato tu a ricordarmelo adesso...» Ma ormai Rakitin aveva perso completamente le staffe. «Ma che il diavolo vi pigli tutti, uno per uno!», strillò inaspettatamente. «E perché diavolo mi sono attaccato a uno come te! D'ora in poi non ti conosco più. Vattene per conto tuo, la strada è tutta tua!» Ed egli svoltò bruscamente in un'altra strada lasciando Alëša da solo nell'oscurità. 

ALEKSIEJ RITORNA AL MONASTERO

Alëša si lasciò alle spalle la città e proseguì verso il monastero attraverso la campagna. 
 IV • Cana di Galilea 

 Era molto tardi, secondo le abitudini del monastero, quando Alëša giunse all'eremo; il frate guardiano lo fece entrare in via del tutto eccezionale. Erano appena suonate le nove: l'ora del riposo e della quiete generale, dopo una giornata così inquietante per tutti. Alëša aprì timidamente la porta ed entrò nella cella dello starec, dove adesso c'era la sua bara.

 Di nuovo la bara, la finestra aperta, di nuovo la pacata, solenne, chiara lettura del Vangelo. Ma Alëša non prestava più ascolto a quanto si leggeva. 

Strano: si era addormentato in ginocchio, mentre adesso si trovava in piedi; poi, ad un tratto, come se lo qualcosa lo spingesse in avanti, con tre rapidi passi egli si accostò alla bara. Sfiorò persino padre Paisij con la spalla, senza nemmeno accorgersene. Questi per un istante fece per sollevare verso di lui lo sguardo, ma poi lo distolse subito, comprendendo che al ragazzo era accaduto qualcosa di inconsueto. Alëša si trattenne a guardare la bara per mezzo minuto, guardava il cadavere coperto, immobile, allungato nella bara, con un'icona sul petto e il cappuccio con la croce a otto punte sul capo. Aveva appena udito la sua voce ed essa gli risuonava ancora nelle orecchie. Egli si mise ancora all'ascolto, in attesa di altre parole... ma all'improvviso, giratosi bruscamente, egli uscì dalla cella. 

FUORI NELLA NOTTE STELLATA
Non si soffermò nemmeno sul terrazzino d'ingresso, ma scese rapidamente giù per le scale. La sua anima traboccante anelava alla libertà, allo spazio, all'infinito. La volta celeste, punteggiata di placide stelle splendenti, si stendeva ampia e sconfinata sopra di lui. La Via Lattea si allungava in due pallide striature dallo zenit all'orizzonte. La notte fresca e tranquilla sino all'immobilità avvolgeva la terra intera. Le bianche torri e le cupole dorate della cattedrale rilucevano sullo sfondo del cielo color zaffiro. I lussureggianti fiori autunnali delle aiuole intorno alla casa si erano assopiti in attesa del giorno. Il silenzio della terra sembrava fondersi con quello del cielo, il segreto della terra faceva tutt'uno con quello delle stelle... Alëša stava in piedi, ad osservare la notte, quando ad un tratto si gettò di colpo per terra.